L’acquario della memoria. Il teatro come resistenza affettiva

Giu 17, 2025

Cosa succederebbe se un pesce cominciasse a ricordare?

È da questa domanda semplice che prende corpo il testo di Victoria Blondeau –  nata a Terni nel 1999  e cresciuta a Castel dell’Aquila – frazione umbra minuscola, lirica, fuori dal tempo. I suoi spettacoli non archiviano la memoria: la fanno vivere, la inseguono.
Nella scena teatrale italiana sempre più polarizzata tra l’accademia formale e la performance radicale, la sua voce ibrida è difficile da classificare: colta ma popolare, ironica ma lacerata, femminile ma mai definita dal genere. La sua ossessione? Il tempo. O meglio: ciò che il tempo cancella.

Immaginate un acquario. Trasparente, claustrofobico, invitante. Dentro, tre corpi che nuotano – o affogano – nel proprio passato che evapora. I corpi degli attori – Alessandro Mannini, Caterina Fontana, Damiano Venuto – sono relitti e rituali, frammenti post-umani che ci costringono a guardare ciò che abbiamo smesso di voler vedere. Quando i pesci ricorderanno allora noi, lo spettacolo firmato dalla regista Simona De Sarno è un morso proibito alla memoria collettiva. Un’esperienza sensoriale e feroce che ha incantato il pubblico del Teatro Basilica di Roma, trasformando un universo minimale in una trappola esistenziale e visiva.

“Il vero trauma non si ricorda: ritorna.” Così scrive Cathy Caruth, teorica della trauma theory. È da questo paradosso che sembra scaturire Quando i pesci ricorderanno allora noi. L’acquario – cuore scenico dell’opera – diventa luogo dell’eterno presente: nessuna storia, solo ripetizione. Nessun tempo lineare, solo un ciclo mnemonico inceppato. Come in Differenza e ripetizione di Deleuze, ciò che ritorna non è identico, ma mutato, contaminato, segnato dalla perdita.

Victoria Blondeau scrive testi che sembrano partiture per la mente: ossessive, tagliate, ellittiche. I suoi personaggi, ridotti a sagome parlanti, abitano un acquario che è metafora del potere (biopolitico, direbbe Foucault) e della dimenticanza istituzionalizzata. Perché ricordare, in fondo, è anche un gesto sovversivo. La regia di Simona De Sarno spinge lo spettatore verso una posizione scomoda, quasi etica. Non ci è concesso osservare da fuori: siamo nel vetro, nel sistema. Il gesto teatrale si fa interrogazione ontologica.

In un’intervista a due voci, abbiamo messo a confronto la visione registica di De Sarno e l’universo drammaturgico di Blondeau. Ne emerge un dialogo fertile, radicato nella contemporaneità e affamato di domande. Una conversazione come un frammento di Walter Benjamin: “Solo a chi non ha più speranza è data la speranza.” E forse è proprio lì, nel cuore molle dell’acquario, che si nasconde la scintilla sovversiva del teatro.

Il titolo Quando i pesci ricorderanno, allora noi evoca un’immagine sospesa tra poesia e inquietudine. Sembra contenere un cortocircuito temporale, una tensione tra memoria e futuro. È stato un punto di partenza per la scrittura o è emerso dopo? Che significato ha per lei? 

Quando i pesci ricorderanno, allora noi è un titolo che è nato dopo, ma poi è diventato guida. Non c’era nella prima fase embrionale del lavoro nel 2021, in piena pandemia, durante un’esercitazione di drammaturgia condivisa con una mia collega di accademia,Valentina Brancale. Allora il centro era la costrizione, il respiro, ma anche l’assurdità. Pensare a questi animali persi in una boccia ci ha fatto scrivere questa prima scena come un gioco, ma un gioco serio, nato in un tempo fragile e sospeso. La memoria c’era, ma era più un espediente, un pretesto teatrale per parlare d’altro. È stato solo nel 2024, rileggendo quelle prime battute con Simona De Sarno (la regista), che ci abbiamo visto altro. Con il forte, fortissimo eco dei primi eventi a Gaza nell’ottobre 2023, il testo ha trovato una direzione più chiara. Il bisogno di parlare davvero della memoria è diventato centrale, non più un espediente, ma un fondamento, perché non può esserci comunità senza memoria. Da lì sono arrivate le prime pagine della demo e con loro, il titolo.

