«Lasciateci la nostra pazzia e la nostra memoria». Il filo di mezzogiorno di Goliarda Sapienza nella regia di Martone

Giu 12, 2022

«Non andare fra le viti nel filo di mezzogiorno: è l’ora che i corpi dei defunti, svuotati della carne, con la pelle fina come la carta velina, appaiono fra la lava. (…) O morirai di sete fra gli sterpi disseccati dal sole – sterpo secco pure tu – o penserai sempre a loro smarrendo il senno».

È durante questa temibile ora che – ogni giorno – il dottor Ignazio Majore si reca nell’appartamento di Goliarda Sapienza, per tentare di ricucire i brandelli della sua memoria, sfilacciata dalle scariche dell’elettroshock a cui è stata sottoposta dopo un presunto tentativo di suicidio. È dunque il tempo dell’analisi e della relazione terapeutica quello che viene a dispiegarsi ne Il filo di mezzogiorno, spettacolo diretto da Mario Martone, tratto dall’omonimo romanzo della scrittrice catanese (1969) e adattato da Ippolita Di Majo.

Quando le tapparelle filtrano la luce del sole al suo apice, la stanza allestita sul palcoscenico si popola di ombre e fantasmi, che fanno irruzione nei ricordi di Goliarda – interpretata da un’appassionata Donatella Finocchiaro – e le permettono man mano di recuperare e riconfermare alcuni aspetti della propria straordinaria personalità: siciliana trapiantata a Roma, cresciuta in una famiglia di anarchici, figlia di una sindacalista intransigente, legata per sedici anni al regista Citto Maselli da un intenso rapporto sentimentale. Ma soprattutto, artista poliedrica, attrice formatasi alla Silvio D’Amico, “compagna”, scrittrice.

Il tortuoso filo dell’esperienza personale di Sapienza viene ad annodarsi a quello collettivo della Storia: quello che nel romanzo si configura come un resoconto autobiografico, si offre nella pièce di Martone come un sorprendente affresco dell’Italia del Dopoguerra. 

In una fisicità tumultuosa, tra i mancamenti, i sussulti e le esplosioni di gioia, Donatella Finocchiaro rievoca il fascismo, i bombardamenti degli americani, la Resistenza, le carceri, la tortura. E poi ancora le istanze femministe, la lotta per i diritti, perché «non bisogna sposarsi finché non ci sarà il divorzio!». Tuttavia, in un Paese in cui la legge Basaglia appare ancora come un lontano miraggio, è soprattutto “un’analisi dell’analisi” a emergere dal testo di Goliarda Sapienza: secondo le parole di Angelo Pellegrino, Il filo di mezzogiorno è infatti un libro – e uno spettacolo – «d’amore per l’analisi (…) e di critica a una certa psicoanalisi».

È soltanto a pièce iniziata che il pubblico può rendersi conto di come il grande salotto in cui si svolge l’azione si componga in realtà di due stanze distinte, perfettamente simmetriche. I due ambienti si riflettono l’uno nell’altro, si congiungono e si divaricano, proprio come gli universi psichici di Goliarda e del suo analista – i cui panni sono vestiti da Roberto De Francesco – si attraggono e si respingono, si avvicinano alla propria autocomprensione grazie all’incontro e allo scontro con l’altro.

L’invenzione scenografica (a cura di Carmine Guarino) non permette soltanto l’effetto – quasi cinematografico – di dilatazione e restringimento della scena, ma una vera e propria spazializzazione dei meccanismi dell’inconscio e della relazione terapeutica. E così, l’intesa tra i due protagonisti sembra accendersi quando il dottor Majore intona un vecchio canto dei pescatori delle isole Eolie, ed entrambi si riconoscono nei “siciliani” che «si scurdarunu di essiri puvureddi». Ma nel momento in cui Goliarda si sente travolta dal sentimento amoroso – e lo dichiara – questo viene lucidamente e freddamente catalogato da Majore-De Francesco come la tipica dinamica psicanalitica del transfert.

Le idee dirompenti della scrittrice e la concretezza del suo sentire spingono Majore a incorrere in un violento urto contro i limiti della propria “scienza”, che da Goliarda stessa è definita come una “religione”: «un nuovo codice di regole che dà la perfezione o meglio, (…) l’integrità psichica». Per quanto guidato da un autentico impegno alla cura, il trattamento dell’uomo promette una ricostruzione dell’io tramite il suo adattamento e la sua reintegrazione in un contesto sociale che negli anni Sessanta sta profondamente cambiando. La paziente-Goliarda è infatti spesso considerata, in maniera essenzialista, “in quanto donna” che “naturalmente” dovrebbe nutrire determinati desideri e bisogni.

«In questo secolo di religiosità scientifico-tecnica, l’emozione, l’amore, la scelta morale, la fedeltà e finanche la memoria cadono in sospetto di malattia – argomenta la scrittrice, che crede nell’irriducibilità di ogni individuo a qualunque dogma –. (…) Se siamo morbosi, malati, pazzi, a noi va bene così. Lasciateci la nostra pazzia e la nostra memoria».

Con un’incredibile autonomia di pensiero, nella sua opera così come nella sua vita, Goliarda Sapienza – che dopo l’esperienza nella clinica psichiatrica, conoscerà da vicino anche quella del carcere – scardina qualunque sistema valoriale prestabilito e invita a fuoriuscire da qualunque norma socialmente imposta e accettata.

Allo stesso modo, Donatella Finocchiaro fuoriesce dallo spazio scenico, per avvicinarsi al pubblico e consegnare all’intera platea una commossa testimonianza: «Vi chiedo solo questo: non cercate di spiegarvi la mia morte, non la sezionate, non la catalogate per vostra tranquillità, per paura della vostra morte ma al massimo pensate – non lo dite forte la parola tradisce – non lo dite forte ma pensate dentro di voi: è morta perché ha vissuto».

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