Saranno in scena al Drama Teatro di Modena il prossimo 28 settembre con Ultima Fermata, spettacolo dedicato alla catastrofe ambientale imminente, diretto da Simona e Rosanna Cieri, coreografie di Martina Agricoli, ex allieva entrata a pieno titolo nella compagine di Motus, compagnia di teatro-danza tra le più conosciute e apprezzate a livello internazionale, impegnate da anni sul fronte sociale con veri e propri spettacoli-denuncia e al tempo stesso capofila nel campo della sperimentazione artistica con progetti legati alla multimedialità.
Simona Cieri, danzatrice e coreografa di formazione classica, fondatrice, nel 1991, della compagnia Duncaniando, in omaggio a Isadora Duncan, danzatrice statunitense considerata precorritrice della danza moderna, sviluppa nel tempo il desiderio che la sua danza esca dai confini della mera performance e si apra alla mission sociale, a progetti creati ad hoc insieme alla sorella regista e drammaturga Rosanna e a chi lavora nella compagnia perché la sua arte sia al servizio di progetti che uniscano la bellezza della danza contemporanea alla riflessione politica.
Numerosi i riconoscimenti e le collaborazioni, oltre al libro, pubblicato nel 2021, in occasione del trentennale della Compagnia, intitolato Trenta di Motus dalla casa editrice La Conchiglia di Santiago diretta da Andrea Mancini, con contributi di Jovan Diviak, scrittore e ufficiale jugoslavo considerato eroe nazionale in Bosnia Erzegovina per il suo rifiuto, durante la guerra, di attaccare la città di Sarajevo. Abbiamo quindi colto l’occasione di intervistare la compagnia anche sul loro lungo percorso artistico.
Partiamo dallo spettacolo che porterete in scena a Modena il prossimo 28 settembre, Ultima fermata, Come avete sviluppato questo lavoro?
Martina Agricoli: È stato interessante lavorare secondo un movimento inverso rispetto a quello che è il lavoro coreografico e di danza e utilizzare i movimenti dei danzatori in modo da far emergere la fragilità del genere umano in uno spettacolo che si apre in un contesto già apocalittico. Ho chiesto pertanto ai tre danzatori di vivere in scena la stanchezza, la difficoltà a respirare, lo sfinimento delle forze e dell’energia, i movimenti ripetitivi; tutte situazioni dal quale il danzatore è solitamente chiamato a sfuggire per andare in direzione opposta, e ho cercato di portare il pubblico stesso a percepire l’ansia e la difficoltà.
Rosanna Cieri: Così come i lavori di Motus attingono a forti dosi di ironia, ci sono alcune scene in cui per alleggerire la tensione si sorride su quelli che sono i nostri comportamenti, senza nulla togliere alla drammaticità di quanto viene raccontato e in cui ormai ci troviamo già immersi, con sempre più frequenti disastri ambientali e in cui il pubblico non fa fatica a ritrovarsi. Il punto di non ritorno per invertire la rotta dell’umanità verso la catastrofe ambientale, fissato dalla scienza tra 26 anni, non sta fermando infatti i comportamenti insensatamente energivori delle persone.
Per questo motivo, attraverso internet, siamo andati alla ricerca per qualche mese, di un oggetto che potesse diventare il simbolo dell’insensata rapacità della società consumistica e ne abbiamo trovato uno, assolutamente inutile a chicchessia, di cui davvero nessuno può avere bisogno. Eppure abbiamo scoperto essere stato acquistato moltissimo, tanto da andare presto esaurito. Non diciamo di quale oggetto si tratta per non spoilerare, ma il pubblico di fronte a questo oggetto, è scoppiato a ridere, ma si è divertito riflettendo.
A quale tra i vostri numerosi spettacoli, siete particolarmente affezionate?
