Di Lucrezia Ercolani
L’articolo fa parte del secondo numero della rivista “LO SCANDAGLIO” dedicato alla violenza in scena.
«La violenza è molto presente nel nostro lavoro perché il mondo è violento verso l’individuo, sempre. E questo aspetto fa parte del teatro sin dalle sue espressioni più antiche». Lo affermava Tanya Beyeler, fondatrice della compagnia spagnola El Conde de Torrefiel, lo scorso settembre durante un incontro all’Accademia di Spagna a Roma nell’ambito del festival Short Theatre. La violenza del teatro, in questa visione, sarebbe un sintomo della violenza già presente nel mondo. Si tratta di uno «svelamento» salutare rispetto al complesso intreccio di realtà e finzione di cui, secondo la concezione della compagnia, è costellata la nostra quotidianità. Beyeler lo spiegava in un’intervista al «manifesto»: «Siamo arrivati al punto in cui è veramente difficile distinguere il vero dal falso. Vogliamo cercare di capire come si possa tradurre teatralmente questa sensazione, che abbiamo chiamato “ultrafiction”. Ci interessa esplorare la nozione del confine, penso che il livello di realtà o di finzione dipenda dal luogo in cui ci si trova, se più o meno vicino al confine. La vaschetta con la carne che compro dal macellaio è una composizione, un artificio, mentre se mi avvicino alla soglia del mattatoio trovo un’altra realtà, nonostante facciano parte della stessa storia. È in atto una guerra di pensiero a proposito di come strutturare e mantenere il sistema che credo abbia molto a che vedere con i confini: a seconda del luogo in cui ci si posiziona la storia cambia, lo vediamo ad esempio con la questione dell’immigrazione».
L’esempio della vaschetta di carne illustra come rimanga spesso un lato «ombra» nei processi, e quel lato rappresenta esattamente la violenza necessaria affinché quel prodotto venga realizzato. La concezione dello “spettacolo” di Guy Debord esalta questo tema: l’apparato culturale e immaginifico della società dei consumi servirebbe precisamente allo stesso scopo. Scriveva: «Forma e contenuto dello spettacolo sono ambedue l’identica giustificazione totale delle condizioni e dei fini del sistema esistente» (La società dello spettacolo, capitolo 1, tesi 6).
Scrostare le immagini dalla patina con cui vengono offerte e vendute allo sguardo, far riemergere il conflitto insito nella dinamica sociale, il negativo inteso anche come morte che minaccia costantemente la vita, diventa una strategia che si oppone a quella obnubilante della società spettacolare. Come fare spazio, tuttavia, a queste asperità ricche di senso? Basterà agire sul contenuto della rappresentazione scenica, insistere sulla violenza e sulla morte? Non è questo approccio morboso o pornografico che interessa El Conde. È piuttosto nella forma di un anti-spettacolo che si prende di mira lo spettacolo inteso come forma del mondo.
La concezione di un teatro che rompa il suo legame con lo spettacolo richiama quella di Carmelo Bene agli inizi degli anni ’90. Nel volume collettivo intitolato Il teatro senza spettacolo (Marsilio, 1990) si cercava di mettere a fuoco il teatro come non-luogo della storia: il teatro «è quel quid che la storia estromette» (p. 13). L’elaborazione di CB per cercare un teatro che abdichi alla rappresentazione tradizionalmente intesa (ovvero corrispondente alle unità aristoteliche di tempo, luogo e azione) arrivava al rifiuto del testo e all’esaltazione dell’attorialità che supera l’attore stesso nella macchina attoriale, una figura pressoché superumana dove la pura enunciazione può esistere autonomamente.
L’operazione portata avanti da El Conde de Torrefiel arriva a conclusioni simili, seppur attraverso un procedimento sostanzialmente opposto. ULTRAFICCIÓN nr. 1 / Fracciones de tiempo, presentato per la prima volta in Italia a Santarcangelo nel 2021, ha conosciuto un nuovo allestimento sulle sponde del Tevere, a Roma, per il già citato focus di Short Theatre. È uno spettacolo-epifania che porta alle estreme conseguenze la linea già praticata dalla compagnia nei suoi lavori più noti come Guerrilla e La Plaza. Dopo i corpi evanescenti e dis-identificati, ULTRAFICCIÓN nega del tutto i corpi e la presenza degli attori, se non in uno spazio estraneo al palcoscenico, che smargina dunque rispetto a quella finzione che si pretende di accettare come «vera», a teatro, dal macellaio o a bordo di un aereo, quando semplicemente si rimuove buona parte dell’esperienza che si sta compiendo per non esserne disturbati. È lo stesso che avviene con la grande tragedia dei migranti che tentano di arrivare in Europa e muoiono tutti i giorni a pochi metri dalle nostre coste. L’intreccio di queste storie emerge dal testo, che occupa tutto lo spazio della scena, spogliato da ogni altra presenza. Come hanno più volte spiegato Pablo Gisbert e Beyeler, lo spettacolo deve avvenire nella testa dello spettatore.
