Ingredienti non violenti per la fame e la salvezza. La ricetta di Danilo di Barbe à Papa

Feb 19, 2024

Avevamo salutato Barbe à Papa Teatro quasi un anno fa, mentre affinavano L’arte della resistenza nell’intrico di comuni problemi generazionali; li abbiamo ritrovati – sempre ai Cantieri culturali della Zisa di Palermo, l’11 febbraio scorso – con La ricetta di Danilo, un’altra storia di resistenza esemplare, tratta stavolta dal passato,  sul “Gandhi della Sicilia” Danilo Dolci: poeta e intellettuale-attivista, ai più sconosciuto, e modello di lotta nonviolenta che a partire dagli anni Cinquanta risollevò le sorti degli abitanti del comune di Trappeto e, in un’aura virtuosa che da lì andava diffondendosi, anche di altri luoghi dell’isola abbandonati da Stato e istituzioni. 

La storia di Danilo Dolci – particolarmente cara alla compagnia che, insieme all’associazione Partinico Solidale, opera ormai da anni sul territorio con progetti di risanamento culturale – è narrata stavolta, con la regia di Claudio Zappalà, attraverso le parole di un unico attore, Totò Galati, che accoglie informalmente il pubblico nella sala con mattoni a vista dello Spazio Marceau. Un bicchiere di vino, un assaggio di pane con l’olio di casa e qualche dolce di Carnevale riempiono l’attesa dell’inizio dello spettacolo, che si immette fluidamente nel discorso senza il confine materiale di un palco o di un sipario, e nemmeno di quello immateriale di luci o parole.

Partendo da argomenti apparentemente lontani – come il richiamo all’aneddoto della moltiplicazione dei pani e dei pesci, o alla pesca della neonata che impoverisce il mare, e ancora alla disquisizione su ricette tipiche a base di sarde – si inserisce, senza quasi accorgersene, il racconto sulla vita di Danilo Dolci, attraverso un monologo che ripercorre i tratti salienti di un’esperienza così straordinaria da risultare incredibile. Galati entra in punta di piedi ed esce dal personaggio, vi si accosta con modestia senza incarnarlo del tutto, interpreta la miseria e la disperazione degli uomini facendosi alternativamente attore e narratore; e mentre prepara delle polpette su un tavolo da cucina che fa da elemento scenografico, le domande che sembra rivolgere ironicamente a ogni piccola creazione che modella tra le mani, o più realisticamente a un gruppo di persone che lo stanno ad ascoltare, richiamano alla mente le stesse del loro precedente spettacolo: come vedi il tuo futuro? Cosa ti rende felice? E cosa ti fa paura? Il contesto narrativo, però, stavolta, è totalmente diverso, perché sono alcuni degli interrogativi che Danilo Dolci poneva alla gente reietta che aveva deciso di salvare, attraverso una maieutica che costituiva il fondamento del suo metodo d’azione. 

Nato a Sesana, nell’allora provincia di Trieste, Dolci aveva avuto la possibilità di entrare in contatto con realtà differenti ma estremamente formative sul piano valoriale; già avverso alla dittatura e dunque arrestato per un breve periodo, fu decisivo per lui l’incontro con Don Zeno Saltini e l’adesione alla comunità Nomadelfia di Fossoli, in provincia di Carpi, dalla quale in seguito si staccò per trasferire la sua attività a Trappeto, un piccolo paese in provincia di Palermo di cui aveva potuto vedere da vicino le condizioni miserevoli per via di un breve trasferimento familiare. Egli fonda qui il suo operato perseguendo lo stesso fine solidale di Nomadelfia, ovvero quello di accogliere e aiutare i bisognosi, ma abbandonando l’impianto cattolico che la caratterizzava; Danilo, infatti, arriva a Trappeto da uomo laico, non intellettuale o poeta, ma quale encomiabile essere umano animato da valori a tal punto nobili da suscitare l’iniziale, e forse comprensibile, diffidenza nella popolazione del luogo. 

