Di Michele Altamura
L’articolo fa parte del secondo numero della rivista “LO SCANDAGLIO” dedicato alla violenza in scena.
“Nonostante le brutte esperienze, la parte più profonda degli esseri umani si aspetta sempre che le venga fatta del bene e non del male.”
Nicola Lagioia, La Ferocia
Istantanea 1. Il divano
Di quanto la violenza sia un’efficace chiave di lettura della società di oggi se n’è accorto anche il mercato. Basta guardare le top ten delle serie più viste su Netflix o dei podcast più ascoltati su Spotify per rendersene conto. Nel momento in cui scrivo in cima alle classifiche c’è la serie tv Monsters, dedicata alla vicenda dei fratelli Erik e Lyle Menendez che nel 1989 ammazzarono a colpi di fucile i propri genitori. Il podcast oggi più ascoltato è invece E poi il silenzio – il disastro di Rigopiano di Pablo Trincia che ripercorre quanto accadde il 18 dicembre 2017 in Abruzzo, quando una valanga travolse e distrusse l’Hotel Rigopiano provocando 29 morti.
Al secondo posto è stabile ormai da mesi Elisa true crime che racconta storie di crimini efferati, enigmi irrisolti e misteriose sparizioni per la gioia dei suoi followers (oltre un milione). Tutto è cominciato con il plastico della villa di Cogne esibito in tv da Bruno Vespa: all’epoca l’ossessione per la cronaca nera veniva definita morbosa, oggi la chiamiamo true crime ed è uno dei nostri passatempi preferiti.
Mi sembra evidente che ci sia un mondo che – comodamente sdraiato sul divano – si nutre della stessa violenza che ogni giorno perpetra, sempre pronto a dividere i buoni dai cattivi, le vittime dai carnefici, gli innocenti dai criminali.
Tra gli amanti di alcuni podcast dedicati ai casi italiani più celebri di cronaca nera ci sono anch’io, lo ammetto. Li ascolto durante i viaggi, mi abbandono ai racconti dettagliati dei crimini e delle loro radici sociologiche, a volte ne canticchio anche le sigle e al termine dell’ascolto partecipo ad accesi dibattiti nelle chat tra amici. Aspetto il primo giorno del mese per ascoltare il nuovo episodio di Indagini di Stefano Nazzi e, pur riconoscendo un lavoro di scrittura e di giornalismo rigoroso e attento, a distanza di qualche ora sento sempre una specie di senso di colpa, come se avessi bevuto il sangue delle disgrazie altrui e immediatamente dopo ne provassi rimorso.
Mi sono spesso chiesto in che modo il teatro possa innescare un meccanismo diverso rispetto agli altri mezzi di comunicazione di fronte alla violenza. È possibile “reggere lo specchio” a una natura geneticamente violenta senza correre il rischio di cadere nel voyeurismo, o al contrario, nella retorica o nei moralismi?
Quando abbiamo cominciato a lavorare su La Ferocia ci siamo spesso interrogati su come mettere in scena tutta la violenza presente nel romanzo di Nicola Lagioia.
Abbiamo da subito deciso di nascondere agli occhi degli spettatori il corpo di Clara Salvemini, vittima di un atroce delitto e protagonista del romanzo; questa scelta (forse azzardata nelle premesse) ci ha permesso di amplificare la dimensione tragica dell’opera concentrandoci sulle parole dei personaggi intorno a lei, sul loro sistema di relazioni fondato sul sopruso e sulla prevaricazione.
Non si può raccontare la violenza senza assumersi la responsabilità di esplorare i meccanismi su cui essa si fonda. Non parlo di un atteggiamento necessariamente militante, ma di una necessaria ricerca di complessità che permetta di evitare auto-assoluzioni o enfatiche stigmatizzazioni.
Gli attori e le attrici sanno bene che dovranno difendere il proprio personaggio fino all’ultimo, che giudicarlo buono o cattivo non li porterà lontano e che, se dovranno interpretare anche il più abietto degli esseri umani, dovranno cercare le ragioni profonde che lo spingono ad agire.
