Nunzio Perricone si forma presso il Teatro dell’Opera di Roma e il suo talento si è impreziosito mediante le sue numerose esperienze lavorative, nazionali ed internazionali, da Montreal a Chicago, da Singapore, alla Corea del Sud. La sua impronta di danzatore e di coreografo è tipica dell’isolano plasmato dal vivere in mezzo al mare. “L’isolano vive nell’attesa e nella paura dell’inabissamento” – ha scritto Leonardo Sciascia. Nato in Sicilia, come Sciascia, lo stile di Perricone è unico e riconoscibile. Cattura l’attenzione fin dal primo momento, creando una connessione con gli spettatori. Abita la scena mediante il suo corpo: fluttua, scivola e dal basso si solleva verso l’alto.
La presenza di diversi linguaggi, nelle sue composizioni, e di diverse forme di espressione artistica, tra cui l’arte visiva e la ricerca sonora, rende universale l’estetica e la sua poetica. Si spinge fino a scendere nell’intimità dell’Io per risalire e raggiungere la superficie, la dimensione del Noi. E lì vi rimane, in sospensione, come un funambolo su una fune d’acciaio.
In questa intervista abbiamo raccolto la sua testimonianza e quelle di Alessandro Floridia e Ivan Gasbarrini, con i quali forma il collettivo Secondonome.
Nunzio Perricone, raccontaci qualcosa sul tuo percorso di formazione
L’inizio della mia formazione nella danza è stata molto “tradizionale”, ho cominciato da piccolo in una scuola di danza di Catania, ho approfondito in seguito lo studio della danza classica e contemporanea al Teatro dell’Opera di Roma. Fu lì che capii quanto quel tipo di pratica non fosse adatta a me, quanto io non fossi adatto. Cominciai degli studi sulla sperimentazione corporea, che man mano si allontanavano sempre più dalle discipline prettamente coreutiche per avvicinarsi ad un approccio più performativo e sperimentale. Guardai per caso un documentario su I like America and America likes me di Joseph Beuys, fu la svolta nel mio pensiero. Sono sempre stato attratto dalla verità della semplicità nella comunicazione artistica, nei gesti e nell’approccio alla creazione. Da questo punto di vista trovavo la danza, tradizionalmente concepita, lontana dalle mie intenzioni.
Qual è stata la genesi del vostro progetto?
Alessandro Floridia: Il periodo di clausura pandemica mi aveva sottratto dal lavoro di “operaio della musica” e questa per me come per tante altre persone, è stata occasione di recupero di spazio mentale e tempo per affrontare tematiche e procedure creative in una modalità molto naturale e rilassata. Nunzio mi ha chiamato al telefono per spiegarmi che stava cercando un percussionista. Quando ci siamo incontrati ho subito chiarito che qualsiasi collaborazione sarebbe dovuta nascere da vere esigenze di ricerca da entrambe le parti.
Ho cercato di proporre l’uso di strumenti alternativi alla percussione, ad esempio in ambito elettroacustico, e ho subito notato interesse e una grande voglia di novità anche da parte sua. Nessuno dei due conosceva precisamente il lavoro dell’altro ma nonostante questo è nata da subito una grande intesa sia a livello umano (non è difficile andare d’accordo con una personalità accogliente e solare come quella di Nunzio) sia artistico, vista la sua versatilità fisica e immaginativa e la sua grande esperienza di professionista.
N.P.: Su queste basi è cominciato il nostro percorso dapprima con una rivisitazione di Elogio del Silenzio, una mia performance che portavo in giro da qualche tempo. Poi con il progetto Antropo_Cenere che ha visto l’ingresso del video nel lavoro con l’importante apporto di Ivan Gasbarrini.Ed eccoci a Spettro Variabile che ci vede coinvolti tutti e tre (Nunzio Perricone per il movimento, Alessandro Floridia per il suono, Ivan Gasbarrini per il video).
La scelta del titolo Spettro Variabile e l’indagine intorno a queste due parole per la vostra performance
A.F.: Si tratta di un lavoro che vorrebbe restare aperto alla mutazione indotta dai luoghi e dalle circostanze: questa impostazione stimola Secondo Nome a un’indagine e un dibattito interno sull’idea di Improvvisazione e di rapporto rispetto all’idea di Opera. Possiamo dire che è uno dei temi centrali sui quali stiamo ragionando e mettendo alla prova come gruppo. Il nome di questo nuovo ciclo di performance Spettro Variabile, ci sembra una delle soluzioni scelte fra tante che lascia aperte molte interpretazioni, in linea con il discorso cui si accennava legato alla possibilità di questi tre linguaggi – corpo, suono, video – di comporre la propria poetica in una sorta di interplay entro uno schema nei quali trovare appuntamenti ma anche nuove zone di incontro e vie d’uscita.
Chi vi ha dato dei consigli utili per il vostro ultimo progetto e cosa, in particolare, avete condiviso?
Ultimamente abbiamo avuto l’onore di presentare Spettro variabile ad una straordinaria performer, Alessandra Cristiani. Il suo sguardo così acuto ci ha fornito degli ottimi spunti di riflessione. In particolar modo, abbiamo approfondito insieme, la tematica del tempo scenico, il timore del vuoto scenico, la possibilità di dilatare il tempo di un’azione, fino a che non muti in qualcos’altro ed avere il coraggio di spingersi fino a questi confini, che in prima analisi appaiono nascosti. È stato prezioso
Chi è Nunzio Perricone (persona/artista)? Che rapporto hai con te stesso?