Totò Galati mette in scena il suo vissuto con un’ammirazione così reale e sentita da andare oltre il racconto che lui stesso ha scritto, creando un immediato coinvolgimento emotivo con gli spettatori; e con la stessa concitazione nell’agire di Dolci, parla del suo potere quasi sovrannaturale di farsi carico di tutti i problemi di questi abitanti poverissimi, che non avevano nemmeno una rete fognaria e i gabinetti, in un paese ridotto a palude, a volte senza cibo, men che meno con la possibilità di avere un’istruzione che desse loro la speranza di una salvezza. Galati delinea la figura di Danilo anche attraverso un’immagine, probabilmente rievocata da una sua fotografia, in cui l’uomo dal maglioncino bianco (verrà ripetuto altre volte, per sottolinearne la sua apparenza pulita e quasi aliena) spicca nel fango tra bambini vestiti di nero. Sono proprio questi ultimi, non ancora intaccati dal pregiudizio, i primi a prenderlo in simpatia, iniziando a chiamarlo confidenzialmente “zio” e a salutarlo con un “ciao”, alla stessa maniera, inusuale per quei tempi e luoghi, in cui lo faceva lui. In una progressiva presa di fiducia, gli abitanti di Trappeto (e di altre zone vicine, come Partinico) decidono di farsi salvatori di loro stessi e di aiutarlo (e aiutarsi) nel risanamento di un territorio che pian piano – con fatica e lotte pacifiche – comincia miracolosamente a rinascere; si rimboccano infatti le maniche e costruiscono strade, edifici, chiedendo a gran voce – ma senza letteralmente alzarla davvero – il riconoscimento del loro diritto a vivere e dunque ad avere condizioni igieniche dignitose, a istruirsi, ma prima di tutto a soddisfare un bisogno imprescindibile per qualsiasi essere vivente: quello di poter  mangiare.

A questo punto, lo spettacolo, che si era sviluppato finora in un lento crescendo affidato prevalentemente al racconto, fa alcuni balzi di intensità, e i momenti di maggior pathos vengono accompagnati dall’intervento di altri due linguaggi sensoriali: la luce, che a volte cala fino a divenire penombra, e la musica tribale di un lungo flauto e di un tamburo composta e suonata dal vivo da Nathan Tagliavini.

La mancanza di cibo, la morte, la disperazione – vissute con un orgoglio che viene sempre sottolineato – chiedono adesso misure più forti: è il 1956, a quattro anni dal proprio arrivo in Sicilia, quando Danilo esorta i siciliani a non patire più la fame nel chiuso delle loro abitazioni, nascosti agli occhi dello Stato, ma ad attirare l’attenzione pubblica con l’arma silenziosa del digiuno volontario: se morirà il primo, cioè Danilo, toccherà a un altro, e poi a un altro ancora, fino a che non verranno ascoltati. 

Appare lampante, allora, il messaggio di denuncia che la compagnia vuole lanciare, attuale oggi come allora, verso tutte le realtà di povertà e degrado che non vengono viste dallo Stato perché motivo di colpa e vergogna, o perché semplicemente non conviene; nonché quello di non stare con le mani in mano patendo la propria condizione, e invece di farsi guidare dall’esempio apparentemente utopico, ma in verità possibile, di Danilo Dolci. Questa salvifica spinta dal basso è di certo così avvertita perché già praticata in altre forme con il teatro e le attività a esso collaterali, ed è un monito che si estende anche al rapporto tra uomo e natura, in questo caso soprattutto con il mare.

Ecco, dunque, che si collegano i fili con l’iniziale richiamo biblico allo sfamarsi insieme provando a condividere ciò che si ha; con le informazioni quasi documentaristiche sulla pesca delle larve di sardine – la cosiddetta nunnata (neonata) – che depaupera senza rispetto il mare; e infine con le stesse sarde, forse l’esempio migliore nel mondo animale del vivere vantaggiosamente in comunità. Il muoversi in banchi per sopravvivere e avere così la meglio sul nemico ricordano infatti da vicino le stesse modalità riproposte da Dolci: aiutarsi l’un l’altro in modo compatto per un bene superiore che rappresenterà poi la salvezza di ciascuno.  

Sapete da cosa deriva la parola “gruppo”? – chiede al pubblico Totò, sul finire dello spettacolo. Deriva dal germanico “kruppa”, che a sua volta ricorda da vicino la parola “ruppa”, cioè “i nodi”, in un dialetto siciliano che è ricorso frequentemente durante l’ora di rappresentazione; e tanti nodi è vero che legano e limitano, ma creano anche un’inscindibile forza: quella di una rete. La stessa che i poveri pescatori di Trappeto, sopra cui si posa una carezza compassionevole, dovevano rendere sempre più fitta per colpa dei grandi pescherecci che si avvicinavano troppo alla costa facendo sì che il mare non potesse più sfamarli; e la stessa che invece si allarga e libera i pesci, permettendo il passaggio dei più piccoli.

Ecco, le polpette di pane sono pronte – sollevate dalla rete metallica di un arnese da cucina proprio come dal mare si tira su il pescato – e secondo la “ricetta di Danilo”: senza neanche una sarda dentro, solo ingredienti non violenti e tanti grammi di coraggio.

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