Partendo dal dato biografico, Yaser Mohamed, drammaturgo e regista de I Mohamed, propone un intimo racconto sull’incomunicabilità familiare, tema, questo, che immediatamente finisce per spostare l’asse della riflessione su un piano universale.
Lo spettacolo, finalista del Premio PimOff per il teatro contemporaneo, tenta di restituire, mediante l’azione scenica, la “scomodità emotiva” di una condizione esistenziale diffusa, ampliando il campo di indagine alla più ampia questione della comunicazione e della struttura delle relazioni nella società contemporanea.
Attraverso un linguaggio volto a favorire l’incomprensibilità, che porta traccia delle esperienze del teatro dell’assurdo, Yaser Mohamed porta in scena l’esito di un processo creativo condotto in sinergia con Sabrina Biagioli, assistente alla regia e consulente drammaturgica di questo lavoro, e con gli attori che compongono il loro gruppo informale.
Ne abbiamo parlato con Yaser Mohamed e Sabrina Biagioli.
Qual è il vostro percorso artistico artistico e professionale, come vi siete incontrati, qual è il tipo di ricerca che conducete in generale, anche al di fuori di questo lavoro?
Yaser Mohamed: Dopo la mia formazione, sono entrato a far parte del mondo professionale, lavorando per lo più come attore scritturato. Ho sempre avuto velleità di scrittura che non sono mai sfociate in qualcosa di concreto, fino a quando Sabrina mi ha quasi obbligato a cimentarmi in qualcosa di diverso. Complice un periodo complicato della mia vita, ho iniziato a scrivere questo testo quasi più per sfogo intellettuale che per finalità spettacolari. Nel testo ho riportato molte cose della mia vita, della mia famiglia ma il lavoro drammaturgico ha goduto della supervisione di Sabrina che oltre a essere una regista è anche una scrittrice.
Sabrina Biagioli: La mia ricerca si è svolta principalmente in compagnia, con l’idea del teatro come gruppo di lavoro. Siamo una compagnia informale, composta da persone con background professionali molto diversi, e questa eterogeneità è la nostra forza, poiché ci suggerisce molte vie attraverso cui possiamo sviluppare diversi modi di raccontare. Credo che Yaser abbia scritto questo testo per un’esigenza personale oltre che artistica. Sono convinta che chi decide di fare questo mestiere non può non venire a patti con se stesso. Questa storia andava raccontata e noi cerchiamo di farlo tramite tutte le nostre voci. Si tratta di un lavoro scritto e diretto da Yaser ma il gruppo ha avuto un ruolo fondamentale e la narrazione è diventata corale. Essendo un lavoro ispirato alla vera famiglia di Yaser, la nostra conoscenza pregressa è stato un punto a favore per individuare la giusta sensibilità con cui affrontare un racconto così intimo.
Con I Mohamed, siete partiti dal dato autobiografico per affrontare l’incomunicabilità familiare, problematica relazionale diffusa che sposta subito l’individualità del racconto su un piano universale. Perché la scelta di questo tema?
Y.M: Si tratta di un argomento molto presente nell’arco della mia vita. Ho come cartina tornasole la mia famiglia che, in un certo senso, è molto atipica: i valori che vanno dagli affetti all’esternazione delle emozioni non sono mai chiari e delineati. Mi sono reso conto di aver riportato questa struttura in tutte le altre relazioni, e vi ho rivisto la tendenza della nostra società a comunicare in maniera sempre meno profonda e intima, nonostante la comunicazione sia uno dei mezzi principali della contemporaneità.
S.B: Dopo aver letto il testo, l’ho definito una “commedia assurda”, nel senso teatrale del termine. L’assunto iniziale è un figlio che torna a casa e deve dire ai genitori una cosa che ha scoperto. Durante lo spettacolo, questo figlio parla in continuazione di tutto fuorché di ciò che deve dire, facendo un lungo monologo composto da parole attaccate l’una all’altra. In questo senso, è un po’ ciò che accade nella comunicazione di oggi, quella dei social ad esempio, dove c’è sempre più gente che parla ma spesso senza dire niente. Ciò riprende l’idea dell’assurdo teatrale, dove non si fa altro che parlare, riempiendo il tempo, lo spazio ma senza comunicare davvero. Anche gli altri due protagonisti sono investiti da questa modalità di narrazione: durante lo spettacolo, il padre fa questo lunghissimo grammelot, in cui sentiamo l’attore parlare una lingua che non esiste.
Nelle note di regia di I Mohamed parlate di un linguaggio assurdo, di una comunicazione gestuale e visiva non convenzionale. Secondo quale metodo compositivo avete individuato il linguaggio più adatto? Il vostro è un processo creativo collettivo?
S.B: L’idea di questo modo di comunicare viene dal bisogno di Yaser di trasmettere l’incomunicabilità della sua famiglia e del mondo. Nel momento in cui abbiamo affidato agli attori la storia, gli abbiamo chiesto di rendere il non detto di questo spettacolo. Loro ci hanno dato molte idee interessanti e sono stati fondamentali, nel senso che siamo riusciti poi a identificare alcuni momenti importanti anche attraverso il linguaggio del corpo, proprio perché la comunicazione passa prima che per mezzo delle parole, per il nostro stare al mondo. Alla base c’è l’idea espressionista di portare tutto fuori, ci abbiamo giocato molto nello spettacolo che ha immagini forti in cui ci sono esseri umani che dicono una cosa per farne intendere un’altra. Tale diversità di comunicazione crea anche la confusione di cui il mondo è pieno. La nostra ricerca si è rivolta anche al modo di tradurre con il corpo il tema su cui stiamo lavorando. Mi piacerebbe che il pubblico che fruisce questa storia vi si possa riconoscere.
Y.M: A livello di gestazione, ho pensato al disagio che provo nella mia famiglia ma anche in certe dimensioni sociali, con l’obiettivo di portare la stessa scomodità a chi fruisce dello spettacolo. Per questo sono state fatte delle scelte anche visive, come nel caso della scenografia, che avessero una valenza simbolica e rimandassero a una sorta di “scomodità emotiva”. Con gli attori insisto molto sul concetto di “pausa snervante”, mi piace che ci siano momenti di silenzio, di vuoto, che inducono il pubblico a chiedersi cosa stia accadendo, proprio per trasmettere e tradurre scenicamente questa postura emotiva.
I Mohamed si trova ancora in una fase di creazione. Verso quale direzione immaginate che potrebbe tendere il lavoro avendo, a disposizione momenti di indagine e perfezionamento come le residenze offerte dal Premio PimOff?
Y.M: Quella offerta da PimOff è una grande opportunità, vista la scarsità delle risorse che spesso incide sui processi creativi. Non avendo una produzione, facciamo tutto in maniera indipendente e avere l’occasione di usufruire di un tempo di residenza sarebbe una manna dal cielo. Potersi concentrare, sapendo di non avere particolari pressioni sulle spalle ma anzi far parte di una cosa bella e stimolante come il Premio, ci porterebbe a lavorare meglio e in maniera più calma.
S.B: Sento che in PimOff si pensa al teatro come lo penso io. Una storia da narrare ha bisogno di una ricerca e l’idea di concepire il teatro con i tempi per questa ricerca è, a mio avviso, molto giusta. Questo è ciò di cui abbiamo bisogno e come noi molte altre compagnie.
Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.