I drammaturghi migliori costruiscono personaggi che permettono questa vertiginosa immersione nelle radici del male: Riccardo III non è soltanto un carnefice, Amleto non è solo la vittima di tutte le ingiustizie di un mondo fuor di squadra.
Scardinare il meccanismo dicotomico buoni/cattivi può permettere allo spettatore di vivere un’esperienza tridimensionale che tenga conto di tutte le contraddizioni dell’essere umano in modo da comprenderlo e comprendersi più a fondo. Inoltre – e questo lo sapevano già i tragediografi greci – il teatro dà la possibilità di approfondire queste riflessioni in una dimensione collettiva. Esattamente l’esperienza contraria rispetto a quella che possono offrire delle cuffie noise cancelling da 299 euro per ascoltare in perfetto isolamento la propria serie true crime preferita.
Forse anche Danilo Sangirardi – il giornalista che nella nostra Ferocia viene interpretato da Gaetano Colella – è un vorace ascoltatore di prodotti seriali dedicati alle inchieste di cronaca nera. Dopo essere stato cacciato da tutte le testate giornalistiche locali per mano dei Salvemini, ha scelto indossare i panni del podcaster (di provincia) e mettersi al lavoro nel suo studiolo di registrazione. La linea drammaturgica che questo personaggio sviluppa lo trasforma in un narratore onnisciente, un messaggero tragico che durante lo svolgersi dello spettacolo accompagna gli spettatori nelle acque melmose in cui si muove la famiglia Salvemini. È sua l’ultima battuta prima del buio finale: «Secondo alcuni la disciplina che meglio spiega il nuovo secolo è l’etologia. Metti una volpe affamata davanti a un branco di conigli e li vedrai correre. Corri in una piazza piena di colombi e li vedrai volare. Trovami il colombo che non vola. Ma non credo che sia così. Non siamo animali, facciamo cose strane. Abbiamo vertigini di fronte alla perdita e ai giorni che ancora devono arrivare. Lo spazio vuoto e spaventoso. Un’immensa pagina bianca».
La violenza fa parte del nostro codice genetico, la ferocia è sempre pronta ad affiorare, ma possiamo scegliere di non piegarci alle leggi dell’etologia e abbandonarci alle vertigini che vengono quando si guarda nell’abisso di ogni uomo, come diceva Woyzeck.
Istantanea 2. La sala da pranzo
Qualche giorno fa ho finalmente trovato il tempo per guardare una serie tv che da molto tempo era nella mia “lista dei desideri”, The Bear. Nella seconda puntata della seconda stagione (una di quelle che ti inchioda letteralmente allo schermo) ho sentito delle risonanze, per affinità o per contrasto, con la lunga sequenza del pranzo ne La Ferocia.
Bob Odenkirk, special guest della puntata, fissa Jon Bernthal (alias Mike Berzatto) e gli sibila: «Sei un fallito. Non sei nessuno. Non sei nessuno. Nessuno. Non sei nessuno. Non sei nessuno». Mike lo fissa, in attesa di lanciargli contro un’ultima volta la forchetta e innescare definitivamente la rissa. Tutta la violenza è negli sguardi, nei sottintesi o nelle parole esplicite che fanno esplodere tensioni tenute a bada da troppo tempo. A far detonare definitivamente la scena è lo sfogo finale della mamma, Donna (interpretata da una superba Jamie Lee Curtis), che dopo l’ennesimo «come stai?» di sua figlia Sugar esplode in tutta la sua rabbia e frustrazione contro i presenti, nessuno escluso. È la cena di Natale, un Natale che non si augurerebbe a nessuno.
La famiglia Salvemini a prima vista non è disfunzionale come quella dei Berzatto, all’apparenza sembrerebbe addirittura una famiglia normale. Non ci sono urla, aggressioni verbali né piatti rotti, ma l’atmosfera è tagliente; ogni gesto, ogni sguardo, ogni parola fa riverberare i crudeli sottotesti che caratterizzano le relazioni tra i personaggi.
La violenza è nella calma apparente, nella disinvoltura con cui si invita ad assaggiare quelle «seppioline che si sciolgono in bocca» o ad apprezzare la riproduzione del quadro L’Europa dopo il diluvio di Max Ernst appeso alla parete.
