La danza contemporanea italiana si è sempre caratterizzata per una spiccata propensione ad una ricerca coreografica estremamente diversificata tra gli artisti che intraprendono un percorso autoriale, acquisendo – in alcuni casi – elementi di originalità rispetto alla concezione di evento teatrale. Le urgenze espressive incalzano con grande libertà creativa, al di là dei vincoli convenzionali e registici.
Molti autori affiancano alla ricerca sul movimento una tensione riflessiva sempre più importante. Se in molti (troppi) casi alcuni spettacoli peccano di eccessivo intellettualismo, perdendosi in una confusione stilistica ben lontana da una qualsiasi connessione con il pubblico, in altri casi l’autore cerca di portare lo spettatore a fruire di un senso dell’opera che non è significato, ma un luogo metaforico e simbolico da scoprire. La sfida che alcuni di loro affrontano è quella di un processo di maturazione del pubblico, di avvicinamento a una sensibilità al linguaggio del corpo che si muove in uno spazio senza alcun appiglio narrativo o cornice drammaturgica.
Fra questi ultimi vi è Simona Bertozzi, coreografa e danzatrice romagnola, fondatrice della Compagnia Simona Bertozzi/Nexus nel 2008 a Bologna. Alcune riflessioni in questa intervista sono scaturite dalla visione di due suoi lavori: Anatomia, andato in scena all’Arena del Sole di Bologna e Prometeo: il dono, visto durante l’ultima edizione del festival Interplay, alla Lavanderia a Vapore di Collegno (TO).
In Anatomia Bertozzi danza senza sosta in quadrato nero, le cui volumetrie vengono modificate dal sapiente e articolato gioco di luci di Antonio Rinaldi, seguendo le composizioni live di Francesco Giomi, in scena per tutto il tempo. Lo spettacolo parla dell’incontro fra un corpo fisico, presente e pulsante, e un corpo sonoro. In scena con Simona anche la giovanissima Matilde Stefanini, che si pone come alter ego dell’autrice in un dialogo di grande coerenza. Co-autore del lavoro è Enrico Pitozzi, il cui apporto va ad indagare il rapporto anatomico fra spazio, tempo e velocità raggiungibili.
Prometeo: il dono è il secondo quadro dopo Prometeo: contemplazione, in cui vengono investigate la natura del dono e il rapporto fra corpi che, attraverso momenti di sospensione e negoziazione, cercano un dialogo che va sempre in una direzione di complessità. In scena oltre a Bertozzi troviamo Stefania Tansini e Aristide Rondini. Difficile recepire questo spettacolo se lo spettatore non è abituato a conoscere il lavoro di questa artista, in quanto ogni tipo di prevedibilità dello sguardo viene drasticamente fugata, in un groviglio di ritmi e posture.
Ho rivolto alcune domande a Simona Bertozzi con l’intento di indagare la profonda riflessione che sottende il suo lavoro:
• Buongiorno Simona. Il tuo linguaggio comprende un vocabolario di movimento che denota una grande esperienza nell’ambito della ricerca coreografica. Che dialogo intendi intraprendere con il pubblico?
La relazione con il pubblico è per me elemento sostanziale della creazione. Il linguaggio che produco interroga l’anatomia nelle sue illimitate possibilità di orientarsi nello spazio. Essendo lo spettatore dotato, a sua volta, di un costrutto anatomico é inevitabile che si produca una risonanza, un “attacco” alla sua percezione, un evento empatico, la cui sostanza e direzione, però, non deve essere pilotata, tantomeno risolta dall’agire prodotto sulla scena. Credo si debba conservare e coltivare un’apertura dell’immagine condivisa.
Il rituale è un processo che richiama alla condivisione, in questo senso l’azione dei corpi abbandona il luogo della singolarità per approdare a un livello di proiezione verso l’universale, costruendo un territorio parallelo a quello della realtà.
Vorrei dire che questo è il livello di co-abitazione che mi interessa attivare con lo spettatore. La condivisione di un gesto che “non è più mio” e che può aprire nuove traiettorie di visione, di amplificazione, di fuga.
• Nel caso di Anatomia la riflessione sulla presenza, sulla percezione del suono e della sua densità nello spazio rende evidente uno studio approfondito – grazie all’apporto di Enrico Pitozzi – sulle energie che si creano in correlazione con la musica e un complicato disegno luminoso. Come coreografa e danzatrice del tuo stesso lavoro, come hai impostato il processo creativo in rapporto a un drammaturgo e ad un musicista?
