La Tenda di Achille, il teatro-carcere di Adriana Follieri riscrive il mito

Dic 22, 2023

Debutta ad Arienzo, in provincia di Caserta, La Tenda di Achille, diretto da Adriana Follieri, co-fondatrice, insieme a Davide Scognamiglio, dell’associazione Manovalanza, contenitore di eventi e progetti artistici connotati da multidisciplinarietà e impegno sociale.

Uno spettacolo, La Tenda di Achille, pensato per i detenuti minorenni, che ruota intorno al concetto di nemico e lo rielabora in un luogo, la tenda, appunto, dove la narrazione decide di fermarsi piuttosto che procedere secondo il testo già scritto e di non adirarsi, di non cedere al desiderio di vendetta, per aprire nuove possibilità. 

Una prima fase di ricerca teatrale si era aperta nel 2022, all’interno dell’Istituto penitenziario minorile di Airola, in provincia di Benevento, con il lavoro di attori detenuti ed ex detenuti che al Campania Teatro Festival avevano portato in scena nel giugno scorso, lo spettacolo Disadirare-Un’altra Iliade.

Ad Arienzo ha debuttato una nuova importante fase di questa esperienza di teatro carcere, dove il Site-specific La Tenda di Achille\primo studio ospitato all’interno del Festival Dialoghi di Libertà, lascerà spazio all’incontro con il pubblico che dialogherà con le ospiti,partner del progetto e la direzione artistica del festival, focalizzando l’attenzione sul tema Dialoghi di libertà e ponti: Prospettive Oltremura di Nuovo Teatro Integrato. Conversazione tra comunità artistiche e cittadinanza per un dialogo virtuoso tra città e carcere attraverso processi d’arte partecipata.

Come è nato questo progetto e quali sono state le fasi principali della ricerca artistica che si è sviluppata in contesti carcerari e multiculturali e minorili?

L’associazione Manovalanza, di cui io e il fotografo e disegnatore di luci Davide Scognamiglio siamo fondatori, è nata nel 2009 a Cava dei Tirreni, come evoluzione naturale dell’esperienza maturata l’anno prima a Volterra con la Compagnia della Fortezza di Armando Punzo. Si trattava di un corso di alta formazione che ha rappresentato un momento di passaggio molto forte.

Vedendo quanto la realtà carceraria aderisse così profondamente al richiamo dell’esperienza teatrale, quanto si fosse andata strutturando una vera e propria comunità in cui entravano in gioco competenze e sguardi diversi in completa sinergia, nel viaggio di ritorno da Volterra a Napoli, mi sono detta che se era stato possibile trasportare in un luogo così angusto un’esperienza così trascinante, allora dovevamo provarci anche noi. Così, io e Davide abbiamo dato vita all’associazione, nata come contenitore di eventi e capace di declinarsi fin da subito sul versante del teatro sociale e dell’impegno civile.
Il nome, Manovalanza, richiama la materia, il fare artigianale dell’arte, il lavoro e, perché no? la valanza, che in napoletano significa la bilancia, quindi un desiderio di equilibrio e di giustizia.

Se dal punto di vista artistico e tecnico, il nostro lavoro si è sviluppato principalmente alternando lavori di natura teatrale a quelli di natura visivo-fotografica, nel corso degli anni abbiamo portato avanti esperienze che si sono sviluppate attraverso tre diversi tipi di progetti: quelli con cittadini stranieri, in particolare con i minori della compagnia Tutto il mondo è paese; con i detenuti nelle carceri, in particolare quelle minorili della Campania e quelli con i cittadini.

Tutte queste progettualità hanno la mia regia ma vivono anche di vita propria. Tra i lavori più conosciuti di Manovalanza, che è anche compagnia, lo spettacolo Pater, liberamente tratto dal saggio di Simone Weil, Attesa di Dio, scritto nel 1941-42, di cui Scognamiglio ha firmato il disegno luci e la fotografia.

Come è nata l’idea di questo spettacolo, La Tenda di Achille\Primo studio e perché la scelta della tenda come parabola del luogo della non violenza?

Si tratta di un lavoro iniziato intorno all’Iliade di Omero nel 2022 con la compagnia teatrale di attrici e attori detenuti ed ex detenuti dell’Istituto penitenziario minorile di Airola e confluito nello spettacolo Disadirare-Un’altra Iliade in scena al Campania Teatro Festival nel 2023 al Teatro Trianon e diretto da Ruggero Cappuccio. Abbiamo ragionato insieme ai detenuti adolescenti sul tema dell’ira di Achille e sulla possibilità di rappresentare il nemico come la propria ombra, tant’è che sul palco c’era solo l’esercito acheo. 

Una volta riconosciuta la propria ombra, allora si può iniziare a riflettere se davvero valga la pena entrare nel conflitto, seguire l’oracolo, far avverare le profezie, muoversi secondo i capricci degli dei o se invece, rinunciando all’ira si possano aprire altri spazi. La tenda è proprio questo spazio, un luogo ristretto, anche precario, che apre il tempo della riflessione. Ci interessava imparare a costruire una narrazione che fuoriuscisse dal percorso stabilito.