“Quando i pesci ricorderanno” è una frase paradossale, perché si dice che i pesci non abbiano memoria. Ma se un giorno ricordassero, allora dovremmo farlo anche noi, che dovremmo avere tutti gli strumenti per ricordare, eppure…
“Allora noi” è una frase sospesa. Manca qualcosa: un verbo, un’azione, una presa di responsabilità. Forse una promessa, forse una minaccia. Forse solo una frase da continuare, ma sospesa, volutamente.

La sua drammaturgia lavora su una conservazione, una lieve frammentazione o su un sabotaggio della narrazione lineare? Come si organizza nella scrittura? Lavora per accumulo, per scarti, per visioni?

La drammaturgia parte da una tensione verso la narrazione, ma non la conserva mai del tutto. C’è una volontà di rompere la linearità, ma senza cancellarla. I pesci resettano la loro memoria, è dunque impossibile creare una trama, dal momento che ogni volta è un nuovo incontro. La frammentazione non è un sabotaggio, è una forma di fedeltà all’esperienza stessa della memoria, che non procede per causa ed effetto, ma per ritorni, mancanze, sovrapposizioni.

Fin dall’inizio, l’espediente della memoria è stato un vincolo narrativo forte: una scelta consapevole, che ha creato una gabbia formale a cui siamo rimaste fedeli. Non abbiamo cercato di evaderla, ma di abitarla fino in fondo, e questo ha generato inevitabilmente una drammaturgia frammentata, che vive di vuoti, slittamenti e voci che non sempre si ricongiungono.

Come pensa il rapporto tra parola, voce e carne? La scrittura nasce già con un ritmo fisico?

Non so se ho una teoria precisa sul rapporto tra parola, voce e carne. O meglio, so che c’è, ma si muove più che spiegarsi. Quando scrivo per la scena, penso subito all’azione che le parole stanno portando avanti, così come penso a quando di parole non se ne devono scrivere proprio, perché l’azione non deve essere verbale. È lì che inizia il lavoro più interessante: capire cosa tiene, cosa vibra, cosa non funziona.

Il tema della memoria attraversa il suo lavoro come ricordo nostalgico o come qualcosa di perturbante, forse tossico? In che modo lavora con la memoria nella scrittura? È un atto di cura, di ricerca o entrambe le cose?

La memoria, nel lavoro di quando i pesci ricorderanno, non è né solo nostalgia, né totalmente perturbante. È qualcosa di necessario. Un elemento che non può essere perso, rimosso, ignorato, perché quando lo è, le conseguenze si vedono (e sono spesso terribili). Non è solo tema, è anche struttura: frammenta, ritorna, interrompe. Per questo non posso trattarla solo come un atto di cura: è anche un campo di tensione, in cui la scrittura cerca, ma non sempre trova. O trova troppo.

Scrivere con la memoria, per me, è anche un modo per togliere l’alibi al presente. Per guardarlo sapendo che non arriva dal nulla, e che ogni comunità, se vuole esistere davvero, deve farsi carico del proprio passato, anche quando è scomodo.

Qual è il ruolo del silenzio nella sua drammaturgia?

In un testo che lavora con la memoria, il silenzio è fondamentale: è il luogo delle cose non dette, dimenticate, rimosse. Ma è anche il luogo da cui può riemergere una parola vera, che riaffiora. Insomma, il silenzio non è mai lì “per caso” o per riempire un buco. È materia drammaturgica, con un suo peso specifico, come fosse una battuta senza testo ma con corpo, ritmo e direzione.

