Intervista a cura dei partecipanti al workshop Theatertelling – Futuro Festival
L’umanità tende, giorno dopo giorno, ad abituarsi a un’instancabile ricerca della perfezione. Una perfezione che attanaglia mani e idee, che costringe a sorridere e ad andare avanti di fronte alla voglia di spegnere la luce e sdraiarsi al buio.
Una perfezione che chiede di fare di più, ma che non spiega il perché.
Pensare al futuro, quando si perde coscienza delle proprie azioni presenti, diventa impossibile.
E poi c’è l’arte. L’arte che è in grado di curare, ma solo nel momento in cui ci si abbandona. Uno spettacolo come Crolli – Le idee sopravvivono della compagnia Ritmi Sotterranei, presentato in prima nazionale al Teatro Brancaccio di Roma, durante il primo weekend di Futuro Festival, diventa un ulteriore modo di raccontare come quella perfezione, unitamente alla ricerca di una pace interiore, si possa cogliere realmente solo dopo una ricostruzione meditata.
Alessia Gatta, coreografa di Ritmi Sotterranei e direttrice artistica di Futuro Festival, e la performer Viola Pantano, questo lo sanno bene.
Insieme a numerosi collaboratori, Alessia Gatta e Viola Pantano portano questa testimonianza a Futuro Festival, testimonianza che il workshop Theatertelling intende raccogliere e far riverberare.
Ne abbiamo discusso con Alessia Gatta e Viola Pantano, che in questa intervista raccontano il processo creativo di Crolli – Le idee sopravvivono e ragionano del percorso tracciato da Futuro Festival.
Qual è stato il criterio di selezione per la programmazione di Futuro Festival?
Alessia Gatta: Quest’anno un primo obiettivo è stato dare spazio anche a compagnie del territorio, programmando ad esempio Ritmi sotterranei, Spellbound, Atacama, Alexis. L’altro criterio, che è anche il principio del Festival, è quello della contaminazione: tra linguaggi del corpo, linguaggi della danza, linguaggi artistici molto differenti.
L’aspetto musicale è molto importante, con composizioni inedite, musica elettronica, musiche folkloristiche. Molta attenzione è stata riservata agli allestimenti, all’impatto scenico, all’utilizzo della voce, alla videoproiezione: una scelta dunque ampia e multidisciplinare.
Terza edizione di Futuro Festival: avvertite uno sviluppo in termini di partecipazione del pubblico?
A.G.: Sì, assolutamente sì. Abbiamo avuto proprio un reale incremento di pubblico che è, a mio avviso, fisiologico essendo al terzo anno di lavoro. Siamo partiti in piena pandemia, con un pubblico insomma numericamente appropriato rispetto al periodo storico. Lo scorso anno abbiamo già registrato maggiori presenze ma è stato un anno veramente di transizione tra la pandemia e una ripartenza reale del nostro settore, e della vita in generale.
Quest’anno credo che ci sia un movimento emotivo differente, perché siamo tutti molto più sereni, sia il gruppo di lavoro – abbiamo trovato una strada comune, abbiamo lavorato molto in anticipo e questo ha giovato alla programmazione, alla logistica e all’organizzazione – sia il pubblico che è molto più coinvolto, con la volontà di aggregarsi e di vedere cose belle.
Organizzare un festival di questo tipo non è facile, soprattutto a Roma e in uno spazio così bello ma veramente complesso da gestire, con progetti di formazione collaterali che impiegano energie, tempo; però siamo cresciuti, credo di poter dire che abbiamo fatto un bel passo in avanti.


Come immaginate il futuro del Festival e della danza contemporanea a Roma?
Viola Pantano: Credo che non ci sia una risposta assoluta come per tutte le domande complicate, però quello che cerchiamo di fare è trasmettere, anche attraverso progetti come Theatertelling e determinati tipi di azioni, il senso del festival: quello di una festa un po’ familiare. Il pubblico si deve subito trovare a proprio agio.
Un obiettivo per il futuro della danza a Roma credo sia portare il pubblico, anche quello inaspettato, a trovarsi in una situazione che lo avvicini alla danza attraverso un linguaggio e non per mezzo di una danza che racconti la danza, autoreferenziale.
Siamo in un momento di avanguardia sotto tanti punti di vista e secondo me anche la danza deve raccontare della vita e non della danza: questo è il futuro che mi aspetto.
Noi preferiamo portare all’attenzione del pubblico artisti e compagnie meno note che però si dedicano in maniera professionale e militante alla danza contemporanea e che hanno il potenziale effettivo per diventare compagnie riconosciute. In Italia ci sono tanti bravi danzatori e questa scelta per noi significa tanto.
Ci sono pochi spettatori, in generale, e come arrivare a più persone possibile è una domanda che ci poniamo, a cui rispondiamo ogni volta che aggiungiamo un pezzetto al programma o che ci proponiamo azioni per migliorare il Festival. Ogni anno, a fine Festival, facciamo un’analisi, e capiamo cosa ha funzionato e su cosa possiamo lavorare diversamente.