La tenda diventa allora il luogo dello “sciopero pensante” in cui Achille decide di non volersi sprecare su un racconto già scritto. Una libertà di azione che il suo amico smanioso Patroclo, ad esempio, fatica a riconoscere. Ma alla fine ciascuno dei personaggi decide di abbandonare l’armatura, che in scena è rappresentata da un ex voto posata sulla parte del corpo che si percepisce come la più forte. 
Questo è il dis-adirarsi, l’abbandono dell’ira come modalità ormai desueta di fronte all’ombra che ci appartiene, che riconosciamo come nostra e contro la quale sarebbe grottesco combattere.

L’attualità della tragedia greca nel contesto carcerario minorile secondo te qual’è? Cosa può insegnare ai giovani detenuti?

Si deve trovare un punto da cui partire tutti insieme, attori, adulti e ragazzi di diverse nazionalità e culture e la tragedia greca, con le sue vicende, i personaggi, i temi dell’orgoglio, dell’ira e dell’amicizia che sono universali, lo è. Sono temi che si ritrovano anche nel film ispirato al libro di Saviano, Gomorra e che ha altrettanta autenticità e onestà. 
Noi tuttavia preferiamo la tragedia greca, perché ci permette di oltrepassare gli stereotipi ancora molto forti sui detenuti minorenni del sud legati ad esempio all’uso esclusivo del dialetto. Fin da subito, invece, noi abbiamo posto la questione della lingua. 

Anche in questo caso abbiamo pensato di non limitarci a seguire il percorso già tracciato e così facendo abbiamo visto che il gioco di possibilità che offre il teatro è davvero immensa. Il pubblico stesso alla fine apprezza le qualità degli attori al di fuori dallo stereotipo, senza distinguere tra loro chi vive recluso e chi viene dall’esterno, così si riesce a travalicare l’etichetta.

Attraverso il testo della tragedia greca, inoltre, si affrontano i temi come il lavoro, la guerra, i confini, la distruzione, le donne trattate e spostate da un luogo all’altro come merci. 
Tutto questo è ancora molto attuale. Agire questi temi in scena e trasporli sul piano drammaturgico è già un passo in avanti per costruire “le tende” intese come spazi di riflessione e di non violenza, perché è un lavoro collettivo. Io pongo delle domande come regista ma la riflessione viene agita sulla scena ed è già una scelta politica.

Nel teatro-carcere, dalla drammaturgia nasce l’esperienza formativa o viceversa?

Direi che è dalla drammaturgia che nasce l’esperienza formativa. Scenicamente arrivano delle risposte, poi, alla fine del lavoro emergono riflessioni che hanno valenze educative e formative, domande sul chi siamo e dove stiamo andando.

Il tuo è un teatro che valorizza molto il meticciato e la contaminazione iconografica e linguistica?

Assolutamente sì. Devo molto a Peter Brook che era maestro in questo. Achille è un ragazzo cinese che suona il guzheng, una sorta di arpa, mentre Patroclo è un ragazzo bulgaro. 
La calma dell’uno si contrappone alla smaniosità dell’altro, in una danza ibrida a metà tra tai-chi e ballo bulgaro, una sorta di riscrittura iconografica della tragedia greca che sostituisce con abiti contemporanei quelli dei greci, le armature con ex voto indossati come gioielli che alla fine vengono tolti e lasciati cadere per terra.

La finalità del progetto  è quella di creare un ponte tra la comunità del carcere e la città. Quali sono secondo voi, i suoi punti di forza e le criticità che ancora si devono affrontare?

Il teatro-carcere in Campania è molto sentito e seguito, ma c’è una questione sulla quale stiamo combattendo da tempo ed è il passaggio dalla vita carceraria, dove si stanno portando avanti da anni molti progetti di inclusione anche attraverso il teatro, alla vita fuori dal carcere, che rimane per la maggior parte dei reclusi un’incognita, se non un ritorno alla vita di prima.
Il sistema carcerario attuale non colma questo vuoto e con questo progetto, partito con Disadirare e proseguito con La Tenda di Achille\Primo studio, nell’ambito del Festival ci stiamo adoperando perché si promuovano progetti di accompagnamento dei detenuti anche una volta fuori. 

Per questo lo spettacolo è allestito all’esterno del penitenziario. Per poter venire a fare le prove i detenuti devono farsi rilasciare un permesso di entrata e uscita. Proseguendo con queste progettualità si potrà formare una compagnia di detenuti, ex detenuti e professionisti. Altrimenti il lavoro di anni rischia di andare smarrito.

Un vostro sguardo sulle politiche carcerarie dedicate al recupero e all’integrazione. Come stanno evolvendo? C’è sufficiente sensibilizzazione da parte delle istituzioni e della cittadinanza?

Se si guarda ai report dell’Associazione Antigone, emerge che le carceri sono in sovrannumero e questo penalizza la maggior parte dei progetti di recupero e integrazione attraverso il teatro: quelli come il nostro sono realizzabili solo in contesti piccoli. 
Riguardo al rapporto con le istituzioni, noi abbiamo avuto, con il progetto ad Airola, un ottimo riscontro da parte del personale dell’istituto penitenziario e una grande disponibilità di ascolto, per cui non si può generalizzare, sono sempre le persone a fare la differenza. Ad Arienzo che è un piccolo paese, stiamo a vedere come andrà.

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