Un’opera ibrida tra installazione partecipata, coreografia auto-generativa e live cinema che indaga lo statuto dell’immagine nell’era della “schermocrazia”, a partire da un’indagine sul pensiero di Debord: Monàs – La reale sostanza delle cose, la nuova creazione di Teatringestazione sarà presentata presso Fabbrica del Vapore / Fattoria Vittadini di Milano, nell’ambito di Danae Festival, al debutto nazionale il 31 ottobre e il 1 novembre. Monàs è un dispositivo scenico, concepito come un ecosistema a cui partecipa il pubblico, all’interno del quale è possibile fare esperienza del differimento del proprio corpo in immagine. Ne abbiamo parlato con Anna Gesualdi e Giovanni Trono fondatori di Teatringestazione.
Un’indagine sullo statuto dell’immagine nell’era della “schermocrazia”: come i temi e le opere del filosofo Debord attraversano il processo creativo di Monàs?
“Lo spettacolo è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine.”
frammento 34, La società dello spettacolo, Guy Debord
Monàs si ispira alla critica sociale di Debord, in particolare alla sua analisi della Società dello Spettacolo, in cui l’immagine e la rappresentazione distorcono l’esperienza diretta della realtà, creando un universo mediato e alienante. Nell’era della “schermocrazia”, dove il potere è esercitato e mediato attraverso schermi e immagini, Monás si configura come un dispositivo ibrido che stimola il pubblico a riflettere su come la mediazione costante modifichi la percezione e il controllo dell’identità. Il dispositivo scenico crea un ambiente che raddoppia la percezione, mettendo i partecipanti di fronte a loro stessi in una sorta di “détournement” del reale: come teorizzato da Debord, la realtà non è più solo vissuta, ma filtrata e spettacolarizzata.
Così come nel programma teorico dell’Internazionale situazionista abbiamo voluto creare una situazione, un «momento di vita concretamente e deliberatamente costruito mediante l’organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di eventi». Lo spettacolo, dice Debord, «non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale tra persone, mediato dalle immagini» che «nell’insieme delle sue forme particolari – informazione o propaganda, pubblicità o consumo diretto dei divertimenti – costituisce il modello presente della vita socialmente dominante». La spettacolarizzazione o il processo di “riduzione a spettacolo” è quindi il senso della pratica totale e totalizzante di una determinata formazione economico-sociale, la quale gestisce e manipola una crescente moltitudine di immagini-oggetto, entro cui fluttua inconsapevolmente l’individuo.
I concetti di “deriva” e “détournement” di Debord sono esplorati attraverso il coinvolgimento diretto dello spettatore e la messa in scena di una realtà frammentata e manipolata, costruita come spazio di riflessione sul controllo dell’immagine e della rappresentazione. La “deriva” nell’opera si manifesta nell’invito ai partecipanti a muoversi liberamente nello spazio scenico, assumendo un ruolo attivo e non predeterminato. Il détournement è invece integrato come strategia critica di sovversione, utilizzando immagini derivate dalla trasfigurazione del movimento prodotto dalle persone in gioco, che destabilizzano l’esperienza del pubblico. La proiezione del movimento dei partecipanti è infatti mediata da un software che distorce e frammenta le immagini, portando lo spettatore a riflettere sul potere dello schermo di alterare e dirigere l’identità e la percezione visiva.
Nell’ambiente dell’osservazione scorre l’audio del film di Debord Sur le passage de quelques personnes à travers une assez courte unité de temps, frammentato e ricombinato, e trascritto sullo schermo come didascalia a catturare lo scorrere delle realtà substanziata dai corpi in gioco; creando una narrazione non lineare che invita lo spettatore a ripensare il proprio ruolo all’interno della società dello spettacolo. Questo “détournement” della narrazione e della rappresentazione consente di recuperare i significati originali e critici dell’opera di Debord, mettendoli al servizio di una nuova riflessione critica sulla società contemporanea. Monàs, reinterpreta la critica situazionista attraverso una partecipazione im-mediata.
Il concetto di “Deriva” (dérive) mirava a rivoluzionare il modo in cui le persone vivevano e percepivano la città. La deriva è una pratica psicogeografica che consiste nell’esplorazione urbana spontanea e non pianificata, in cui i partecipanti si lasciano “trasportare” dal paesaggio cittadino, seguendo i propri impulsi e le attrazioni visive o sensoriali del momento, piuttosto che itinerari predefiniti o scopi specifici. Questa modalità esplorativa permette ai partecipanti di vedere la città da una prospettiva nuova, rompendo le abitudini e le convenzioni quotidiane per favorire un’interazione più autentica e immediata con l’ambiente. Debord concepiva la deriva come uno strumento di resistenza al “controllo spettacolare” della società, ovvero alla struttura consumistica e funzionale che rende le città luoghi di passaggio e non di vera interazione. Nella deriva, il partecipante diventa consapevole delle connessioni invisibili tra spazio, emozione e comportamento, spesso celate dalla logica della produzione e del consumo che domina le aree urbane. L’obiettivo finale della deriva, secondo Debord, non è solo quello di fare una semplice passeggiata, ma di sperimentare un cambiamento profondo nella percezione dello spazio urbano, creando un’opportunità per immaginare una nuova urbanistica, più umana e libera dalle logiche del capitalismo.
