Living Theatre, il seminario Common Blood di Gary Brackett

Set 12, 2022

Articolo a cura di Anna Cavallo

A Napoli una settimana di pratiche corporee e teatrali ispirate al collettivo pacifista statunitense.

Dalle tecniche del Living Theatre a Erwin Piscator e Bertolt Brecht, dalla biomeccanica alla danza Butoh, dal teatro della crudeltà di Antonin Artaud alla meditazione yoga. Sono i percorsi che intende esplorare la masterclass intitolata Common Blood che si terrà a Napoli negli spazi del centro La Serra, dal 26 ottobre al 2 novembre, aperto a professionisti dello spettacolo e non, per un’esperienza immersiva nelle tematiche care al collettivo anarchico fondato negli States da Judith Malina e Julian Beck nel 1947, declinate secondo la sensibilità del regista e autore Gary Brackett.

Classe 1960, entrato a far parte del L.T.  a New York alla fine degli anni ‘80, ha lavorato per oltre 25 anni a fianco di Malina come regista, tecnico e scenografo e ha fondato in Italia il Living Theatre Europe, firmando opere originali come Siddhartha – il sorriso del fiume, Giovanna La Mariposita, Green Terror, Let My Brother Go e Girl is a Gun. A Trieste, una volta uscito dalla compagnia per l’esigenza di proseguire la sua carriera in autonomia, si è dedicato a sviluppare il progetto di Mind Body School conducendo seminari in Europa, Nord e Sud America, Palestina, Israele e Libano. Tra il 2013 e il 2014 ha dato vita al centro PerForm, proseguendo la sua ricerca sulla pratica corporea.

Prima di tutto come si svolgerà questa masterclass, quanti partecipanti sono ammessi e qual è il loro background? 

In realtà non ci sono limiti, dato che per vocazione il Living Theatre è in grado di gestire anche centinaia di persone, come già accaduto proprio a Napoli moltissimi anni fa insieme a Judith Malina, ma erano altri tempi (sorride).

Certamente, in un momento storico come questo, dove c’è una grande incertezza, chi vuole fare teatro può essere spinto a fare scelte più commerciali. Noi proponiamo un teatro politico, in cui ci si interroga sui motivi che spingono gli esseri umani a combattersi l’un l’altro invece di amarsi e accettarsi.

Così come le pratiche corporee e teatrali, tra le quali la danza Butoh, una forma di danza contemporanea ideata dal coreografo giapponese Kazu Ohno, non richiedono bravura tecnica ma anima, capacità di trasporto e apertura mentale. Paradossalmente, per i professionisti con una preparazione e un background molto strutturato, come quello di una danzatrice classica, ad esempio, sono molto più difficili rispetto ad un principiante che non ha mai fatto né teatro né danza.

Anche la fascia d’età è molto ampia, si va dai 17 ai 70 anni. Si lavorerà sul testo che ho scritto, intitolato Common Blood – Oltre i cancelli del paradiso, tradotto in italiano da Virginia Zettin, negli spazi del centro La Serra, dopodiché saranno presentate quattro diverse performance su questa stessa opera in quattro luoghi del centro storico di Napoli.

Desideriamo affrontare la tematica della violenza con particolare riferimento ai killing fields tra Berlino e Mosca nel periodo tra le fine del primo conflitto mondiale e la fine del secondo, da cui emerge quanto gli ultimi 100 anni della nostra storia siano stati tra i più sanguinosi. Anche una volta conclusi i conflitti mondiali  hanno continuato a morire milioni e milioni di persone in altre guerre, civili o di colonialismo.

Julian Beck si chiedeva: Se le bombe non possono insegnare, come possono le arti? Come Jean Jacques Rousseau, anche noi pensiamo che fino ad oggi lo sviluppo dell’arte e della scienza non abbiano aiutato le persone a costruire una società più pacifica. È nella sua condizione naturale, antecedente la nascita delle strutture sociali, che l’uomo è capace di pietà e compassione per i suoi simili, mentre lo sviluppo delle sue potenzialità intellettive ha in sé il germe della corruzione e dell’ambivalenza, l’inclinazione a trasformare il sano amor proprio dell’autoconservazione in idolatria di se stesso, egoismo e sopraffazione.

Il Common Blood del titolo si riferisce al sangue, comune a tutti gli uomini, ma in inglese la parola common ha anche il significato dispregiativa di infimo, volgare, in cui affonda le radici ogni fascismo e razzismo. Io ho voluto mantenere anche questa accezione, che non è presente nella parola tradotta in italiano.

Il testo è ispirato in parte ad un’opera intitolata Trieste, dell’autrice Dasa Drndic e in parte a Bloodsland di Timothy Snider, la prima sui crimini nazisti, la seconda su quelli stalinisti, che considero equivalenti in quanto visioni criminali e negazione dell’umanità. Durante il seminario si udranno le grida strazianti, gli spari che ci sono in ogni guerra. Durante la performance invece porteremo il nostro corpo in scena con l’energia, la consapevolezza e il desidero che attraverso l’incontro tra di noi e tra noi e il pubblico si possa celebrare la sacralità della vita.

