L’arte di sorprendere. Intervista a Paolo Nani

Dic 13, 2018

Adatto ad un pubblico da 0 a 99 anni, piccolo miracolo di precisione scenica, evergreen del teatro internazionale, La lettera scritta da Paolo Nani e Nullo Facchini vanta più di 1500 repliche in tutto il mondo. Liberamente ispirato a Esercizi di stile, libro dello scrittore francese Raymond Queneau, lo spettacolo narra di un uomo che entra in scena, si siede a un tavolo, beve un sorso di vino, contempla la foto della nonna e scrive una lettera. Quindi la imbusta, la affranca e sta per uscire, ma gli viene il dubbio che nella penna non ci sia inchiostro. Controlla e constata che non ha scritto niente. Deluso, esce. La storia si ripete 15 volte in altrettante varianti: all’indietro, con sorprese, volgare, senza mani, horror, cinema muto, circo, e tante altre ancora. Non si smette mai di ridere per tutta la durata dello spettacolo, grazie all’incredibile precisione, dedizione, studio e serietà di un artista che è considerato a livello internazionale uno dei maestri indiscussi del teatro fisico.

In occasione delle repliche al Teatro Filodrammatici di Milano abbiamo intervistato l’attore Paolo Nani:

Dal 1990 risiedi in Danimarca: come ti sembra la situazione teatrale italiana attuale? Uno spettacolo che ti ha colpito particolarmente?

La situazione teatrale italiana attuale non la conosco. Giro il mondo e vedo pochi spettacoli, magari apro un festival di cui poi non riesco a vedere nulla, perché dopo il mio spettacolo devo già ripartire. Tra artisti ci si vede poco, è un classico. Ad Avignone mi ha colpito Pss Pss della Compagnia Baccalà, fondata da Simone Fassari e Camilla Pessi, uno spettacolo in cui ci si dimentica del tempo. In un festival danese ho visto Father, della compagnia belga Peeping Tom. Bellissimo. Insomma, bisogna girare per vedere belle cose.

I tuoi video C’è vita fuori scena?, caricati su Youtube e condivisi sulla tua pagina Facebook, hanno migliaia di visualizzazioni: in che modo credi che questo influisca sulla quantità e sul tipo di pubblico che poi ritrovi in sala?

In Italia ho più spettacoli di prima. Attraverso i video arrivo a tanta gente e anch’io sono sorpresissimo che ce ne siano alcuni visualizzati 800.000 volte. Certe volte chiedo, a fine spettacolo: “Quanti mi conoscono per i video?” e magari sono anche un quarto del pubblico. C’è gente che mi scrive: “Noi non facciamo teatro, ma troviamo di grande ispirazione le cose che dici!” e questo mi fa particolarmente piacere, anche perché sto scrivendo la mia storia, sto preparando un libro, e questo è per me un modo per riflettere.

Nelle tue lunghe tournée all’estero ti confronti con un pubblico eterogeneo: in che modo la differenza influenza il tuo lavoro?

Ho capito che si diventa sempre più bravi imparando a fare spettacoli per pubblici diversi. Giocare in casa è più facile. Diventi più bravo mettendoti in difficoltà. Se porti uno spettacolo in giro per il mondo ti trovi in situazioni in cui non è facile per niente e all’inizio dici “No, non ce la faccio”, poi pian piano trovi il modo di raggiungere queste persone, magari cambi il ritmo, l’energia, le intenzioni, i colori… Un torero impara a uccidere tori, ma ogni volta il toro è diverso. Non è che se impara a ucciderne uno poi gli altri sono tutti uguali, no! È sempre diverso, devi sempre fare i conti, ogni giorno, anche nello stesso posto, a Milano, con un pubblico diverso.

A un certo punto della tua carriera, hai deciso di passare dal registro tragico al comico: cosa ti ha spinto?

Ho fatto per dodici anni spettacoli drammatici, perché nella compagnia argentina in cui lavoravo, Teatro Nucleo, si facevano spettacoli con temi molto importanti. A un certo punto ho visto uno spettacolo comico di Bolek Polìvka. Lo conoscevo già, e ogni volta pensavo: “È sempre bravissimo, è sempre molto ispirante, sarebbe bello fare una cosa comica! Ma accidenti, io sono un attore drammatico, non posso immaginare di fare una cosa del genere…” e quando poi ho fatto LA LETTERA è stata una grande sorpresa per me che la gente si schiantasse dalle risate!