Il concetto di détournement si riferisce a una pratica artistica e culturale che consiste nel riutilizzare e trasformare opere preesistenti—come immagini, testi o film—per sovvertire il loro significato originale e creare nuove interpretazioni critiche. L’idea centrale è quella di contestare e sfidare le narrazioni dominanti e il potere culturale attraverso il riuso creativo. Il détournement è quindi un atto di recupero e riposizionamento che invita gli spettatori a riflettere criticamente sulla cultura visiva e sulle dinamiche sociali, stimolando un senso di consapevolezza e attivismo.
In che modo lo spettacolo si interroga sulla reale sostanza delle cose, titolo e tema dello spettacolo; come si è tradotta la ricerca letteraria nella creazione dell’impianto scenico?
Il lavoro si apre condividendo in silenzio un esergo, prima di varcare la porta del dispositivo scenico; il frammento 218, Cap. IX – La società dello spettacolo, di Guy Debord, che recita:
“La coscienza spettatrice, prigioniera di un universo appiattito, limitato dallo schermo dello spettacolo, dietro il quale la sua vita è stata deportata, non conosce più se non gli interlocutori fittizi che la intrattengono unilateralmente con la loro merce e con la politica della loro merce. Lo spettacolo, in tutta la sua estensione, è il suo «segno dello specchio». Qui si mette in scena la falsa via d’uscita di un autismo generalizzato.”
Abbiamo lavorato alla creazione di un dispositivo che traducesse “spazialmente” il discorso alla base della critica di Guy Debord. In Monàs gli spettatori entrano in uno spazio scenico scomposto in funzioni elementari. Essi possono scegliere spontaneamente di occupare le diverse frazioni dello spazio, abitandolo in azione, osservazione, lettura, ascolto e muovendosi liberamente tra una funzione e l’altra, sostando in una sola frazione o tornando all’occorrenza a quelle precedenti. Lo spazio è diviso in due parti da un setto/schermo, che accoglie una proiezione, la stessa su entrambi i lati. Da un lato dello schermo c’è lo spazio dell’azione, dall’altro quello della contemplazione. Dal lato dell’azione il pubblico, in numero limitato, indossa delle cuffie, ascoltando una musica martellante ed alienante, che lo distrae dal contesto in cui sono immersi, descrivendoli in uno spazio solo apparentemente libero, ma definito dalla macchina.
Sono di fronte ad una videocamera che cattura in tempo reale la loro figura, restituendone un’immagine trasfigurata da un software, che ne aumenta il tempo di esposizione, diminuendo il numero di fotogrammi al secondo, frammentando il movimento, fino a farne perdere la definizione e oltre, fino a far scomparire le parti del corpo, a questa seguono una serie di trasfigurazioni che di volta in volta estraggono dal movimento una componente, che sia il colore, la forma o la differenza di contrasto, modificandone la persistenza, aumentandone la densità.
Ne deriva un’immagine dalla qualità tragica, contrapposta al movimento “dal vero” che invece risulta ridicolo. Dal lato della contemplazione, gli spettatori siedono di fronte allo schermo, che accoglie la proiezione di quel che accade nello spazio d’azione, mentre ascoltano l’audio del film di Debord Sur le passage de quelques personnes à travers une assez courte unité de temps (1957), il cui testo frammentato viene continuamente ricombinato dalla funzione random di un lettore musicale.
Mentre gli spettatori abitano spontaneamente lo spazio scenico, il performer, attraverso una relazione singolare ed esclusiva con il suo doppio nello schermo, lavora alla collezione e rielaborazione di gesti che nutrono la composizione di un discorso ricorsivo messo in figura sullo schermo, una mise en abyme.
La “sostanza reale delle cose” nel contesto di Monàs esplora ciò che resta dell’identità e della corporeità in un mondo dominato da immagini digitali e distanti. L’elemento centrale dell’ambiente di gioco è un setto/schermo che rende visibile la traccia del corpo in tempo reale ma con una qualità frammentata e a bassa definizione, costringendo così i partecipanti a confrontarsi con la propria immagine mediata. Il dispositivo di duplicazione e distorsione visiva simula la presenza fisica nello spazio rappresentato ma paradossalmente aliena l’individuo dalla propria corporeità. La riflessione sul testo di Debord si manifesta nella scenografia stessa, che induce il pubblico a interrogarsi sulla differenza tra la sostanza materiale dell’azione e la sua rappresentazione trasmessa.