N.P.: Mi ritengo una persona, irrimediabilmente curiosa. Ogni qual volta mi si presenta un nuovo argomento, inizia la fame insaziabile di sapere e questo richiede un consistente dispendio di energie. Artisticamente si traduce in una passione totale per il processo creativo respingendo spesso il compimento di un’Opera. In queste due fasi distinte, processo e concretizzazione, cambia il rapporto con me stesso.
Mentre nella prima fase riesco ad avere totale fiducia in me stesso, anche nei possibili fallimenti, lo stesso non avviene nella fase realizzativa, dove raggiungo livelli di lotta interiore davvero significativi. Solo la reale necessità di comunicare quanto pensato, fa sì che io esca da certi meccanismi di auto-sabotaggio.
Se dovessi scegliere una parola soltanto per descrivere la tua sensibilità artistica, quale sceglieresti e perché?
N. P.: Viscerale. Nel senso di profondità fisica. Nella mia espressione artistica tendo alla ricerca del ‘nucleo embrionale’ dell’argomento trattato, o anche semplicemente del movimento suscitato da tale argomento. Ecco perché parlo di semplicità nella domanda precedente. La mia azione tende sempre a “togliere” fino ad affrontare frontalmente l’essenza. Alessandro ed Ivan mi hanno molto spinto ed aiutato in questa direzione. È stato spesso doloroso. Asciugare il superfluo può risultare semplice se non addirittura necessario, ma sacrificare un atto proveniente dall’esigenza comunicativa o da un’idea forte e ben radicata, appartiene alla rinuncia e in quanto tale, violenta.
Qual è il tuo rapporto personale e artistico con questi due opposti: luce e ombra?
N. P.: Sono attratto dall’ombra in quanto spazio negativo, in quanto abitante dello spazio negativo. In Spettro variabile ad esempio, abbiamo utilizzato diverse torce da lavoro, rinunciando del tutto ai fari scenici, proprio per lasciare che la luce, ma soprattutto le numerose ombre, stessero sullo stesso piano degli altri elementi, il più naturalmente possibile e a più livelli. Solo a performance ultimata ci siamo resi conto del ruolo fondamentale che hanno ricoperto.
Quali sono (o sono stati) i tuoi riferimenti nel mondo della danza e dell’arte in generale?
N. P.: Il teatro di Carmelo Bene, di Bob Wilson, i saggi di Derrida e i libri di Gurdjieff, le performance di Bruce Nauman, i film di Tarkovskij ma soprattutto l’intera corrente dell’Arte Povera. La ritengo fonte inesauribile d’ispirazione. Ci sono moltissimi artisti che non cito, per ovvie ragioni di spazio e tempo, ma questi elencati rientrano sicuramente in ogni mia creazione. D’altra parte confesso anche, che solo da qualche anno concedo realmente un tempo di qualità allo studio. Sto scoprendo quotidianamente personalità e correnti di pensiero che mi affascinano. Tra un anno questa risposta potrebbe essere del tutto diversa. Per quel che riguarda la danza, sicuramente Omar Rajeh, con cui ho la fortuna di lavorare, rappresenta un esempio fondamentale, soprattutto per la pratica d’improvvisazione.
Verso quale direzione sta andando la Danza contemporanea? C’è ancora spazio, un’urgenza artistica per rielaborare uno o più linguaggi attuali e di rinnovamento?
N.P.: Ho dialogato con Alessandro di questa domanda e della possibile risposta, perché avvertivo una vena polemica nel mio pensiero. Lui mi ha fornito un ottimo spunto sul quale ragionare. Personalmente ritengo la danza la più restia, tra le forme d’arte, all’avanzamento, al rinnovamento, per una vera e propria direzione che ha l’intero circuito, a tutti i livelli e a tutte le latitudini, non di certo per mancanza di talento, che anzi ritengo debordante soprattutto tra i giovani artisti.
Alessandro giustamente ha però ribattuto a questa mia riflessione, ponendo al centro la questione dell’inserimento di linguaggi altri. Di pratiche creative trasversali, che integrino e coinvolgano altri approcci provenienti da un qualsiasi altro sistema. É lì che vedo ancora spazio e infinite possibilità di comunicazione, lasciando che l’urgenza di espressione tracci il cammino di un’Opera. Senza limiti e/o percorsi pregressi.
Continua questa frase: se potessi cambiare qualcosa di te, del mondo, della danza, sarebbe…
N.P.: Se potessi cambiare qualcosa di me, cambierei la gestione del tempo. Me ne concederei molto di più per lo studio, per l’ozio (alla maniera dei greci antichi), invece che questa sorta di horror vacui che mi accompagna. Del mondo cambierei, l’animale umano. Porrei a margine il punto di vista antropocentrico. Della danza cambierei il fine ultimo. Vorrei fosse espressione massima del brutto e non ricerca di bellezza. Vorrei crollasse definitivamente il pilastro dell’estetica.
Dove e come ti immagini tra 10 anni?
N.P.: Mi piace immaginarmi, abbastanza interessante da suscitare continuamente curiosità, in un pubblico. M’immagino a raccontare ad una platea di giovani il processo creativo della mia ultima creazione presentata. Un’ alternativa sarebbe invece, una vita alla Thoreau di Walden o la “casa al mare” di Le Corbusier, rinunciando completamente alla socialità così come la concepiamo quotidianamente. In questo caso però, dovrei coinvolgere anche mia figlia, non potrei rinunciare a lei.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.