I pesci di questa storia dimenticano tutto, anche il lutto. Ma noi, siamo davvero tanto diversi?

No, non siamo così diversi. Il pesce è una metafora dell’uomo. Abbiamo costruito tanto, noi umani, sull’abilità di rimuovere, di lasciar scivolare nel fondo quello che non vogliamo più vedere. Dolore, colpa, responsabilità collettiva. Dimentichiamo per sopravvivere, ma anche per non cambiare. Nel testo, il pesce non è altro da noi: è noi, solo un po’ più onesto. Quando diciamo che i pesci dimenticano, forse stiamo solo cercando di convincerci che noi, invece, ricordiamo. Ma non è sempre vero.

Qual è stato il dialogo tra scrittura e regia in “Quando i pesci ricorderanno, allora noi”? Ha scritto pensando già allo spazio, al suono, alla luce?

Il confronto con la regia è fondamentale in questo testo, che altrimenti non sarebbe neanche nato. Abbiamo pensato insieme all’andamento delle scene, tenendo d’occhio i temi e l’esito che avevamo chiaro nelle nostre teste. Poi abbiamo visto insieme, prova dopo prova, che certe parole funzionavano e altre no, avendo sempre il coraggio di togliere o aggiungere quando serve. Scrivere per la scena significa anche far parlare le parole con la voce di qualcun altro. E lasciarsi sorprendere quando una frase, scritta a tavolino, prende fiato e cambia faccia.

Chi sono gli autori, le artiste, i territori estetici che hanno formato la sua visione del teatro? E da cosa oggi sente il bisogno di prendere le distanze?

 A livello drammaturgico, sono passata attraverso i classici, come credo sia successo a molte e molti. Shakespeare, Tennessee Williams, Čechov sono stati punti di partenza fortissimi, e poi Mamet, Crimp – ognuno con un ritmo, un’intenzione, una crudeltà diversa. Per quanto riguarda il teatro visto, lo spettacolo più memorabile per me degli ultimi tempi, tanto che l’ho visto due volte nel giro di due mesi è stato Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa di Eugenio Barba, e ho capito che ci sono linguaggi che si imprimono addosso anche quando non si capiscono subito. A teatro mi sono goduta anche Carrozzeria Orfeo, Filippo Dini, Sotterraneo… Anche se l’obiettivo, la prossima volta che rinasco, è essere Slava Polunin.

Quello da cui sento il bisogno di prendere le distanze è il teatro autoreferenziale, quello che si parla addosso o quello che ti lascia esattamente come ti ha trovato. Mi interessa un teatro che ci sposti, anche solo di un centimetro. Non necessariamente verso qualcosa di bello o risolto, ma verso qualcosa che ci aggiunge.

In un tempo in cui molte drammaturgie cercano di rispondere alla realtà, la sua sembra piuttosto porre domande senza risposta, lasciando lo spettatore in uno stato di sospensione. Qual è, secondo lei, la responsabilità politica del teatro oggi?

Credo che la responsabilità politica del teatro, oggi, non sia tanto “dire la verità” o “prendere posizione” in senso ideologico, quanto creare uno spazio reale dove le persone possano tornare a sentirsi parte di qualcosa. Il teatro ha un compito antico, ma ancora urgente: aiutarci a essere comunità. Farci stare insieme nello stesso luogo ad ascoltare una storia che, se funziona, tocca qualcosa che ci riguarda tutti. Non è poco. Mi interessa un teatro che ci sposti, anche solo di un centimetro. Non necessariamente verso qualcosa di bello o risolto, ma verso qualcosa che ci aggiunge.

Che tipo di relazione desidera instaurare con lo spettatore? Uno sguardo complice, un ascolto perturbato, una distanza critica?