Il titolo fa riferimento al concetto di “monade” espresso da Leibniz. Il concetto di monade di Leibniz e la critica della Società dello Spettacolo di Guy Debord trovano una connessione nel loro approccio alla percezione della realtà e alla relazione tra individuo e mondo circostante. Per Leibniz, ogni monade è un’entità autonoma e autosufficiente, riflesso dell’universo in un microcosmo isolato, capace di rispecchiare l’intera realtà ma priva di porte e finestre per comunicare direttamente con altre monadi. Questa visione crea una rappresentazione dell’individuo come entità separata, che può osservare e interpretare il mondo, ma non entra mai davvero in contatto con esso o con gli altri.
Debord, con la sua critica alla Società dello Spettacolo, espande questa separazione, applicandola alla società moderna, in cui l’individuo è isolato e alienato dalla propria realtà, immerso in un sistema di rappresentazioni mediate dallo “spettacolo” – un dispositivo che cattura e distorce le esperienze reali sostituendole con immagini. In un certo senso, lo spettacolo agisce come una “monade collettiva”, creando una realtà illusoria che circonda ogni persona e mantiene una distanza che ostacola un’autentica interazione con il mondo.
Entrambi i concetti evidenziano la frattura tra realtà e rappresentazione, invitando a riflettere sulla distanza che si crea tra l’individuo e l’esperienza autentica. Se Leibniz vedeva le monadi come riflessi del mondo esterno, per Debord l’individuo postmoderno è confinato in una “monade spettacolare”, che riflette un mondo distorto, mediato e costruito, dal quale l’individuo non può evadere per percepire direttamente la realtà. Nell’opera Monàs, questi temi si intersecano: il dispositivo scenico invita il pubblico a prendere coscienza di questa distanza, a osservare la propria immagine frammentata come riflesso di una realtà mediata e artificiale. Si crea così una monade contemporanea, in cui l’individuo è intrappolato in una rappresentazione, ma può, paradossalmente, comprendere la propria alienazione e iniziare a sovvertire il sistema spettacolare, come proposto da Debord.
Tra spazio reale e spazio di rappresentazione qual è il rapporto tra gli spettatori-partecipanti e la drammaturgia scenica nella creazione di una coreografia istantanea?
La drammaturgia di Monàs incoraggia una partecipazione attiva del pubblico, che diventa parte della coreografia attraverso la propria interazione con lo spazio e il dispositivo scenico. Gli spettatori, considerati “nomadi” nella scenografia, sono liberi di spostarsi e di occupare differenti posizioni nello spazio, assumendo il ruolo di agenti nel processo performativo. Il loro movimento genera una composizione di immagini e gesti istantanei, che a loro volta influenzano e rimodellano la performance in tempo reale. Questo crea un’esperienza di co-creazione: la coreografia non è predefinita, ma emerge come risultato delle azioni collettive degli spettatori e dei performer. Tale processo ricorda la concezione situazionista di Debord, in cui lo spazio e la relazione con esso definiscono nuove dinamiche sociali.Nel frammento 217 de La Società dello Spettacolo leggiamo:
“Ecco ciò che è imposto ad ogni momento della vita quotidiana sottomessa allo spettacolo, che bisogna comprendere come un’organizzazione sistematica della «perdita della facoltà di incontro», e come la sua sostituzione con un fatto allucinatorio sociale: la falsa coscienza dell’incontro, l’«illusione dell’incontro». In una società in cui nessuno può più essere riconosciuto dagli altri, ogni individuo diviene incapace di riconoscere la propria realtà. L’ideologia è a casa sua; la separazione ha edificato il suo mondo.”
L’opera costituisce un “détournement” della disposizione spaziale del teatro classico. Lì dove nel teatro si colloca tradizionalmente lo spettacolo, la rappresentazione incarnata dai corpi vivi, in Monás è posta una superficie che è al contempo setto e schermo, sul quale vengono proiettate in tempo reale le immagini prodotte dal movimento dei corpi in azione. L’inserimento di questo elemento distorce la relazione fra azione, osservazione e rappresentazione: ciascun corpo agente è esposto in tempo reale alla contemplazione della traccia visiva che il suo movimento produce ed è così indotto a considerarsi strumento di scrittura delle immagini che appaiono sullo schermo.