Quello del Conde potrebbe sembrare un teatro post-umano, che fa a meno dell’agentività dell’attore sulla scena, ma ciò che accade – sul palco o fuori di esso – si rivolge ancor più direttamente allo spettatore, vero protagonista, che ha la possibilità di confrontarsi col suo vuoto. In questo spazio nero può nascere la consapevolezza di ciò che è stato tolto in precedenza. Non si cerca più di coprire ciò che è contraddittorio, assente, fallace. «Il nostro è un teatro realistico, la multi possibilità è più realistica del teatro di Cechov. Parlare di una cosa, mostrarne un’altra e ascoltarne un’altra ancora è più reale perché abitualmente siamo qui e pensiamo all’indietro o in avanti. Questa contraddizione crea di per sé un movimento», affermavano.
Il teatro de El Conde de Torrefiel non elimina del tutto la narrazione, adotta però il lacerto, il racconto breve, le “frazioni di tempo”, con cui ogni volta illumina angoli di complessità, di com-presenza e contraddizione. E le due realtà parallele narrate in ULTRAFICCIÓN, l’estrema turbolenza che coglie un aereo in volo sull’Europa e una barca di migranti che rischia di naufragare nel Mediterraneo, ci dicono come sia la morte la presenza che più di tutte tentiamo di rimuovere attraverso questa manipolazione narrativa del mondo che ci circonda. La nostra possibile morte, ma anche quella degli altri esseri.
La morte opera quindi uno svelamento nella fiction quotidiana, riportandoci alla nostra autentica natura finita. «Il giorno è pieno di finzioni che ci fanno andare, camminare. Ma quando arriva la morte è come un peso gravitazionale che ferma la fiction della vita. Ma poi quest’ultima riprende. Uno spettacolo di teatro è una partitura artificiale, ci piace quando arriva qualcosa che ferma questa fiction e che ne cambia il percorso» spiegavano Beyeler e Gisbert a Short Theatre. Naturalmente, possiamo immaginare anche altre forme di “interruzione”: la rivoluzione, come la intendeva Walter Benjamin, è una di esse. È un avvenimento – necessariamente violento? – che sbaraglia tutte le fiction prodotte e accettate come “vere” nella società capitalista dello spettacolo.
L’ambizione di ULTRAFICCIÓN è quella di farci esperire una forma teatrale di quell’interruzione. Per uno spettatore di teatro, la rivoluzione sarà necessariamente uscire dallo spettacolo, “svegliarlo” da quel sogno, da quella finzione, pur rimanendovi all’interno a qualche titolo, pena la fine del processo. La compagnia ci porta in questa condizione gradualmente, prima attraverso una commistione tra il dentro e il fuori della “storia” – adattando quindi ogni volta la vicenda narrata in modo da aderire al contesto vissuto dal pubblico. E poi, infine, con l’irruzione di un “evento” a tutti gli effetti, un avvenimento che sopravanza ogni significato e che chiede solo di essere vissuto, non spiegato né “parlato”. E questo contatto col “fuori” della narrazione ci riporta alla semplice, fragile esistenza, alla condivisione di uno spazio qui e ora con altri esseri che vivono nel nostro stesso mondo senza partecipare alla “fiction”, gli animali.