La qualità con cui Leonardo Capuano/Vittorio Salvemini sposta una sedia per far sedere suo genero Alberto che vorrebbe spedire all’istante a migliaia di chilometri da quella sala da pranzo. Gli sguardi tra Andrea Volpetti/Alberto e Marco Morellini/Valentino Buffante, marito e amante della defunta Clara, sono carichi di minaccia e senso di colpa allo stesso tempo. L’apparente nonchalance con cui Gabriele Paolocà/Michele Salvemini introduce ai presenti la sua gatta accostandola al ricordo di una madre morta nel darlo alla luce e una sorella morta con la quale aveva interrotto i rapporti. «Non è stupenda? Una madre, una sorella, ora una gatta. Lei la conosceva mia sorella signor Buffante?».
L’acuta precisione con cui Francesca Mazza/Annamaria descrive il procedimento di pulizia di una seppia. «La prima cosa che si toglie alle seppie sono gli occhi. Bisogna fare un’incisione nella parte superiore dell’occhio e poi con i pollici si spinge finché fuoriescono i bulbi oculari. Poi, la seconda cosa che si toglie è l’apparato boccale, il becco. Si introducono le dita e delicatamente si estrae il becco. Tolti gli occhi, tolto il becco, bisogna togliere l’osso. Si fa un’incisione nella parte superiore, poi si stringono i tentacoli, si spinge verso l’alto finché fuoriesce quest’osso bianco. Poi si gira sulla schiena la seppia, la si incide e si espongono le interiora. Qualora ci fossero delle uova in formazione bisogna inciderle, poi si estraggono le sacche del latte, quelle che contengono l’inchiostro. Bisogna stare attenti, bisogna stare attenti…».
La sua descrizione, assente nell’originale di Lagioia, sembra un esame autoptico, simile a quello interpretato da Enrico Casale/Gennaro Lopez qualche scena prima, ma allo stesso tempo ha la freddezza di una minaccia o di una confessione, simile alla glaciale spietatezza delle deposizioni in tribunale di Angelo Izzo quando descrive le sue azioni durante l’esecuzione del delitto del Circeo.
La scelta di non mostrare al pubblico lo sfogo della violenza ma lavorare per allusione e sottrazione ha, ancora una volta, il preciso scopo di svelare le feroci dinamiche di potere e ricatto che sono pilastro portante della famiglia Salvemini. Potere e ricatto, due elementi connaturati a ogni sistema sociale basato sulla gerarchia e dunque anche alla famiglia. Quasi un mito fondativo, se si pensa che le società umane fanno spesso iniziare la propria storia da un atto di violenza, da un assassinio fra consanguinei, quasi sempre tra fratelli (Seth e Osiride per gli Egizi, Romolo e Remo per i Romani, Caino e Abele per i Cristiani). Da questa violazione originaria ha inizio un ciclo di vendette che può essere fermato soltanto da un intervento soprannaturale capace di imporre la sua legge ai popoli salvati.
Ma ne La Ferocia non c’è alcun Dio, o se c’è è molto distante o disinteressato alle squallide vicende dei Salvemini e al loro castello destinato a cadere.
Vittorio Salvemini ha pensato per tutta la sua vita che i soldi fossero un utile strumento per rimettere ogni cosa al suo posto. È cresciuto in una terra dove i suoi antenati «si spintonavano per scagliare mazzi di banconote in faccia alle statue dei santi protettori, pregavano affinché una concessione edilizia gli permettesse di vendere terreni sempre meno produttivi» e ora è convinto che il denaro possa comprare la complicità del direttore dell’Arpa e salvarlo dalla rovina.
Gli sfugge un concetto, accecante per la sua semplicità e che Frank Underwood, protagonista della fortunata serie House of Cards, aveva messo a fuoco in maniera molto precisa: «I soldi sono come ville di lusso che iniziano a cadere a pezzi dopo pochi anni; il potere è la solida costruzione in pietra che dura per secoli».