Ultimamente dopo un po’ di repliche in posti piccoli dove potevo vedere ogni singolo spettatore in faccia per tutto il tempo (una tortura morbosa e allo stesso tempo estremamente educativa) ho capito che non esiste “uno” spettatore. Ogni sera è diversa. Lo spettacolo è lo stesso – passatemelo –  ma la reazione no, mai.  È una relazione completamente fuori dal tuo controllo, e forse è questo il bello.
Non cerco una reazione precisa. Mi interessa che qualcosa succeda, anche minimo. Un piccolo disallineamento, una vibrazione.  Ancora mi sorprende il fatto che qualcuno, nel buio, si lasci toccare da qualcosa che non avevamo nemmeno previsto.

Può raccontarci qualcosa del suo laboratorio di scrittura quotidiana? Esistono rituali, vincoli, ossessioni formali?

Non ho rituali o ossessioni formali particolari. Scrivo insieme ad altri, quasi sempre. Il confronto mi è necessario, forse perché il teatro non si fa da soli – o forse perché da sola  mi perdo. Fatto sta che l’occhio esterno mi serve: per capire se un’idea regge, se può andare avanti o ha bisogno di disfarsi. Non credo molto nella scrittura quotidiana solitaria. Il mio laboratorio è il dialogo, anche acceso, anche pieno di dubbi. Non cerco approvazione, cerco reazioni.

Ultimamente, studiando per un esame all’università, ho scoperto che anche tra i compositori c’erano enormi differenze di metodo. Haydn, per esempio, scriveva una sinfonia a settimana, tipo catena di montaggio del genio. Beethoven invece ne ha scritte nove in tutta la vita, e teneva gli spartiti sul comodino per anni. Io pure ho sempre più idee aperte contemporaneamente, che chiedono attenzione, che si contaminano, che fanno resistenza e poi magari, a un certo punto, si sbloccano.

Dopo “Quando i pesci ricorderanno, allora noi”, che domande sente ancora aperte nel suo percorso? Dove sta andando, ora, la sua ricerca?

Dopo Quando i pesci ricorderanno, allora noi, le domande non si sono chiuse, anzi. Forse il testo ha chiarito alcune urgenze – il bisogno di memoria, di comunità, di responsabilità condivisa – ma ha anche lasciato aperto un vuoto, uno spazio di interrogazione da cui ora sto ripartendo. Mi sto chiedendo, per esempio, come parlare dell’oggi senza divorarlo o essere divorati, senza ridurlo a commento. Come restituire la complessità del presente con forme che non siano solo cronaca, o solo astrazione. Quindi, sì, la mia ricerca sta andando avanti, ma più che altro sta continuando a fare domande perché risposte ne ho poche. Però si accettano suggerimenti.

Il titolo “Quando i pesci ricorderanno, allora noi” sembra evocare una soglia tra l’impossibile e il necessario. È una profezia, una speranza o un’illusione?

È una speranza, che si nega nella sua stessa contraddizione e di conseguenza diventa illusione.

Qual è la prima immagine della sua infanzia che oggi riconosce come “teatrale”, come se contenesse già una scena che ancora non sapeva di dover mettere in vita?

Io e mio padre in barca. Lui pesca e io, di nascosto, rigetto i pesci a mare.

Cosa significa per lei mettere in scena la dimenticanza? Come si rappresenta l’oblio senza trasformarlo in silenzio?

Significa lavorare su un tempo ciclico che si sovrappone ad un tempo lineare. L’oblio si presentifica, dopo vomiti di parole, nella sospensione di un accadimento.

L’acquario è una prigione trasparente. Che tipo di spazio teatrale ha immaginato per restituire questo paradosso?

Uno spazio angusto, tossico, sporco, che cerco di restituire attraverso le azioni reiterate degli attori, confidando  i personaggi in un angosciante loop, dal quale non possono uscire. La scala su cui salgono, ovvero il castello, aiuta ad evidenziare, attraverso un enorme sforzo fisico,  la possibilità di una fuga illusoria.

Ha pensato a questo spettacolo come a una favola, a una tragedia, a un esperimento percettivo?

