Articolo a cura di Sara Raia
Il sipario si apre sulla scena illuminata da una luce calda, mentre un’atmosfera contemplativa si addensa intorno a quattro corpi che si preparano, pian piano, al proprio exploit. Rua da saudade di Adriano Bolognino riflette sull’intraducibilità di questa parola portoghese e indaga l’estrema difficoltà di guardarsi dentro. Sebbene in italiano “saudade” sia spesso resa con “nostalgia”, questa traduzione è riduttiva. Comunque, che si tratti di nostalgia o malinconia, di rimpianto o di ricerca di ciò che, pur se assente, appare ancorato al presente, la performance prende le mosse dalla volontà di rappresentare con una visione uno stato d’animo incomparabile.
A esibirsi nel Teatro Nuovo di Napoli è un ensemble di quattro danzatrici: Rosaria Di Maro, Noemi Caricchia, Roberta Fanzini e Cristina Roggerini. Ognuna di loro ha un’acconciatura differente e un morbido tailleur di colore diverso — rosso, giallo, verde e blu — a sottolineare l’individualità che non si annulla nell’insieme. La profonda autonomia emotiva si concretizza grazie nella consueta partitura ritmica del coreografo, che mette in scena performer in grado di armonizzarsi con la musica e riempire i silenzi con i passi.
Per questo spettacolo Adriano Bolognino si ispira alla teoria dell’eteronimia di Fernando Pessoa, uno degli scrittori più complessi del ventesimo secolo. Gli eteronimi sono le diverse personalità letterarie assunte dallo scrittore nel corso della sua vita e le quattro danzatrici di Rua da saudade rappresentano ciascuna una di queste identità da lui create. L’idea della frammentazione delle personalità letteraria dà vita, nell’universo di Adriano Bolognino, a questa creazione coreografica dinamica e in costante evoluzione che sa stupire attraverso sfumature di colori e una corretta alternanza di musiche e silenzi. Al debutto dello spettacolo nel settembre del 2022 al Torino Danza Festival, ad esempio, le performer indossavano tailleur a manica lunga e una di loro vestiva un colore diverso rispetto a quello adottato in seguito.

Il battito delle mani sul corpo, perpetuo, permette l’instaurazione di un vero e proprio dialogo danzato che scuote lo spettatore. I colpi dei pugni chiusi, stretti, sono un leitmotiv che non s’arresta con le note: incessanti, raccontano un’autobiografia non scritta. I corpi vibrano come corde di violino, le braccia tagliano l’aria e i virtuosismi tecnici rendono la performance completa. La muscolatura delle danzatrici non cede in nessun momento e permette al pubblico di osservare figure in costante tensione, fisica ed emotiva. Si alternano sequenze in cui un solo corpo è in riflessione con sé stesso mentre attorno continua la danza. Da quell’apparente immobilità lo spettatore è rapito, sentendosi forse parte di quelle scosse, di quegli scatti veloci che precedono importanti respiri, i quali non solo segnano il ritmo, ma liberano il corpo, guidandolo verso nuove transizioni. Salti leggeri, impeccabili articolazioni di braccia e gambe, incastri coordinati alla perfezione sono parte di un’operazione complessa che tende verso un obiettivo: dare ordine al turbine esistenziale attraverso la consapevolezza che forse questa armonia è solo illusoria.
Rua da saudade di Adriano Bolognino rompe l’atmosfera creando uno squarcio che forse non è necessario sanare: apre spiragli di riflessione in cui il movimento entra e rientra senza interruzione. L’intento è proprio questo: dare vita ad un’irripetibile danza che si fa esperienza attorno all’io. La performance conduce ciascuno a riflettere sulla propria saudade mentre osserva quella dell’altro. La scelta di esplorare l’intraducibilità della parola e il suo legame con l’emotività e il corpo rende la performance un’esperienza profonda di riflessione esistenziale. La danza diventa un atto di resistenza e di rivelazione che racconta una silente lotta interiore e un desiderio che non può essere colmato.

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