Come avete costruito LA LETTERA?

Siamo partiti da Esercizi di stile di Raymond Queneau con l’idea di fare una cosa visiva, non basata sulle parole. Nullo Facchini, il regista, mi ha detto: “Fai questa azione qua, scrivi una lettera e poi ti accorgi di non aver scritto niente”. “A me sembra una boiata!” ho detto io “Ma proviamo…”

Quindi abbiamo cominciato a costruire due o tre scene alla settimana, abbiamo fatto una quarantina di scene così, poi vedevamo come funzionavano e poi abbiamo messo in fila quelle più belle, quindici, in ordine crescente di assurdità.

Uno spettacolo come LA LETTERA richiede un grande allenamento fisico, tanto più se hai due repliche a sera: come ti alleni?

Quando devo fare molti spettacoli evito i carboidrati. Mi accorgo che non sono più dipendente da pasta e dolci, da quella carica che però poi ti fa salire la glicemia e ne vuoi ancora. Mezz’ora prima di andare in scena mangio una banana, perché contiene potassio, mi hanno detto, e noto proprio una differenza di energia. Bevo parecchia acqua, non fredda e non gasata. Per le articolazioni bevo il golden milk, un preparato a base di curcuma, potente antinfiammatorio, latte vegetale, pepe, una goccia di olio di mandorle, miele. Buonissimo.

Come sono strutturati i tuoi laboratori?

Insegno le cose che ho imparato: ho scoperto che ci sono quattro cose fondamentali che fanno funzionare una scena: gioco, stile, timing e intenzioni. Due riguardano l’attore, intenzioni e timing e due riguardano la struttura che un regista o un attore/autore può pensare di organizzare, lo stile e il gioco drammaturgico.

Il gioco drammaturgico è il drive, il motore che fa sì che il pubblico resti interessato e in genere ha a che fare con un conflitto. Se Romeo e Giulietta si sposano dopo 5 minuti, andiamo tutti a casa perché non ce ne frega più niente. Ci interessano i conflitti, gli impedimenti, eccetera eccetera. Nel circo c’è un conflitto autoimposto: vado su un filo, brucio vivo con 40 clave, cose così. Il motivo per cui siamo interessati al conflitto non è culturale, è biologico. Noi siamo interessati al conflitto come specie. Se mi dai 10 notizie buone e una cattiva, guardo la cattiva subito, per vedere se è tutto a posto o sono in pericolo. Lo stile è l’arte di creare universi, e nei miei workshop impariamo a decodificare uno stile, una forma, un universo, con cui poi possiamo fare quello che vogliamo, anche mescolandolo con altri stili. Il timing è l’arte di mantenere vivo lo spettacolo, che anche se fissato è sempre diverso perché il ritmo, come nel jazz, è sempre diverso. Le intenzioni dell’attore devono essere leggibili, deve essere perfettamente trasparente quello che sta pensando: anche se ci sono mille persone in sala, deve arrivare a coinvolgere fino all’ultima fila.

Ti è capitato di fare spettacoli anche per le scuole e in JEKYLL ON ICE! coinvolgi moltissimo il pubblico: come ti relazioni con i più giovani?

In Danimarca i giovani sono meno legati e paurosi, non si bullizzano tra loro. Nell’ultima replica non so se i ragazzi che ho coinvolto fossero compagni di classe o un gruppo di amici, ma si bullizzavano tra loro e mi dispiaceva tantissimo, perché vedevo che si facevano del male a vicenda e tutto questo creava tensione e dolore. Il mio personaggio in JEKYLL ON ICE! è molto diretto, non permette che la gente si nasconda. Credo che questo faccia la differenza. Se io sono autentico, gli altri lo percepiscono e magari sentono che possono essere autentici a loro volta.

La scelta di salutare il pubblico, alla fine di JEKYLL ON ICE!, preparando un gelato per ogni spettatore è interessante…

Ho fatto i conti: quanto gelato riesco a tenere nel carretto? 15 litri. Regalo quindi circa 120 gelati. Va bene, si può fare! E così si chiude il gioco. È un bel modo di salutarsi.

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