Rosanna Cieri: Difficile a dirsi, noi nasciamo con una mission che è quella di portare all’attenzione del pubblico i problemi sociali irrisolti. Spesso i nostri spettacoli sono denunce. Le situazioni sono sempre originali, nel senso che noi non portiamo in scena il repertorio di altri, le sceneggiature sono scritte insieme alle coreografie per descrivere una certa situazione, dalle morti bianche sul lavoro all’inclusione sociale, all’inquinamento. In realtà il nostro desiderio sarebbe quello di non avere più niente da dire, perché a questi drammi si è riusciti a trovare una soluzione. Invece non è mai così. Se penso ad esempio allo spettacolo Mattanza, dedicato alle morti sul lavoro, mi rendo conto di quanto sia ancora profondamente attuale e in sintonia con quanto affermato nei giorni scorsi dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
C’era stato all’epoca, un evento di cronaca in particolare a cui vi eravate ispirate?
Rosanna Cieri: No, semplicemente una dichiarazione dell’allora ministro del Tesoro che a proposito della sicurezza sul lavoro disse che era un lusso che gli italiani non potevano permettersi. A questo punto lo spettacolo si giocò tutto sul tema del lusso e il suo impatto sul pubblico fu spiazzante, perché nessuno si aspettava un approccio di questo tipo.
Simona Cieri: Sì, io ho curato le coreografie di quello spettacolo e chiesi di far costruire un’apposita struttura, che fu posta molto più in alto rispetto al palco dove di solito si svolge la danza e per questo era anche pericolosa per i ballerini, ognuno costretto a muoversi in spazi di due metri per due con livelli non regolari. Era l’anno in cui John Galliano aveva fatto sfilare le sue modelle con gonne di raso e seta strettissime e lunghe oltre la loro altezza, così ho fatto indossare questo tipo di capi alle danzatrici. Ovvio che la struttura serviva a rendere l’idea che la situazione era posta su piani diversi: su quelli alti si muovevano le indossatrici, con un tipo di danza molto avvolgente e in uno spazio ridotto mentre in basso si vedeva in modo palese il degrado dei lavoratori che lavorano senza tutele. Ci piaceva l’idea della precarietà che dava questa immagine dei piani sopraelevati dai quali è facile cadere come si cade da una impalcatura. I piani diversi inoltre davano l’idea della gradualità del potere.
Un altro spettacolo di cui siamo orgogliose e che costituisce un primato è Confini, che ha vinto il Premio internazionale della critica Teatarfest 2008 a Sarajevo. È uno spettacolo di forte impatto emotivo per chi lo guarda e noi che abbiamo fatto viaggi in Bosnia da sempre, siamo particolarmente legate a questo spettacolo e a questi luoghi: Sarajevo, Mostar, Tuzla. Srebrenica. In questi luoghi abbiamo lavorato tanto e toccato con mano il tema della guerra e le problematiche post belliche. Dopo la fine della guerra in Bosnia siamo andate là, certe che da quel momento in poi i riflettori su di loro si sarebbero spenti e la popolazione sarebbe rimasta abbandonata a se stessa, come succede anche ora in Siria, Afghanistan e tanti altri posti. Ci siamo dette che l’arte avrebbe potuto per lo meno attenuare i conflitti creatisi tra le diverse etnie, visto che la Pace di Dayton del 1995 aveva costruito col compasso confini fittizi. Questo conferma quello che è lo spirito di Motus, utilizzare la danza non come fine ultimo ma come mezzo per.
Ma torniamo a Confini e al suo primato, che è stato quello di utilizzare la multimedialità in modo concreto, diverso dall’uso che se ne faceva all’epoca in teatro. Non ci siamo limitati ad utilizzare i video come fondali, ma le nostre videoproiezioni erano mirate a fare in modo che i nostri danzatori potessero essere reali sul palco oppure virtuali. Entravano e uscivano dal fondale tanto da creare questa illusione ottica per cui il palcoscenico diventava infinito e i danzatori con un lunghissimo lavoro nel green screen di scontorno, potevano entrare e uscire, non interagire con la videoproiezione come già si faceva, ma ad esempio, prendere oggetti, che so, aprivano il forno e prendevano fuori una tortina che poi mangiavano. Ecco, questo aspetto innovativo ha senz’altro motivato il premio conferito.