Il loro essere estranei al linguaggio umano, li pone in uno spazio estraneo alla “nostra” rappresentazione e il loro apparire rappresenta dunque anche plasticamente un’ulteriore strappo alla drammatizzazione. È un evento del tutto “weird”, per come lo intende Mark Fisher: è la presenza di un elemento fuori contesto, che causa un effetto straniante e che apre lo spettacolo ad una dimensione altra, alle logiche di un altro mondo che sembrano operare un’interferenza con il nostro. È un’operazione estetica e di pensiero che vediamo spesso in atto nel cinema e nella letteratura (tra i numerosi esempi citati da Fisher in The Weird and the Eerie, riportiamo Lynch e Lovecraft) ma che nel teatro risulta senz’altro più complessa – anche se ci sono stati alcuni tentativi di recente, come Nottuari di Fabio Condemi, adattamento di Thomas Ligotti – perché tradizionalmente si confronta con un dato di “presenza” apparentemente inconfutabile. Ecco che allora si coglie tutta la portata dell’impianto scenico di ULTRAFICCIÓN che, di per sé, rientra pienamente nella categoria fisheriana di “eerie” (tradotto in italiano con “inquietante”): «La sensazione di eerie si verifica quando c’è qualcosa dove non dovrebbe esserci niente, o quando non c’è niente dove invece dovrebbe esserci qualcosa». Una sensazione intensificata dalla completa assenza di un’agente, all’interno dello spettacolo, a cui far risalire gli avvenimenti – è del tutto ignoto, infatti, chi sia il narratore degli eventi. Comprendiamo meglio così il senso di disagio in cui gli spettacoli del Conde mettono lo spettatore, ma lo scopo, come spiegato più sopra, è quello di ottenere una visione della realtà più complessa, che contravviene alla narrazione rassicurante, ma parziale, in cui siamo immersi.
Il paradosso del teatro è che quelle pecore che si rincorrono tra gli spettatori increduli, l’elemento “weird” che “buca” la rappresentazione, siano iper-educate: nonostante siano portatrici di una qualità “selvatica”, anche loro seguono una partitura, loro malgrado; uscire del tutto dalla fiction sarebbe impossibile o comporterebbe un rischio troppo alto. Ciò non toglie, tuttavia, che ci sia il tentativo, seppur controllato e inserito in una logica scenica, di disinnescare un meccanismo, con l’obiettivo di riconsegnare lo spettatore alla sua esistenza un po’ cambiato. E se, secondo Debord, «Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione», lo scopo del Conde è quello di provare a riavvicinarlo, anche se per mezzo di un’altra rappresentazione, che però porta in sé una negazione delle sue stesse regole.
Il dibattito sul senso della violenza nelle arti propone all’incirca le stesse tesi dall’antica Grecia a oggi. Si fronteggiavano, allora, le posizioni dei “grandi padri” della filosofia. Platone, denigratore delle arti, suggeriva di mettere al bando i poeti perché decantare comportamenti immorali nell’ambito di una composizione avrebbe potuto corrompere le menti dei giovani. Al contrario Aristotele, com’è noto, con la teoria della catarsi, sosteneva la possibilità di purificarsi dalle passioni, attraverso una visione terapeutica della rappresentazione. Le due posizioni si sono riproposte in maniera decisa nelle discussioni sulla violenza nel cinema e nella televisione. Da una parte la preoccupazione per l’imitazione giovanile della violenza e la conseguente crescita di comportamenti aggressivi; dall’altra la convinzione che la mediazione artistica abbia la capacità di disinnescare le spinte violente attraverso un distanziamento critico. Ci sembra interessante che la scelta estetica del Conde permetta di operare uno scarto rispetto a entrambe. Nel momento in cui la violenza non viene mostrata, ma solo suggerita e portata al livello della stessa logica della scena, è molto più difficile fare appello all’imitazione. Riavvicinando il teatro alla lettura, chi osserva ha un margine ben più ampio di elaborazione rispetto all’imposizione operata dall’immagine nel suo stesso esistere, come faceva notare Jean-Luc Nancy nel suo libro dedicato a Kiarostami. Inoltre, l’avvenimento catartico sarebbe rovesciato nel suo opposto: non più un processo che permette di “reintegrarsi” nei docili confini della vita sociale ma piuttosto una liberatoria consapevolezza data dal riaffiorare alla coscienza delle contraddizioni rimosse. L’esito dipenderà soprattutto dal bagaglio del singolo spettatore, da quali immagini si forgerà a partire dalle parole assorbite, potenzialmente più forti e decisive rispetto a episodi di violenza mostrati sul palco senza alcun pathos, che poco stimolano nella nostra interiorità, rischiando a tutti gli effetti una “normalizzazione”.

Lucrezia Ercolani è nata a Roma nel 1992. Interessi e mondi diversi hanno sempre fatto parte del suo percorso, con alcuni punti fermi: la passione per le arti, soprattutto quelle dal vivo; l’attenzione per le espressioni sotterranee, d’avanguardia, fuori dai canoni. Laureata in Filosofia all’Università La Sapienza, è stata redattrice per diverse riviste online (Nucleo Artzine, Extra! Music Magazie, The New Noise, Filmparlato) e ha lavorato al Teatro Spazio Diamante. Ultimamente collabora con Il Manifesto.