Il dispositivo crea una eterotopia, un luogo in cui l’immagine trova la sua concretezza nella mediazione della macchina che costringe l’avventore a trovare la posizione ed il movimento che renda l’immagine significante. Il meccanismo si attua attraverso la sottrazione del movimento, così come lo intendiamo, ovvero composto di istanti che segnano momenti consequenziali di un’azione. Il dispositivo sottrae all’immagine la sua definizione e la possibilità di descrivere un’azione compiuta, invitando i partecipanti a tradursi in una nuova lingua, a creare un lessico istantaneo, ad abbandonare la presenza del proprio corpo per conquistare quella della propria immagine nello schermo.
Il corpo del performer scrive e si inscrive tra la massa dei passanti “in una determinata unità di tempo”. Si dà vita ad una “micro società provvisoria” (Debord 1959). La danza porosa accoglie i gesti degli spettatori-partecipanti, in una reciproca interferenza, ridefinendo sullo schermo le figure, che insieme formano un panorama “antropico”: un paesaggio fatto di figure alla “deriva”, identità fittizie o copie di identità reali; volti irriconoscibili, corpi frammentati dall’apertura focale della fotocamera, presenze incompiute che di fronte allo schermo restano evocazione e rappresentazione. L’individuo concorre allo sfondo, la massa si fa eco, premonizione.
In questa microsocietà effimera il performer è la “star” di cui parla Debord, in cui convergono le pseudostorie che di volta in volta animano lo schermo, simulacro di tutte le identità fittizie, restituite nel solo finale nella loro essenza grottesca, svelandone ciò che di sé rimane oltre il dispositivo.
Dopo l’anteprima ad Hangart Festival, quali sono state le reazioni di pubblico e operatori presenti? Che tipo di ricezione vi aspettate per le prossime date di Milano e Roma?
L’anteprima a Hangart Festival è stata accolta con grande interesse dal pubblico e dagli operatori del settore, che hanno risposto positivamente alla complessità e all’innovazione del dispositivo scenico. Le reazioni sono state variegate: alcuni hanno apprezzato l’esperienza immersiva, mentre altri hanno trovato stimolante la riflessione proposta sul potere delle immagini. Per le prossime date di Milano e Roma ci aspettiamo una ricezione altrettanto intensa, con particolare interesse da parte di un pubblico aperto a forme di arte sperimentale e critica sociale. Monàs si propone infatti di interrogare lo spettatore non solo come osservatore, ma come co-creatore di un’esperienza critica e performativa che esplora le tensioni tra presenza fisica e rappresentazione mediata.
Il pubblico entrando nello spazio è ormai compromesso. L’unica via d’uscita è lasciare la sala. Il pubblico è libero di farlo. Finora nessuno lo ha fatto. Lo spazio scenico è predisposto come una trappola, il pubblico entra e la trappola scatta. In princio c’è la dichiarazione esposta nell’esergo, che di fatto annuncia in maniera inequivocabile l’esperienza e la sua conseguenza. Poi segue la scelta, quale posizione prendere nello spazio diviso in azione e contemplazione. L’azione produce dapprima scoperta, spensieratezza, divertimento, stimola il desiderio di partecipazione. Si corre da una parte all’altra, si sorride, si commenta, si gioca. Impossibile essere passivi, anche se si resta seduti. Fino a che lentamente lo spettacolo e la sua coscienza prende corpo, un corpo collettivo, partecipato, che si rivela nella trasfigurazione tragica impressa nello schermo e si fa epifania. Il pubblico di Pesaro l’ha definito ipnotico, scioccante e inaspettato; il pubblico giovanissimo delle aperture in residenza a Bologna l’ha definito devastante, una trappola a cui non si resiste. Poche sono le persone rimaste indifferenti, ma anche nell’indifferenza possiamo dire che nessuno è sfuggito alla riflessione.
Creare uno spazio di interrogazione collettiva è il nostro obiettivo. Superare la postura di un pubblico che consuma. Provocare un’alterazione dell’idea di teatro premeditata. Non si tratta di piacere o meno, ma di compromettersi collettivamente, esponendosi, non per provocare una reazione ma per prendere posizione dopo essere state e stati messi tutte e tutti di fronte ad un fatto oggettivo.
Ci interessa rinnovare il dialogo, sempre inedito ad ogni incontro; e Monás è un lavoro a cui si può tornare, perchè la presenza agita non sarà mai uguale a sé stessa in un consesso di corpi e figure differenti. Ci aspettiamo e ci auguriamo dei ritorni.
A Milano raccoglieremo lo sguardo prezioso di Luca Mosso, che ha già assistito all’apertura del lavoro in fase di residenza artistica, con cui dialogheremo in un incontro post spettacolo. Il pubblico avrà l’occasione di partecipare ad una discussione critica e aperta.
A Roma, compiremo un ulteriore atto debordiano, proponendo un derivato sperimentale del lavoro, dopo averne condiviso il suo esito nel formato definito al suo debutto. Ribadendo il principio secondo il quale nessun evento teatrale può realmente ripetersi, ma continuare ad accadere.

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