Rosanna Cieri: Sempre sul versante dell’innovazione stiamo lavorando a un progetto sull’inclusione sociale intitolato Avatar per portare i malati di Sla a teatro, già realizzato nel nostro teatro di residenza vicino Siena, a Castelnuovo Berardenga e per il quale stiamo cercando finanziamenti per farlo conoscere anche in Europa e nel mondo. Dal loro letto, i malati di Sla e le persone con gravi disabilità motorie, possono partecipare allo spettacolo attraverso una calotta che è stata generata per captare gli impulsi cerebrali e per tradurre questi impulsi in movimenti attraverso un robot, il cosiddetto Avatar, che viene a teatro come fosse una persona. Non è quindi uno streaming, ma ogni malato di Sla ha il suo robot che comanda come se fosse lui stesso. Simona poi ha elaborato un laboratorio ad hoc perché questa persona potesse danzare insieme ai nostri danzatori e ti giuro che è stato uno dei momenti più emozionanti della nostra vita.
Il nostro è il primo esperimento di questo tipo in Italia che abbiamo voluto realizzare come progetto pilota, ma ci stiamo adoperando per coinvolgere soggetti a livello europeo e testare se questo tipo di esperimento si presti ad essere riprodotto anche in spazi diversi da quello utilizzato qui.
Abbiamo attualmente in essere anche un progetto in collaborazione con il Cnr di Pisa attraverso la residenza insieme ad una coreografa della quale Motus produrrà il lavoro con la generazione di suoni, immagini e segni attraverso sensori che vengono gestiti attraverso il sistema computerizzato e l’intelligenza artificiale. L’innovazione ci interessa nella sua duplice valenza: come espressione dell’artista e come elemento che favorisca l’inclusione sociale. Non ci interessa la fuffa della tecnologia, che adesso si vede tanto spesso a teatro, noi non siamo di tendenza, questo è poco ma sicuro.
Come riesce il danzatore-performer a mantenere l’equilibrio tra il pathos, l’emozione che deve trasmettere al pubblico e la sfida della multimedialità?
Simona Cieri: Ti rispondo citando il nostro spettacolo Iris sotto il mare, rappresentato in tanti Paesi del mondo, dal Regno Unito al Portogallo fino alla ex Jugoslavia, a Srebrenica. In questa storia c’è una forte componente tecnologica ed è al tempo stesso molto poetica: Iris è su un fondale marino immersa in un quadro di Marc Chagall ma è una vicenda che parla di migranti. Lei è Iris Noelia Palacios Cruz, ragazza honduregna che lavora in Italia come baby sitter senza contratto per una famiglia benestante e si immola per salvare la vita alla loro bambina che sta annegando nelle acque dell’Argentario.Suscitò un forte pathos sulla popolazione bosniaca, gran parte della quale in quel periodo era costretta ad emigrare dopo la guerra. Ci fu davvero un grande trasporto emotivo e ricevemmo l’encomio anche da parte dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Tra i vostri lavori vorrei soffermarmi su Words che parla del potere delle parole
Rosanna e Simona Cieri: Words è stata la prima coreografia di Martina. Noi diamo vita a progetti di durata triennale e quell’anno ci dedicammo al tema del linguaggio e con Simona abbiamo dato vita a un concept intitolato Etimos, rivolto soprattutto alle scuole, anche se la parte più bella è sicuramente quella coreografica che si vede a teatro, sviluppata su piani inclinati entro i quali i danzatori ballano e vengono illuminati a seconda delle situazioni. In quel contesto ci premeva esplorare l’aspetto poetico del linguaggio che in Etimos ruota intorno a tre parole che nel tempo hanno assunto un diverso significato: desiderare, considerare e nostalgia. Volevamo però esplorare anche l’aspetto politico del linguaggio, perché il linguaggio disegna la realtà e lo fa a seconda di ciò che si intende dire. Martina curò questa parte partendo dal discorso di Mussolini alla Camera quando ci fu l’assassinio di Giacomo Matteotti e i movimenti dei danzatori cominciano con quel discorso, questo per far capire quanto la realtà sia manipolabile attraverso le parole e da lì lei iniziò a sviluppare ulteriormente il discorso sul linguaggio che l’anno successivo la portò a Interferenze, che fu selezionato da L’Italia dei Visionari, bando nazionale per le opere prime. È stato così che si è inserita a pieno titolo come nuova coreografa della compagnia. Così, mentre Simona porta avanti il lavoro principale, Martina analizza lo stesso argomento magari da un’angolazione diversa.