La collaborazione con Enrico Pitozzi è attiva da alcuni anni e, nel tempo, si è consolidata in progettualità di ampio respiro, specie nell’ambito della formazione. Cito tra tutti Volcano, progetto triennale (2015-2017) di formazione e trasmissione delle pratiche coreografiche contemporanee coordinata da L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino.
Il nostro dialogo, durante la creazione di Anatomia, non si è delineato secondo la modalità che solitamente si instaura tra coreografo/drammaturgo ma portava già dall’origine una serie di visioni condivise a cui si e affiancata l’ “azione sonora” di Francesco Giomi. La suggestione lanciata da Enrico, di porre l’anatomia al centro delle nostre prospettive di ricerca e pratica, ha permesso di strutturare in forma di evento scenico la comune di riflessione sul dialogo tra corpo sonoro e corpo biologico.
Non in ultimo, a completare questo orizzonte di creazione, vorrei citare le atmosfere luminose di Antonio Rinaldi.
• Molti dei tuoi lavori sono interpretati da giovani danzatori. Qual è la motivazione e quali sono le implicazioni di questa scelta?
La presenza, nei miei ultimi lavori, di giovani danzatrici è stata naturale conseguenza di un pensiero importante che ho rivolto alla trasmissione e a un’etica specifica del percorso di ricerca e creazione. Di certo non ha avuto peso una riflessione sulla giovane età degli interpreti in quanto necessità di “mercato”, tantomeno ritengo che si possa definire a priori un’età giusta/ideale per porsi in una dimensione di pratica e esplorazione di precise modalità coreografiche.
Con Stefania Tansini (all’epoca 24enne) e la giovanissima Matilde (appena 11 anni!) il dialogo della vicinanza tra i corpi, l’interiorizzazione del codice, l’immediatezza dello sguardo su cui posare le mie visioni, mi hanno da subito immersa in una possibilità particolarmente fertile di creazione e composizione coreografica.
• Prometeo: il dono fa parte di una serie di lavori dedicati alla mitologia. Come ti poni in relazione a questa tematica e come cerchi di rendere leggibile al pubblico questa riflessione sul mito greco?
Il progetto biennale che ho strutturato intorno al mito di Prometeo, pur strutturandosi in sei quadri distinti, ha escluso sin dall’esordio un’esegesi del mito e una sua narrazione. La trasposizione nella contemporaneità a cui ho dato prevalenza, ha riguardato un’ampia riflessione sulla technè, sul processo di informazione che può attraversare il gesto e la sua manipolazione dello spazio, in particolare quello dell’incontro con l’altro: la socializzazione, la trasmissione, il passaggio di testimone e l’orizzonte non sempre cristallino – anzi tendenzialmente contrastato e oscuro – che si staglia a latere e in lontananza di uno sguardo condiviso e aperto sul progresso.
• Cosa pensi della cosiddetta “giovane danza d’autore” – che in questi anni brancola nel buio ed è spesso lasciata senza riferimenti – e quale consiglio daresti ai tuoi giovani colleghi?
Non so se sono fuori dalle mode del momento, di certo non mi pongo in un’ottica creativa anteponendo dei modelli a priori e cercando di incontrare dei trend specifici o particolarmente in voga… Non riuscirei a condurre diversamente il mio lavoro. Ed è sempre stato così. Di questa libertà ne vivo pienamente i privilegi, ma anche le difficoltà che un percorso del tutto indipendente, inevitabilmente, comporta.
I giovani danz’autori? Mi pare che si possa dire di tutto meno che brancolino nel buio. Ci sono oramai numerose occasioni di tutela e sprone alla creazione e alla messa in atto del loro potenziale da parte di istituzioni, festival, bandi per under 35 etc. etc. Che le occasioni non siano sempre adeguate, o ben direzionate e condotte, dipende in primis dal giovane stesso, e dalla sua capacità di comprendere che l’occasione di un sostegno o di una circuitazione non é di certo ragione per smettere di “studiare”, anzi è solo un’ulteriore conferma di necessità di confronto e di crescita.
Per maturare una propria autorialità, è necessario saper collocare il percorso che si è intrapreso all’interno della complessità di eventi di cui risente la danza e la coreografia contemporanea. Comprendere, fino in fondo, l’epoca e le ragioni storiche della propria ricerca.
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Articolo di Andrea Zardi