Era molta la curiosità, dopo l’intervista a Barbe à Papa Teatro, di vedere come l’ardore e le peculiarità artistiche, le difficoltà e i vissuti personali si sarebbero tradotti concretamente sulla scena. Nel caso specifico, è stato dentro un accogliente e intimo Spazio Franco – scrigno di creazione contemporanea all’interno dei Cantieri culturali alla Zisa di Palermo – dove la compagnia siciliana ha presentato lo spettacolo conclusivo della trilogia Generazione Y, L’arte della resistenza, di cui si era solo accennato nella scorsa intervista.
Accolti e sostenuti dal calore umano della loro terra, i quattro performer – Chiara Buzzone, Federica D’Amore, Totò Galati, Roberta Giordano, guidati dal regista e autore Claudio Zappalà – hanno raccontato, con umorismo e insieme profondità, i disagi e le consapevolezze della loro generazione, provata da crisi multiformi e alla costante ricerca di una direzione e di certezze, sfuggenti, a cui affidarsi.
Il tema della “malattia mentale” viene subito introdotto e posto all’attenzione del pubblico. Dopo una vera e propria irruzione sulla scena come per prepararsi a una lotta – tra allenamenti in abiti sportivi, urla di sfogo e musica energica – qualcuno sta per crollare, o meglio, per essere attirato al cielo verso il quale tende, sfinito e speranzoso, una mano; cala allora un improvviso silenzio e una domanda lo scuote: si può fare teatro quando si è depressi? Cosa si può fare quando si è depressi? – chiede, affacciandosi al pubblico e interrogando anche il cielo, Federica, che come gli altri compagni, non porta in scena alcuno specifico personaggio se non se stessa e la collettività di cui si fa portatrice. La società e il pensiero ormai automatico del “dover fare” impongono di andare avanti sempre e comunque, ma la risposta dell’organismo sembra la più sana e umana possibile, e chiede solamente di fermarsi e ascoltare.
Lo spettacolo – in cui Barbe à Papa Teatro si mette in gioco nel tentativo di condurne un altro, situato nell’intercapedine tra finzione e realtà – si realizza dunque come una risposta a questa esigenza di pausa e riflessione. I quattro attori/non-attori iniziano così a dialogare; a sostenersi a vicenda sorreggendo, anche fisicamente, chi sta per mollare; a raccontarsi, tra sentimenti di inadeguatezza, sogni e la sensazione di essere perennemente fuori tempo. Ma cosa si sta inseguendo e, soprattutto, per cosa si sta vivendo?
Dalle domande sul senso ultimo e personale dello stare al mondo – frapposte tra aneddoti e gag, mentre si ha la sensazione di stare in confidenza come con degli amici – risulta chiara l’identità della compagnia, che si era auto-descritta con l’aggettivo “ambivalente”: leggera come lo zucchero quando viene filato, ma allo stesso tempo tagliente come quando si solidifica dopo esser stato sciolto.
Nel buio delle incertezze, ci sono però dei punti chiari che via via emergono dal fondo: quello di non voler rinunciare a tutto per poter dire di essere sopravvissuti; e l’importanza dell’amicizia e della condivisione, strumenti di forza nella resistenza di esseri umani fragili.
Prima di connettersi agli altri, però, è necessario denudarsi dei panni che si indossano nella vita e delle maschere, riducendosi all’essenza di cui siamo fatti: nient’altro che desideri e paure. Così, anche il corpo fisico diviene simbolo, oggetto di svestizioni e vestizioni, mostrato con e senza artifici, davanti e di spalle, nella forma in cui parte del senso di inadeguatezza si concretizza.
Scegliere una strada che ci disancori dai canoni e dagli obblighi sociali, dalla certezza dell’infelicità, richiede però un grande coraggio, che non sempre si ha; a volte si decide di rinunciare alla propria vocazione e ai propri ideali in nome di una serenità perlopiù fittizia, altre volte il prezzo da pagare risulta inaccettabile.
Sulla scena, intanto, si alternano differenti ritmi, così come i dialoghi lasciano il posto ai monologhi in cui l’attore o l’attrice di turno vanno in primo piano, mentre gli altri rimangono sullo sfondo; ora in ascolto come un pubblico partecipe, ora agendo e animandolo. La scena varia inoltre lentamente sul piano cromatico, verso una maggiore intensità di colori per poi incupirsi, sempre però mantenendo un senso complessivo di armonia; così, anche le emozioni e gli umori seguono questa continua altalenanza, a volte in modo sorprendente: l’allegria un po’ forzata di una festa di fine anno racchiude anche un fondo di malinconia e una riflessione sul senso del tempo; la grinta di un karaoke conduce a un clima gioioso fino a un picco di speranza che non lascia presagire in alcun modo il finale che attende. Improvvisamente, si viene catapultati in una nuova dimensione – antica e attuale insieme – che richiama quella di una tragedia greca reinventata in chiave contemporanea, dove l’ineluttabilità si affianca a un’estenuante lotta contro i propri demoni e quelli di una realtà non sempre così benevola.
Della vita che si lascia non resta soltanto una manciata di oggetti che ci hanno rappresentato, ma persiste il senso di unione e l’amore che abbiamo coltivato – fino alla fine e mano nella mano – con chi ci ha accompagnato lungo il viaggio e dovrà proseguirlo; ed è una fusione che avviene anche col pubblico in sala, accompagnato anch’esso con candore e genuinità fino al momento dei saluti. Ma non c’è alcuna linea di separazione tra il dentro e il fuori: ci si guarda dalla penombra alla luce con occhi visibilmente commossi – ognuno artista della propria resistenza – e la certezza che il messaggio sia arrivato, confortante come un abbraccio dentro al quale, anche se forse per poco tempo, non ci si è sentiti soli.
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Barbe à Papa Teatro sarà presente al Festival Off d’Avignon 2023 (8 – 26 luglio) con il primo spettacolo della trilogia, Il coro di Babele; ed è attualmente impegnata con il laboratorio teatrale “Prima del viaggio” a cura dell’autore e regista della compagnia Claudio Zappalà, prossimamente a Imola, Napoli e Catania.

Siciliana che non riesce davvero a mettere radici altrove. Si laurea a Roma e Messina in Comunicazione, poi in Scienze dello spettacolo, e fa un master in Imprenditoria dello spettacolo a Bologna. Le piace scrivere in prosa e poesia (ha pubblicato la raccolta “Preludio” con Ensemble Edizioni) e di teatro. Si sta addentrando nell’insegnamento delle discipline audiovisive, ma sotto sotto vorrebbe imparare a recitare.