“Date parole al vostro dolore: il dolore che non parla bisbiglia al cuore sovraccarico e gli ordina di spezzarsi”
Macbeth, atto IV, scena III
William Shakespeare, nel XVI secolo, aveva già realizzato che non solo le idee o i bisogni, ma anche le emozioni hanno bisogno delle parole. Oggi sappiamo che un deficit nel controllo emozionale può provocare disturbi che sfociano in malattie psicosomatiche. Da secoli si è discusso sul rapporto mente-corpo, ma è da relativamente poco tempo che la comunità scientifica ha attribuito l’effetto concreto, sul sistema immunitario, di pensieri ed emozioni. Le parole sono un veicolo, dunque, ecco a cosa servono. Non sono oggetti irreali ed effimeri; possono condizionare, salvare o meno la nostra vita.
Del peso specifico e dell’importanza delle parole, ne sa qualcosa il Teatro, nel corso della sua pratica millenaria. Esse prendono forma nel ritmo e nel tempo ricoprendo così un importante ruolo di rilevanza nei linguaggi della comunicazione teatrale. Danno senso e significato al corpo, alle forme visive, al suono e al movimento. Al lavoro intellettuale degli autori che creano la drammaturgia, all’opera successiva dei registi che la trasformano in contesti di realtà, all’azione degli attori che fanno uso dei loro preziosi e concreti strumenti espressivi.
Ne sa qualcosa Henrik Ibsen, il drammaturgo norvegese che nel 1884 scrisse L’anitra selvatica: meglio vivere nella condizione di bugia della vita (lebenslüge) o in una dove la verità può fare giustizia finanche in modo estremo? Quello dell’opera in cinque atti di Ibsen è un aspro e difficoltoso percorso psicologico che, tuttavia, offre diverse, coinvolgenti interpretazioni e chiavi di lettura della vita famigliare, anche contemporanea, con tutti i suoi pesi, i conflitti repressi e gli impensabili rovesci della medaglia che non possono che condurre alla rovina.
L’anitra selvatica è uno dei testi di Ibsen più rappresentati a livello europeo, con allestimenti tradizionali o letteralmente stravolti. Hjalmar Edkal è sposato con Gina e hanno una figlia, quasi quattordicenne, Edvige. Hedvig, in norvegese. Con loro, in casa, vive il padre di Hjalmar, un ex cacciatore che ha trasformato il soffitto di casa in bosco, con vari animali a cui, ogni tanto, lui si diverte a cacciare. Tra questi, un’anitra selvatica, che gli ha fornito il suo vecchio compagno e socio in affari, Werle, e che è il simbolo della libertà (perduta), delle privazioni, dell’illusione che regola l’esistenza, al punto che una frenetica ricerca della verità assoluta potrebbe comportare delle conseguenze fatali che è meglio evitare scegliendo di vivere nell’inganno dei sensi e della mente, nella “menzogna vitale”.
Hjalmar vive una grande dissimulazione; egli è amleticamente infelice nonostante venga accudito dalla moglie, idolatrato dalla figlia Hedvig e idealizzato dal compagno di scuola, Gregers Werle. Hedvig, invece, rappresenta la vitù e la verità, disposta com’è a sacrificarsi per il padre. Questa giovane donna che concede tutta sé stessa nel conflitto fra gli adulti, fino all’estremo, fino al suicidio, è l’unico personaggio del dramma che Ibsen sembra considerare e tratteggiare con benevolenza. La sua morte, però, non riesce a scardinare la ristagnante e quotidiana inettidudine dei protagonisti. In una battuta significativa viene affermato che “Se togli la menzogna vitale a una persona media, le togli, allo stesso momento, la felicità”.
Del conflitto tra finzione e verità, del potere taumaturgico della parola, dal greco thauma, meraviglia, stupore e ergon opera, azione, ne sa molto anche Federica Santoro che, con il contributo e la drammaturgia sonora di Luca Tilli, di recente ha messo in scena Hedvig, al teatro India di Roma.
Un testo e un allestimento ispirati a L’anitra selvatica di Ibsen dove l’attenzione si concentra in modo particolare sui momenti che precedono e sfociano nel suicidio della protagonista del dramma ibseniano. Entrambi gli artisti condividono dal 2009 un percorso di ricerca incentrato sul rapporto stretto tra suono, voce, parole, azione e letteratura. Santoro mette a fuoco i mutamenti, il disagio, la decadenza e la crisi circa la relazione, il confronto tra il linguaggio da un lato e la verità, la realtà dall’altro.
Il filosofo siceliota Gorgia, scrive nell’Encomio di Elena:
“La parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti sia a calmare la paura, sia ad eliminare il dolore, sia a suscitare gioia, sia ad aumentare la pietà”.
La parola ha, ha sempre avuto e avrà un ruolo fondamentale, dai tempi dei sofisti e della culla della Democrazia, Atene, fino al tempo presente, alla società digitale e nonostante sia diventato molto complesso il suo ruolo.
La regista e performer Federica Santoro, mediante la sua lunga e intensa ricerca teatrale antinarrativa, sembra intensificare la complessità, la concretezza, il potere psicagogico e persuasivo della parola estirpando, come radici dalla terra, le parole del testo drammaturgico. Questa operazione consente il duplice effetto di amplificare e detonare gli effetti di quelle battute, di creare possibilità restituendo vecchi e nuovi significati, pur non avendo, ma solo in apparenza, l’urgenza di una ricaduta sulla cronaca del presente.
Viviamo in una società che è stata definita liquida, dove i valori tradizionali sono stati messi in discussione e in crisi e altri se ne stanno determinando. Questa situazione ha determinato delle ricadute sul piano linguistico ed espressivo in quanto la lingua è lo strumento attraverso il quale esprimiamo i nostri pensieri, le nostre molteplici e complesse visioni della realtà e, di conseguenza, il linguaggio riflette questa rivoluzione. Una realtà incerta genera un pensiero ambiguo che partorisce, a sua volta, un linguaggio confuso. Le parole, come i valori, perdono il loro significato originario e, contemporaneamente, emergono altri e nuovi significati.
La connessione tra linguaggio e realtà rappresenta una sfida stimolante e ricca di opportunità, nel campo dell’arte, del teatro, della vita in generale. Federica Santoro e Luca Tilli, infatti, mescolano e amalgamano tra di loro diversi codici musicali, gestuali, verbali e visivi. Hedvig rappresenta questo sforzo, questa complessità, manifestandosi come un lavoro di forte respiro e di grande ascolto. Porta con sé il cambio di un’epoca e la fine delle ideologie, i rapporti tra le persone e i generi, il contrasto tra giovani e adulti, tra poveri e ricchi, tra la fragilità e la violenza, la crudeltà dell’animo umano. Tra la luce e l’ombra si staglia un sentimento di grazia, una condizione di chiaroscuro che il quadro presente in scena mette in evidenza ritraendo una persona che sembra essere l’unica a poter vedere qualcosa, poiché è raffigurata di spalle e, contemporaneamente, viene immortalata nello stato di non poter rivelare alcunché. L’opera è del pittore Ettore Frani e appartiene al ciclo de “I Sommersi”.
Non c’è nulla di più concreto del legame tra la parola e la gioia, il dolore, la paura nello spazio bianco, come la tela di un pittore, che è la vita. E niente altro è più destabilizzante, rivoluzionario, effimero ed ultramoderno del teatro, lo spazio per antonomasia dove si realizza questo scontro, l’incontro tra generazioni e identità diverse, nel momento stesso in cui viene compiuto il sacrificio estremo.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.