Al Teatro Argot Studio di Roma, dal 12 al 17 e poi dal 22 al 24 febbraio, è andato in scena La Classe di Fabiana Iacozzili alla regia insieme al collettivo CrAnPi. L’opera è contraddistinta da una grammatica complessa e poliedrica che assume le forme di un docupuppets, in cui i ricordi della regista, vengono portati sul palcoscenico attraverso l’ausilio di marionette.
La narrazione drammatica è incentrata sull’esperienza della regista e dei suoi compagni di classe alle elementari, all’interno dell’Istituto Suore di Carità e della loro maestra: Suor Lidia.
“Si tratta di un processo lungo, quasi di analisi, perché il mio lavoro è iniziato due anni fa con l’idea di raccontare questo episodio dell’infanzia all’interno di questo istituto di suore. All’inizio sapevo l’argomento ma non sapevo ancora come svilupparlo. Così, in prima battuta, ho sentito l’esigenza di andare a ricreare quella comunità che era la mia classe: ho contattato tramite Facebook buona parte dei miei compagni di scuola, di cui solo una parte ha accettato di essere intervistata. È interessante come alcuni si ricordassero delle cose, mentre altri avevano dimenticato le più importanti e dolorose. Ho avuto modo di riflettere sul senso della memoria: ognuno di noi decide di ricordare o decide di abbandonare i propri ricordi nel luogo oscuro del proprio sé. Una volta intervistati, ho accumulato tutto questo materiale ed ho iniziato a pensare alla messa in scena. Sono arrivata al teatro di figura per due necessità fondamentali: la prima è che avevo bisogno di un linguaggio che non mi facesse cadere nel rischio del sentimentalismo, era molto rischioso vista la materia in questione; l’altra ragione è perché mi serviva qualcosa che universalizzasse un episodio invece biografico. Sono arrivata all’intuizione della marionetta che per così dire porta in sé qualcosa di assoluto, senza patetismo, e mi sembrava la giusta strada da percorrere per uno spettacolo che parla di bambini vessati. Sempre perché volevo cercare degli agganci che mi facessero uscire dal fatto autobiografico ho iniziato a studiare molto I Cannibali di Tabori e a prendere spunto da La Classe Morta di Kantor.”
Fiammetta Mandich è la scenografa e la realizzatrice delle marionette, create a immagine e somiglianza dei suoi compagni grazie a vecchie fotografie. Le marionette si muovono su banchi su ruote, su una scena che alterna luci soffuse e momenti di buio profondo. Nel buio, come fantasmi, si odono le voci registrate di quei compagni di classe ormai cresciuti: ridono, commentano aspramente, ricordano nostalgicamente o con rabbia e qualcuno non potrà dimenticare mai la sofferenza e l’umiliazione. Echeggiano come fantasmi, dove invece le marionette esprimono un’umanità con cui è impossibile non empatizzare. Merito anche del talento degli attori e marionettisti, che gestiscono alla perfezione una scenografia complessa e in costante evoluzione per tutto il corso dello spettacolo.
“Ovviamente quando sono partita ho avuto il bisogno di chiamare dei professionisti: io fino a questo momento avevo fatto tutt’altro. Ho studiato moltissimo ma avevo comunque bisogno di qualcuno che mi mostrasse la strada. Loro sono cinque: tre di loro sono dei professionisti della figura (Michela Aiello, Andrei Balan, Antonia D’Amore), e, siccome sentivo il bisogno di avere anche degli attori Marta Meneghetti, che ha collaborato alla drammaturgia ed è da anni nella compagnia e infine Francesco Meloni, un bravissimo performer che si è prestato, come Marta, alla figura.”
Ma a venire dall’alto non è soltanto la voce dei compagni ormai cresciuti, ma anche la voce di Suor Lidia che risuona nella sala come la voce di un Dio severo e impietoso. Le marionette tremano, chinano il capo, e vengono tirate, quasi strappate. Le terribili punizioni fisiche, le umiliazioni verbali, il ritratto di una scuola che sembra non sparire mai. Ma Suor Lidia non è soltanto bieca violenza e vessazione: nelle parole nei compagni e nei ricordi della regista, suor Lidia è una madre imperfetta, nel suo nubilato costretta come nel ruolo di maestra, un’educatrice antiquata.
“Ho cominciato a lavorare volendo raccontare gli abusi che avevo subito e di conseguenza sono partita da un forte odio nei confronti di questa figura determinante nella mia vita; poi andando avanti ho trovato la chiave dello spettacolo nel momento in cui ho abbandonato la rabbia iniziale e mi sono resa conto che era uno spettacolo che parlava di vocazioni, la mia e la sua e di come il comportamento della suora abbia influito sulla mia vita. Sono riuscita a raccontare più sfaccettature di questa suora nel momento in cui ho ritrovato la suora in me.”
Anche Fabiana Iacozzilli racconta la sua durezza e severità come regista e lo spirito materno latente, ricordando il primo spettacolo e come Suor Lidia, fino a quel momento aguzzino delle proprie vittime, l’abbia sostenuta amorevolmente. “Una cosa che mi piacerebbe che accadesse e a volte accade è che esci dallo spettacolo e ti chiedi: chi è la mia suor Lidia? Oppure: io sono la suor Lidia di qualcun altro?”
L’esperienza con il teatro di figura e il confronto e la coesione in un unico lavoro di plurimi linguaggi aprono un’interessante parentesi sullo scetticismo rispetto ad un opera incentrata sulla drammaturgia dell’immagine.
“È un anno e mezzo che lavoro con questo linguaggio e secondo me questo è uno spettacolo non di marionette, ma con marionette perché c’è tanto altro. Detto questo, la cosa che mi ha un po’ scioccata è che in Italia ci sia una così forte divisione fra il teatro e il teatro di figura. Sono rimasta interdetta. Il teatro di figura si associa troppo spesso al teatro per bambini e trovo che in Italia questo sia un limite rispetto al resto dell’Europa”.