L’incontro magico tra La morte a Venezia di Thomas Mann e la versione drammaturgica e registica di Liv Ferracchiati, liberamente ispirata al testo dello scrittore tedesco pubblicato nel 1912, crea le condizioni e l’opportunità di esplorare un’opera letteraria attraverso le lenti del teatro contemporaneo.
Motore pulsante del romanzo di Mann è la tensione, l’attrito tra razionalità e passione, tra l’intellettualismo impassibile e il desiderio sensuale. Il testo è una riflessione sulla bellezza, l’ossessione e la morte, sullo sfondo di una città asfissiante e decadente come Venezia. Potremmo definire Gustav Von Aschenbach, il protagonista, come un uomo di cultura, controllato da un forte senso di disciplina morale, che si lascia sovrastare dalla bellezza e dalla giovinezza di Tadzio. La sua passione non è soltanto un’infatuazione, ma una lotta interiore che lo costringe a confrontarsi con la sua natura primitiva. Nel percorso tracciato da Mann verso l’autodistruzione, la ricerca della bellezza si rivela come la ricerca di una morte estetica, una ricerca che non nutre la vita, ma la svuota di significato. L’incontro tra il desiderio di perfezione e la capacità di distruggere ciò che è autentico riduce l’esistenza a un riflesso sterile di sé stessa.
Il viaggio a Venezia di Aschenbach diventa una discesa simbolica nell’abisso al punto che la città sull’acqua diventa essa stessa la rappresentazione di un mondo sospeso, come il corpo di Gustav, il quale non riesce più a distinguere tra vita e morte, tra desiderio e rovina. La sua fine non è una débâcle, ma la fusione, l’accorpamento con l’oggetto del suo desiderio. La sua è una morte estetica che diventa parte di un ciclo più ampio, quello dell’arte, dove l’autodistruzione non è mai del tutto separata dalla creazione.
Da questo paesaggio culturale e con queste premesse, il regista e drammaturgo Liv Ferracchiati progetta e concepisce una lettura contemporanea dell’opera, collocandola nel presente e scrostando le atmosfere ottocentesche del romanzo di Mann.
Aperto all’innovazione e alla ricerca di nuove forme espressive, Ferracchiati recupera la forza dei temi originali dell’opera servendosi di un linguaggio teatrale che sfida la tradizione. Pur mantenendo il nucleo drammatico del romanzo, cerca di rendere più concreto e palpabile il conflitto di Aschenbach, utilizzando elementi di teatralità fisica e di metateatro che sembra mettano l’accento sull’auto-percezione del protagonista. Il filtro della scena teatrale rende così predominanti sia l’elemento psicologico di Gustav Von Aschenbach che la percezione della bellezza di Tadzio.
Emerge chiaramente una precisa scelta registica di voler scardinare gli stereotipi legati al genere e all’età anagrafica. Tadzio, interpretato da Alice Raffaelli, non è quello che dovrebbe essere e potrebbe anche non essere quel che è. Anche Gustav potrebbe avere l’età che ha il personaggio, nel libro di Mann, così come qualsiasi altra età non scritta. La scena diviene agita non da un uomo maturo attratto dalla bellezza di un uomo giovane, ma è l’universalità delle persone a muoversi sul palcoscenico restituendo così all’opera una sospensione tra realismo esistenziale e dimensione simbolica.
La stessa Venezia, lo spazio e il tempo sono messi in discussione da un approccio teatrale che rende la narrazione più fluida, fisica e visibile, meno legata a un luogo preciso, ma più astratta. La regia di Ferracchiati si fa veicolo di un’esperienza viscerale che parla direttamente ai sensi e alle emozioni degli spettatori.
Le pulsioni di Gustav, la bellezza di Tadzio non sono solo un ideale distante, ma l’immagine tangibile dei corpi dei performer esibiti, ripresi e video proiettati. Il teatro di Ferracchiati riesce ad aggiungere alla prosa di Mann la tensione tra il sublime e il distruttivo, svelandola attraverso una videocamera, rendendo visibile l’invisibile.
Ogni parola, ogni movimento, ogni taglio di luce, ogni inquadratura, ogni respiro è un passo di danza verso la morte. In questo senso, La morte a Venezia di Liv Ferracchiati è tanto un tributo all’opera di Mann, quanto una sua reinvenzione teatrale che rompe la distanza tra l’intimo e il pubblico.
Quello che emerge con forza è la dislocazione, il passaggio da un ragionamento solitario e intellettuale ad una catarsi fisica. Quasi come se il desiderio, la bellezza che seduce, diventassero un atto di forza contro il pubblico. La bellezza si fa carne, la morte viene resa visibile e il desiderio diventa un’esperienza fisica. Ferracchiati mette lo spettatore nella condizione di fare i conti con l’ossessione e la morte, come esperienze che si consumano, nel qui e ora.
La scelta di realizzare la performance come un lungo monologo a due voci registrate implica alcune stimolanti riflessioni sul rapporto tra il pubblico e la performance, creando una distanza tra la parola e la presenza fisica dell’attore. Da un lato, la voce fuori campo può risultare potente come un’eco che si diffonde nello spazio, come se i pensieri del personaggio venissero svelati direttamente al pubblico. Dall’altro, questa scelta può limitare l’immediatezza emotiva che un attore riesce a comunicare dal vivo, privando lo spettatore di un’esperienza più diretta e materiale. Il rischio è che il monologo registrato finisca per diventare un elemento estraneo alla scena, distaccato dal corpo e dall’energia del performer.
È evidente che la scelta di un monologo fuori campo, nell’impianto registico di Liv Ferracchiati è servito a sottolineare l’alienazione del personaggio, l’impossibilità di comunicare direttamente con gli altri, trascinando lo spettatore in una riflessione più profonda sulla solitudine del protagonista. Questa scelta stilistica, alla fine, risulta funzionale ed efficace in quanto ben integrata con la visione registica complessiva dello spettacolo. È come un’ombra che si allunga sulla scena: distante eppure onnipresente. Non “ruba la scena”, ma al contrario contribuisce a costruire una narrazione più stratificata.
La voce, non più vincolata al corpo dell’attore, si fa Verbo, entità a sé, sospesa, a volte inquietante, come un fantasma che non trova pace. Questa scelta può trasformare il monologo in una riflessione interiore, una confessione che non vuole essere condivisa con tutti, indistintamente, ma solo rivelata nell’intimità di chi sa ascoltare.
La distanza fisica crea una frattura tra l’emozione e la sua manifestazione, come se il protagonista, pur parlando, fosse incapace di toccare gli altri con la propria presenza. La scelta registica di Ferracchiati, ben ponderata, la sua idea audace sfida il pubblico a confrontarsi con l’assenza, a sentirne il peso, a rivelare una verità che non si lascia possedere facilmente. È la voce, pura e distaccata, a fare il suo gioco di seduzione e disorientamento, al punto che alla fine sembra rendere tridimensionale, la coscienza di Aschenbach, la prosa di Mann, la drammaturgia di Ferracchiati. Diventa altro.
Nessuno di noi è mai uguale a sé stesso nel tempo: cambiamo nel corpo, nella mente e nel cuore, mutiamo opinioni, a volte quasi senza accorgercene. Cambia la percezione durante e dopo i sessanta minuti di La morte a Venezia. Se ne può uscire trasformati, diversi da prima. Diventare altro è una catarsi, una metamorfosi. È abbracciare la contraddizione. È avere il coraggio di scoprire chi siamo e chi non siamo. Proprio come riscrivere una storia, la nostra storia.

Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.