Istantanea 3. La piazza
È il 5 ottobre 2024. Ieri sera c’è stata l’ultima replica de “La Ferocia” al Teatro Argentina di Roma. Stamattina ci siamo svegliati un po’ più tardi, abbiamo preso il caffè, rimediato gli ombrelli (oggi piove) e alle 14 siamo già per strada per arrivare a piedi a Piramide, dove è previsto un corteo Pro-Palestina. La Questura di Roma ha vietato la manifestazione e la polizia ha predisposto posti di blocco su tutte le vie di accesso a Roma (stazioni, autostrade, metropolitane). Nonostante questo in piazza siamo circa in diecimila: attivisti dei centri sociali e sindacati, ma anche famiglie e studenti, persone comuni indignate (incazzate, meglio!) per quel che sta accadendo nella striscia di Gaza, e da qualche settimana anche in Libano, ad opera di Israele.
La piazza è circondata da tutti i lati dalla polizia, sembra che non ci sia alcuna possibilità che il corteo parta come vorrebbero gli organizzatori, ma verso le 17 la grande fiumana sembra cominciare a muoversi. Una volta esaurito il giro della piazza, i manifestanti provano a proseguire il percorso verso Viale di Porta Ardeatina ed è in quel momento che cominciamo a sentire lo scoppio delle bombe carta e il fischio dei lacrimogeni. In pochi minuti l’aria diventa irrespirabile, la folla comincia a muoversi in direzione opposta, qualcuno corre, altri urlano.
Di lì a poco arrivano gli idranti e i manganelli dei poliziotti in tenuta antisommossa che conquistano la piazza. Decidiamo di defilarci attraversando uno dei varchi laterali. Lì dove eravamo fino a cinque minuti prima adesso sfrecciano le volanti della polizia. Ci sono alcuni feriti che si stanno facendo medicare la testa, un ragazzo abbraccia sua madre e urla tutta la sua rabbia.
Non sentivo il sapore aspro dei lacrimogeni da più di vent’anni, ventitrè per l’esattezza. Era il 17 marzo 2001 e a Napoli si stava svolgendo il Global Forum: un incontro tra governi e multinazionali per discutere di sviluppo elettronico. In corteo, organizzato da quello che all’epoca era chiamato il “movimento no-global”, eravamo circa in trentamila. Avevo quindici anni, quella manifestazione finì con un vero e proprio pestaggio a Piazza del Plebiscito: una sinistra anticipazione di quello che sarebbe accaduto dopo qualche mese a Genova. Anche se non sono rimasto ferito, non credo dimenticherò mai quella giornata.
Qualche mese dopo ho cominciato a frequentare il mio primo corso di teatro. Cercavo un modo per non tenermi dentro tutta la rabbia e la frustrazione che avevo sentito in quella piazza e che mi pervadeva ogni volta davanti alle ingiustizie, alle sopraffazioni, alle diseguaglianze. Il semplice camminare in uno spazio vuoto illuminato solo da qualche proiettore, guardare negli occhi altre persone e condividere con loro la paura e l’emozione dello stare in scena, a quel tempo mi era sembrata una possibile risposta.
A distanza di tanti anni affiorano delle domande: è stata una fuga? La sensazione di protezione che dà il palcoscenico ha attenuato le mie rivendicazioni e l’urgenza della mia militanza? Oppure è stato un modo per giungere alla consapevolezza che a volte il semplice mostrare può essere un atto rivoluzionario, un antidoto alla violenza e alla barbarie della banalità?
Non ho risposte. Vorrei vedere e fare un teatro che non dimentichi (e non faccia dimenticare) la brutalità di quello che accade fuori, e allo stesso tempo mi pare che a volte si chieda troppo al teatro, quando si pretende che sia il luogo in cui esaurire una riflessione complessa sul mondo e sulle sue contraddizioni. Mi piace pensare al tempo in platea (e in sala) non come a una sostituzione alla mobilitazione, ma piuttosto come a una palestra di cittadinanza: e se quelle contraddizioni osservate nel buio della sala fossero l’innesco per tornare a prendere parte al dibattito pubblico e cambiare il nostro rapporto con la parola potere anche e soprattutto fuori dai teatri?

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