Veniamo al rapporto tra danza contemporanea e drammaturgia e più in generale, l’approccio del vostro teatro-danza rispetto a un testo drammaturgico
Rosanna e Simona Cieri: Qui c’è una forte sinergia ovunque tu vada, sia sul palco che fuori, dal testo alla danza alla coreografia, persino alla parte organizzativa. Senza la drammaturgia scritta appositamente per noi, non potremmo lavorare. Si parte sempre da un concept, ad esempio ora stiamo curando una trilogia che ruota intorno a tre parole, Ingratitudine, Immemori e Invidia. Ingratitudine, che ha debuttato l’anno scorso all’Estate Fiesolana, nell’Anfiteatro, parla dell’ingratitudine con particolare riferimento verso chi fa del bene. Un esempio può essere quella del giornalista Julian Assange che ha denunciato i crimini di guerra in Afghanistan e Iraq ed è stato incarcerato nel Regno Unito e condannato dal governo americano a 175 anni per cospirazione e spionaggio. Il giornalismo non è un crimine e va difeso. Ecco, Ingratitudine è dedicato a lui. Quest’anno abbiamo invece Immemori, dedicato al tema della memoria storica, che noi sembriamo aver perso del tutto. Non ci ricordiamo delle guerre del passato, degli errori che ci eravamo ripromessi di non commettere più e che invece perpetuiamo. Il prossimo anno lavoreremo invece intorno al tema dell’Invidia.
Il rapporto tra l’artista e la sua identità culturale. Secondo voi il danzatore deve lasciarsi abitare dall’opera che porta in scena o deve dare sempre una sua impronta, o bilanciare questi due aspetti?
Simona Cieri: Motus in rarissimi casi utilizza danzatori freelance o esterni. Per lavorare qui devi comprenderne e condividerne obiettivi, intenti e tutto ciò che sta dentro queste parole, quindi prima c’è un periodo di formazione qui dentro, che non è solo in sala, ma una formazione veramente mirata all’interno di questa realtà. Pertanto i danzatori contribuiscono moltissimo dando una loro impronta, ma senza mai togliere il marchio di fabbrica che è identificabile sempre, nonostante la danza cambi sempre, perché come ti dicevo prima, la danza è al servizio dell’argomento, del concept. Certamente tutti i danzatori danno un contributo perché non sono pezzi di ricambi ma persone e non si limitano ad eseguire i passi di danza. Come ti abbiamo spiegato prima, non si può prescindere da un lavoro sinergico. Così come per la drammaturgia, non è che Rosanna arriva e si è scritta la drammaturgia da sola, ma si sta insieme, si ragiona, si ascoltano e si scelgono i brani musicali, così anche i danzatori studiano l’argomento che devono danzare, si guardano i video. Ecco, questo lavoro solitamente non viene richiesto in altri contesti, si dice loro di entrare in sala poi c’è il coreografo che parla loro dello spettacolo e gli dà i passi e tutto finisce lì. Anche Martina, nonostante faccia lavori suoi e la sua firma sia riconoscibile e lasci che i danzatori siano liberi di esprimersi e di improvvisare, è ben riconoscibile che porta in scena un lavoro di Motus.
Insegnante di italiano come seconda lingua, formatasi all’Università per Stranieri di Siena, giornalista pubblicista iscritta all’Ordine laureata in Filosofia e Beni culturali all’Università degli Studi di Bologna, una grande passione per il teatro. Pirandello, De Filippo, Pasolini e le avanguardie del Novecento i preferiti di sempre.