La complessa e stratificata operazione di smascheramento della parzialità del maschile coincide con l’emergere come corpi parlanti di soggettività eccentriche non-maschili o maschili «non egemoniche».
(Ewyn Connel, Maschilità, identità e trasformazione del maschio occidentale)
Se cercare di trovare un punto di partenza per parlare del teatro di Caryl Churchill è, senza ombra di dubbio, un’operazione titanica, iniziare dal concetto di opposizione a una rappresentatività rodata si prospetta come un tentativo indubbiamente fertile.
Drammaturga attiva da oltre sessant’anni, una personalità come quella di Churchill sfugge le agiografie, le santificazioni e le definizioni, restia alle interviste e ad apparire in pubblico, la sua è un’entità scomoda e non rassicurante, per utilizzare la felice definizione che l’autrice conia nel 1960.
Il suo modo obliquo di abitare la storia del teatro, tuttavia, non gli ha impedito di essere annoverata come una delle voci più incisive e innovanti del teatro inglese.
La storia della sua fortuna sulle scene italiane rimane tuttavia travagliata, o , piuttosto, fantasmatica, fatta di sporadiche apparizioni, all’interno di contesti d’avanguardia, come il lavoro di Teatro i a Milano o della compagnia Bluemotion, guidata da Giorgina Pi, a cui si deve il merito, insieme all’attività del collettivo Angelo Mai e del lavoro instancabile della studiosa Paola Bono, di aver tradotto, in Italiano, ormai quasi la totalità dei testi di Churchill.
Cosa cambia dunque? Perchè una voce così prolifica, a cui il Royal Court-Theatre di Londra ha dedicato una retrospettiva, rappresentata a La Schaubühne di Berlino, all’Odéon-Théâtre di Parigi, onnivora e omnicomprensiva, non riesce a imporsi nei circuiti dei nostri teatri?
Una risposta univoca e diretta a questa domanda, oltre che anacronistica, sarebbe un tradimento al modus operandi dell’autrice, che comanda e direziona le sue drammaturgie su binari tutt’altro che comodi e unidirezionali.
Sicuramente uno dei punti di partenza è la caratterizzazione riservata personaggi nell’opera di Churchyll, vere e proprie identità eccentriche come dice la sociologa australiana Ewyn Connell in apertura.
Scorrendo le note introduttive e l’elenco dei caratteri che abitano i testi della drammaturga le definizioni sono strane e difficili da figurare immediatamente: tanti bambini, un fantasma, un vampiro un uccello, mettendo in scena un testo con tali premesse diventa congenito chiedersi: quanti bambini? Che tipo di uccello? Di che fantasma si tratta?
La questione, tuttavia, non si risolve mai in un facile e ovvio surrealismo, è sempre più complessa e , soprattutto, mai retorica, come complessa e mai retorica è la quotidianità di cui Churchill si occupa.
Ogni testo è profondamente imbevuto della storia e dell’attualità di cui l’autrice è abitante in quel determinato frangente temporale, passando i decenni e riuscendo a discuterne con la lucidità cristallina che caratterizza il suo linguaggio. Dal conflitto israelo-palestinese, passando per la guerra del Vietnam, ma anche gli abusi sulle donne nell’era del Me Too e le falle disfunzionali del sistema famiglia in contesti patriarcali.
Tornando al teatro italiano c’è uno spettro che si aggira, ingombrante e difficile da ignorare, la tradizione della Commedia dell’Arte, i cui ingredienti fondamentali sono la riconoscibilità dei caratteri, la presenza di modelli e una tradizione recitativa che si fa forza della maestria del singolo attore nel riprodurre una tipizzazione efficace, a prescindere dalle barriere linguistiche, dunque immediatamente riconoscibile.
Caryl Churchill svita i bulloni di questa macchina, e la riempie di elementi discordanti, nuovi, strani e fastidiosi, che disorientano lo spettatore. Chi è in scena, non è infatti propriamente un personaggio, ma l’emersione di un corpo-parlante Non ci si può in alcun modo prestare a un tentativo di caratterizzazione tradizionale, né cercare di pensare gli abitanti delle sue drammaturgie come autonomi, sia rispetto alla contemporaneità che al testo. Se dunque a essere in scena non sono più gli eredi di Tristano Martinelli, gloriosi e abili nei loro costumi variopinti, ma le falle del sistema famiglia, le colpe nelle guerre e della storia, la fruizione si complica e lo spettatore autoctono del teatro tradizionale fatica ancora ad abituarsi ad avere paura e non essere rassicurati.
Nata a Pescara nel 1995, diplomata al Liceo Classico G.D’Annunzio di Pescara nel 2014, consegue la doppia laurea in Filologia Moderna e Études Italiennes all’interno del progetto di codiploma fra l’Università la Sapienza di Roma e La Sorbonne Université di Parigi con una tesi dal titolo La Nuit des Rois di Thomas Ostermeier alla Comédie-Française: per una definizione di transnazionalità a teatro. , svolgendo inoltre ricerca archivistica presso la biblioteca della Comédie-Française. Scrive per diverse testate online di critica e approfondimento teatrale, occupandosi soprattutto di studiare gli intrecci fra i linguaggi e le estetiche dei vari teatri nazionali europei.