Ho pensato a questo spettacolo come a un cartone animato, tutto è sopra le righe e l’azione è portata all’estremo. Un conto è vedere un cartone animato quando si è piccoli, un altro quando si è adulti. Mi interessa scaturire, attraverso la risata, un senso di inadeguatezza, un sentirsi fuori luogo.

Spesso il teatro nasce dal non sapere. Da quale domanda senza risposta ha preso forma questo spettacolo

Siamo in grado di parlare di memoria, quando siamo i primi a dimenticare?

Cosa significa per lei “ricordare” in scena? È un atto individuale, collettivo, oppure una forma di resistenza al tempo?

È sia un atto individuale, che collettivo. Il tempo non contrasta la memoria, anzi, credo aiuti a preservarla. Noi tendiamo a resistere, nella nostra eterna contraddizione umana, al tempo e di conseguenza rimuoviamo i ricordi, per non sentirne il peso.

In che modo il suo lavoro di regia si fa custode di qualcosa che rischia di perdersi? E che cosa cerca, attraverso la scena, di salvare?

Purtroppo e per fortuna il teatro è nell’accadimento e si fa custode dell’attimo, il resto sta a chi guarda. Il rischio della perdita è sempre molto alto.
Mia mamma mi ha sempre raccontato le favole e tutt’oggi ho il privilegio di ricordarle, lei mi ha lasciato una testimonianza non scritta. Credo che mettere in scena un testo sia un lavoro di testimonianza, nella speranza che possa lasciare un segno, anche se piccolo.

Che tipo di tempo ha cercato di generare in scena? Un tempo senza storia, un presente ripetuto, una soglia che sfugge?

Un tempo ciclico, dove il ripetersi della stessa storia, divide la scena in due piani, uno irremovibile e costante, l’altro distruttore e mortale.

Un gesto teatrale può contenere una verità più profonda di qualunque parola?

L’azione viene prima della parola. È nel gesto che trovi la verità, come nella vita.

Quando mette in scena una storia, sente di farlo per consolare, per inquietare, per far ricordare, o per aprire uno spazio nuovo?

Il tentativo è sempre quello di raccontare innanzitutto una storia che sia comprensibile per chi guarda. Lo faccio perché lo sento necessario.

C’è una forma di pensiero — una filosofia, una visione del mondo — che accompagna in modo sotterraneo il suo modo di fare teatro?

Homo homini lupus.

Qual è il confine, per lei, tra regia e cura? In che modo dirigere è anche prendersi cura dell’altro? Ha sentito il bisogno di proteggere emotivamente gli attori da questa materia o li ha spinti verso il limite della sparizione?

Una questione su cui credo non smetterò mai di interrogarmi. Non mi è sempre chiaro il confine, so solo che sto evolvendo, soprattutto in base alle energie che gravitano attorno a me. Ti prendi cura di tutta la macchina, devi essere lucido e avere un occhio generale sul tutto, senza dare per scontati i dettagli. In certe circostanze ho sentito il bisogno di proteggere emotivamente gli attori, non tanto dalla materia, quanto dalle emozioni che attraversano la persona stessa. Vederli uomini e non macchine sicuramente aiuta a cercare dialogo e a creare empatia.

La morte del terzo pesce è al centro di un gesto collettivo. Come hai guidato gli attori nel rendere questo atto senza moralismi?

Lasciando emergere quella parte animale che è in tutti noi. Siamo tutti potenziali predatori, in ognuno di noi c’è un lato oscuro. L’uomo, fortunatamente, ha la libertà di scegliere quale parte di sé far emergere. In teatro è sano e necessario conoscere quel lato, che si spera nella vita teniamo a bada.

In uno spettacolo dove tutto viene dimenticato, qual è il rischio più grande: perdere il senso o restare intrappolati nel significato?

Perdere il senso.

Segui Theatron 2.0

Pubblicità

Bandi  e opportunità

Ultimi articoli