A.G.: Quello che immaginiamo è il discorso di festa, ma proprio come luogo. Senza dubbio il focus è lo spettatore, lo dice anche il nostro claim “il futuro è negli occhi di chi guarda”. Mi piacerebbe creare un luogo dove proprio tutti gli artisti, danzatori, musicisti, attori, anche i cantanti, street artists, si possano incontrare e condividere, alla presenza del pubblico e in dialogo con il pubblico.
Crolli parte dalla narrazione di grandi crolli della storia, dalle Torri Gemelle, al Muro di Berlino, fino al Disastro del Vajont. Si è trattato di un processo creativo collettivo? Se si, quanto i performer coinvolti, hanno attinto alle proprie esperienze personali per raccontare i “crolli dell’individuo”?
A.G.: Il percorso è partito da me, Viola Pantano e Marco Ubertini. Viola mi ha fatto conoscere Marco Belpoliti, ho letto il testo Crolli, e mi è venuta l’idea. Ho coinvolto Marco Ubertini perché cercavo un autore che non scrivesse propriamente per il teatro. Mi interessava una scrittura di altro tipo, e quindi ho pensato proprio a un rapper. Con un passaparola è saltato fuori il nome di Marco Ubertini, che è anche autore del libro 33, e che si stava aprendo proprio anche a questo tipo di progetti.
Lo sviluppo del progetto è stato comune. Nella fase creativa tutti gli interpreti sono sempre coinvolti, al di là dei movimenti, anche a livello emotivo. La prima settimana di produzione è stata dedicata a un laboratorio creativo dove tutti insieme, attraverso delle mie suggestioni e delle mie proposte di materiale, abbiamo esplorato i nostri pensieri, i nostri crolli, sia emotivi sia strutturali, con delle metafore e abbiamo cercato la strada comune per poter raccontare questa storia, che poi è la nostra.
Che ruolo gioca in Crolli lo stimolo acustico? Con quale fine voce narrante e musicisti sono parte preponderante della performance?
A.G.: L’aspetto acustico per me è stato fondamentale. I Mokadelic hanno raccontato perfettamente ogni minuto di Crolli a livello musicale, è stato veramente molto bello lavorare insieme. In scena ci sono solo due musicisti ma tutta la band ha lavorato al progetto Crolli, che è diventato anche un album. ll mio primo desiderio era avere la band in scena, oltre al rapper, perché volevamo linguaggi metropolitani, urban. Non avrei potuto immaginare Crolli senza queste figure. È stato stimolante, grazie a questa collaborazione si sono aperte ulteriori dimensioni che mi hanno aiutata proprio nella creazione. Stessa cosa per il testo: ho cercato di raccontare attraverso il corpo quello che Hube ha scritto.
La gabbia è molto presente e sicuramente evocativa nell’esibizione crolli, soprattutto al fine di creare un continuo contrasto tra l’interno e l’esterno. Quanto si estende a livello drammaturgico la funzione di questo elemento scenografico?
V.P.: Avere un oggetto così determinante, anche a livello drammaturgico, cambia la percezione del movimento. ll dentro e fuori raccontato durante tutto lo spettacolo diventa plastico attraverso la gabbia: il mio personaggio entra ed esce da questo rifugio immaginario, reale, post-apocalittico, si trova in un luogo dove ritrova alcuni suoi oggetti, il taccuino dove aveva scritto delle cose e che legge per darsi delle soluzioni. In Crolli gli oggetti sono la mia linea guida, mentre gli altri danzatori è come fossero delle mie visioni interne. Si tratta di un viaggio, durante il quale ci si può risvegliare dopo una catastrofe e ritrovarsi da soli a cercare di capire se vale la pena vivere ancora e ricostruire.
In Crolli la luce sembra introdurre le diverse situazioni quasi facendo corpo narrativo a sé. A che punto della realizzazione scenica è stato formulato il disegno luci?
A.G.: Il light designer Alessandro Caso è intervenuto alla fine, anche se ci siamo parlati durante tutto il processo creativo e fin dall’inizio ha letto la drammaturgia, i miei appunti, cercando di capire quale fosse l’ambientazione anche attraverso una serie di reference che gli ho fornito, sia cinematografiche sia teatrali. Lavoro molto per immagini. Il vero e proprio disegno luce è stato realizzato appena è finita la produzione: durante l’ultima settimana Alessandro ha assistito alle prove dello spettacolo completo e ha generato una pianta, poi l’ha condivisa con me e Viola.
Credo che la luce faccia la differenza per un corpo in scena.
Anche pensando alle compagnie ospitate, siamo un Festival che sta cercando di garantire il massimo della tecnica. Non tutti i Festival lo fanno e questo ci tengo a sottolinearlo. Io sto puntando tantissimo alla messa in scena e a garantire alle compagnie il massimo dell’assistenza, perché so cosa vuol dire snaturare uno spettacolo.

Ornella Rosato è giornalista, autrice e progettista. Direttrice editoriale della testata giornalistica Theatron 2.0. Conduce corsi formativi di giornalismo culturale presso università, accademie, istituti scolastici e festival. Si occupa dell’ideazione e realizzazione di progetti volti alla promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.