
Il gruppo Mk si occupa di coreografia e performance dal 1999 e ruota intorno ad un nucleo originario di artisti costantemente in dialogo con altri performer e progettualità trasversali.
Con Bermudas il gruppo ha vinto il Premio Ubu 2019 per il “Miglior spettacolo di danza dell’anno. La performance è pensata per un numero variabile di interpreti (da tre a tredici), intercambiabili tra loro. La coreografia di Michele Di Stefano si propone di dare vita a una danza che permetta di costruire uno spazio sempre accessibile a qualunque nuovo ingresso. Al centro di questo sistema di movimento sono le caratteristiche singolari dei danzatori, le cui individualità sono chiamate a originare incontri e mediazioni – un campo energetico molto intenso (a cui il nome ‘Bermudas’ ironicamente fa riferimento), un rituale collettivo che gestisce e assorbe tendenze divergenti e malintesi.
Intervistiamo Biagio Caravano, uno dei fondatori del gruppo Mk nonché uno dei danzatori dello spettacolo Bermudas:
Bermudas, ispirato dalle teorie del caos, è “un organismo di movimento basato su regole semplici e rigorose che producono un moto perpetuo”, per il quale avete richiesto la consulenza matematica di Damiano Folli. Come è nato?
Di solito i lavori di MK sono il fraintendimento degli spettacoli già avvenuti. Bermudas arriva da un processo che abbiamo sviluppato in uno spettacolo precedente, Robinson, in cui c’era una parte centrale formata da nove segni che andavano a loop. Da lì è nata l’idea di Bermudas, ispirato dalla generazione di insiemi complessi a partire da condizioni elementari. Quattro gesti questa volta, ripetuti nel tempo, per costruire complessità nella relazione con gli altri corpi. È importante spostare l’oggetto dalla centralità del corpo ai confini del mondo, il più lontano possibile, e creare uno spazio dove la danza è possibile solo nel momento in cui permette ad un’altra danza di esistere al proprio fianco.
Ci sono più versioni di Bermudas: come muta in base all’interazione nello spazio?
Bermudas è fatto da 13 danzatori, non tutti contemporaneamente in scena, massimo 7, 8 persone alla volta. La cosa secondo me interessante è che non ha più bisogno di prove: noi diamo appuntamento ai danzatori in scena il giorno stesso, perché abbiamo stabilito a priori un processo basato sull’incontro e sulla mediazione. Bermudas è fatto da più persone, anche di diversa età, perché lavora proprio sull’idea della relazione, sul fatto che il tuo stare genera uno spazio sempre accessibile ad un nuovo ingresso, per cui il sistema cambia di volta in volta a seconda di chi c’è accanto a te, nonostante la produzione di segni resti immutata. I quattro segni elementari restano invariati, ma il rapporto che stabilisci col tempo, con lo spazio e con il ritmo dipende dal corpo che ti ritrovi davanti, perché immetti punti di vista differenti e quindi il modo in cui percepisci l’attività di danza.
Quindi, siccome i corpi cambiano, cambia in continuazione il sentimento di questo processo. Nasci come musicista. Che musica ti ispira?
Io e Michele di Stefano veniamo dal punk. Siamo ex musicisti, ci siamo formati a Salerno negli anni Ottanta. Penso al corpo come a una sostanza sonora, per cui la musica è sempre in continua relazione con quello che faccio. Pensiamo sempre a uno spettacolo come a una sorta di LP, di disco musicale.
Fai parte del corpo docenti della Paolo Grassi e dell’Accademia Nazionale di Danza di Roma. Cosa hai imparato insegnando?
È sempre complicato mettere in parola quello che produci con il corpo. Perché le parole sono sempre fraintendibili, il corpo è sempre risolutore. Il corpo, messo davanti alla parola, produce sempre una chiarezza nel pensiero. E quindi la pratica di insegnare, di trasmettere informazioni in un corpo altro, produce chiarezza in noi stessi.
Quali doti dovrebbe avere un danzatore/una danzatrice?
Io lavoro sul disfacimento del concetto di soggetto. Deporre la volontà per non esistere. Essere nell’abbandono. Meno porti te stesso nel movimento, nella danza, più quella cosa in realtà ti appartiene. Più ti allontani e più ti appartiene. Si tratta di costruire uno stato che ti permetta di interfacciarti al mondo esterno. La parola che meglio esprime questo stato è resa, arrendevolezza. Quando ti arrendi davanti all’evidenza, sei pronto a guardare quella cosa e a spostarti completamente da un’altra parte. Coabitare nella diversità, uno spazio ambiguo pieno di complessità, di strategie di avvicinamento, di possibili malintesi tra i corpi.
Cosa significa per te questo UBU vinto con Bermudas, dopo il Leone d’Argento alla Biennale 2014?
Non sono uno a cui interessano i premi, ma per me significa che la strada che stiamo percorrendo in qualche maniera ha senso, ovvero un ritorno all’esterno. Questo mi interessa.
Perché hai scelto proprio la danza?
Perché la danza è il muscolo della vita, la danza mi dà delle possibilità.