Sentiamo viva la speranza del distacco da quanto la storia ci ha consegnato fino ad ora. Per dirla con James Joyce, la storia è un incubo da cui sto cercando di svegliarmi. Il nostro pacifismo si fonda sul desiderio di porre fine all’epoca del patriarcato che è per sua natura intrisa di violenza e di prevaricazione sul più debole.

Judith Malina e Gary Brackett – Photocredit Living Theatre

 Su cosa si basa la tecnica del Living Theatre?

Ti rispondo con le parole di Judith Malina che la spiegava paragonandola alla pittura nel periodo  da Monet fino a Van Gogh: sulla tela l’osservatore vede sia una rappresentazione del mondo reale, ad esempio, una finestra, un fiore, un prato. Poi però vede anche la materia in se stessa.

Il Living Theatre ha rotto con i canoni del teatro più tradizionale facendo a meno della rappresentazione e anche della trama, per mostrare la nuda materia che è arte essa stessa. Ecco allora che sul palco non ci sono più fondali, niente più copioni da imparare. C’è solo la materia, cioè il corpo dell’attore e quello degli spettatori.

La trama è il corpo umano nello spazio e nel tempo senza alcuna finzione, quella materia in sé che Monet ha saputo riprodurre sulla tela.

Cosa ricordi di Judith con particolare affetto o emozione?

Moltissimo. Quando l’ho conosciuta lei aveva già 62 anni, l’età che ho io adesso e Julian Beck era già deceduto.  Tra il 1989 e il 2008 ho montato per lei una ventina dei loro spettacoli più conosciuti, da The Connection (1959) a The Brig (1963), da Mysteries and Smaller Pieces (1964)  alle Sette meditazioni sul sadomasochismo politico (1973).

 Era impegnativo, si lavorava a volte fino a 80 ore alla settimana, a volte ci ho persino litigato, ma è stata un’esperienza intensa e totalizzante, perché lei ha sempre vissuto in quel modo. Ha dedicato se stessa al Living Theatre con le sue intuizioni sul teatro di ricerca e il suo impegno civile e politico. Amavo soprattutto l’urgenza che avvertiva di trovare le soluzioni a una società bellicosa e ingiusta.

Il Living Theatre deve molto al pensiero di Antonin Artaud e tu stesso hai raccontato in una precedente intervista che continui a considerarlo una fonte di ispirazione

Antonin Artaud è un autore non ancora completamente compreso. C’è nel suo pensiero una componente estatica accanto ad una sofferente, legata al sangue, alla sua malattia fisica, il cancro, e alla sua schizofrenia. Le sue parole e le sue costruzioni sintattiche non sono mai immediate.

Come Judith Malina, Artaud sentiva di dover fare qualcosa per rendere il mondo migliore con la sua arte, per cui il suo teatro e la sua poesia sono, nelle intenzioni, messianici. Questa apertura alla dimensione della trascendenza, del divino, dell’estasi, non attira solo l’artista ma in genere la maggioranza degli esseri umani, ai quali è accessibile in alcuni momenti. Basti pensare all’esperienza del  sogno e dell’orgasmo, che fanno toccare con mano una felicità rara. Anch’io penso sia importante raggiungere questa dimensione ma senza sprofondarci dentro, rischiando la follia o la dipendenza o il desiderio di spingersi sempre più oltre, magari attraverso le droghe. 

Al contrario le esperienze estatiche hanno lo scopo di portarci a maturare empatia e compassione, ma succede solo quando si riesce a mantenere un ordine, proprio come avviene nella musica jazz quando il musicista si lascia andare all’improvvisazione. È un atto altamente creativo ed estatico, ma contenuto nelle regole dell’armonia musicale. Così come l’anarchismo di cui parlava Judith era di questo tipo: un’assoluta libertà che non ti consentiva di distruggere nulla e mai un caos distruttivo e fine a se stesso.

Cosa ci puoi raccontare invece di PerForm che stai guidando nella città di Trieste?

L’ho fondato 9 anni fa insieme ad Eleonora Cedaro riprendendo lo studio sulla biomeccanica e sullo yoga di cui mi sono occupato prima, durante e dopo l’esperienza con il L.T, essendomi formato alla Jvamukti Yoga School di Sharon Gannon e David Life. PerForm permette di scegliere tra diversi tipi di yoga, da quello più classico di Patanjali, centrato sul respiro e sulla concentrazione, a quello meramente fisico, oltre alle tecniche della danza Butoh.

Lo yoga è una pratica corporea che io considero tra le più complete, in grado di coinvolgere mentre, corpo e anima, ed è proiettata, come il teatro, nel qui e ora.  Continuiamo inoltre a portare aventi l’estetica del L.T. in una prospettiva di sperimentazione legata alle tematiche sociali, politiche e ambientali, grazie anche alla collaborazione di scienziati e studiosi di nanotecnologie, coi quali qui a Trieste si è creato un ambiente molto vivace e stimolante.

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