Il Piccolo Teatro di Milano ha inaugurato il 2024 con Ho paura torero al Teatro Grassi, prima regia firmata da Claudio Longhi nelle vesti di nuovo direttore artistico del teatro. Longhi sceglie di adattare l’omonimo romanzo del poeta cileno Pedro Lemebel, trasposto per la messa in scena da Alejandro Tantanian e Lino Guanciale nel ruolo di attore e drammaturgo. Ambientato durante il fallito attentato del 1986 contro il governo militare di Pinochet, lo spettacolo esplora l’intreccio amoroso tra un anziano travestito e un giovane appartenente al Fronte di Liberazione Manuel Rodriguez. Per discutere ulteriormente di questo lavoro, parleremo con l’autore, regista e drammaturgo argentino Alejandro Tantanian.
Prima di addentrarsi nel lavoro di trasposizione del testo di Lemebel che ti ha visto protagonista, vorrei chiederti, com’è nata la collaborazione con Claudio Longhi, Lino Guanciale e il Piccolo teatro di Milano?
Ho incontrato Claudio nel 2016 in Europa, a Caen, introdotto da un collega, Manu Ansaldo. Mi aveva parlato di Claudio dicendo che sarebbe stato bello incontrarci perché saremmo diventati buoni amici. Claudio in quegli anni stava per essere nominato direttore artistico di ERT Emilia Romagna Teatro, mentre io, nel 2017, iniziavo la mia esperienza di direzione del Teatro Cervantes – Teatro Nacional Argentino.
Cercavamo di sviluppare alcuni progetti ma alla fine non riuscivamo ad andare avanti. Però ci siamo tenuti in contatto, così nel 2018 lui mi ha invitato al congresso Teatri abitatori di città a Bologna, organizzato da ERT; lì ho presentato un progetto del Teatro Cervantes, un lavoro molto intenso sul teatro latino-americano.
In quell’occasione ho incontrato Lino Guanciale, ma di lì a poco è arrivato il Covid mentre Claudio stava cercando di sviluppare uno spettacolo basato su due storie brevi di Alfred Döblin per cui mi aveva chiesto di collaborare. Così abbiamo iniziato a lavorare insieme; ne è venuto fuori uno spettacolo dal titolo Il peso del mondo delle cose, performance poi diretta da Claudio e messa in scena dopo la prima apertura.
In quella fase questo lavoro fu molto importante, avevamo paura che il teatro non ripartisse più per davvero. Io ero qui in Argentina, loro erano lì in Italia, ma avevamo costruito una sorta di famiglia, perché io scrivevo le parole che loro stavano mettendo in scena, mi mandavano alcuni video, e tutto era molto emozionante, molto affascinante, specie in un momento così delicato per il teatro.
Dopo ciò Claudio mi ha invitato nel 2021 per organizzare un laboratorio, così ho realizzato un workshop per tre mesi (a distanza), e questa è stata la mia prima esperienza con Claudio al Piccolo. Discutevamo sul fare qualcosa insieme, così all’improvviso mi ha raccontato, credo fosse all’inizio di marzo o aprile dell’anno scorso, che stavano preparando con Lino Guanciale una versione teatrale di Ho paura torero di Pedro Lemebel, che è un autore che conosco bene e amo moltissimo.
Com’è stato lavorare su questo testo e quali scelte ti sei trovato a dover fare per restituire in azione scenica la parola scritta del romanzo? In che modo avete organizzato il lavoro con Lino Guanciale?
Abbiamo sviluppato il lavoro in due o tre mesi partendo da una prima versione a cui si è aggiunta una seconda e ancora una terza, per arrivare poi alla versione “finale” che, ovviamente, è stata rimaneggiata durante il periodo di prove. Lino, naturalmente, come drammaturgo, ha fatto molte modifiche sul testo, mentre io mi sono occupato della trasposizione teatrale del romanzo.
L’idea è stata di costruire un testo che rispettasse al 100% il romanzo, senza aggiungere una sola parola che non fosse già presente in Lemebel. Lavoravo con due versioni, la versione cilena e, ovviamente, la traduzione italiana nella versione di Giuseppe Mainolfi.
Cercavamo di mantenere tutto il possibile e rimanere fedeli al testo, perché in Ho paura torero, a parte la storia che è molto affascinante, lo stile e la lingua sono elementi molto forti.
Mi convinceva molto l’idea di mantenere le parole del romanzo per la versione teatrale, e non di ricostruire i dialoghi. In questo senso abbiamo lavorato ispirandoci a Frank Castorf, o anche a Luca Ronconi nel lavoro fatto sul Pasticciaccio di Gadda.
Quindi alla base c’è stata la forte intenzione di mantenere i pensieri, il modo di pensare, il modo di raccontare di Lemebel.
Sì, per esempio anche l’uso nel romanzo della prima piuttosto che della terza persona è davvero molto interessante, perché a teatro dà, attraverso l’attore, un punto di vista ora soggettivo, ora oggettivo, come uno sguardo che cambia punto d’osservazione.
Posso essere parte della cosa, e posso anche vedere la cosa da fuori. E non è solo un esercizio per gli attori, ma è anche un esercizio per il pubblico.
Michele Dell’Utri ha sottolineato come ognuno degli attori non stesse mettendo in scena solo il personaggio, ma anche la città di Santiago, come se ci fosse una strana connessione tra ogni personaggio e la città. È presente questo tipo di operazione nel testo di Lemebel?
Santiago è chiaramente uno dei principali personaggi del romanzo. Ci sono la Fata dell’angolo, Carlos, Pinochet e sua moglie, e poi c’è la città di Santiago, che è un personaggio molto presente. Tutto ciò che i personaggi guardano attraverso le finestre delle loro case, del bus, è la città.
La decisione stessa di mantenere il testo com’era, è anche quella di mantenere Santiago come ulteriore personaggio; ciò è molto difficile da rappresentare nello spazio teatrale, costruire una città in scena non è lo stesso di dare vita ad un corpo. Ma attraverso il testo penso che Lemebel sia riuscito a tenere la città lì con te.
Anche quando i personaggi accendono la radio e ascoltano le notizie, come ad esempio nella sequenza in cui è descritto il luogo dell’attentato, il pubblico acquista la capacità di muoversi e di partecipare attivamente allo spettacolo reimmaginando la città.
La radio d’altronde è anch’essa un altro personaggio specifico, non è solo un oggetto. Ha questa strana funzione intermedia tra la storia privata di Carlos e della Fata e gli eventi che si svolgono all’esterno, in città, come un nesso che tiene insieme le due sfere del pubblico e del privato.
Ciò si spiega a partire dal fatto che è lo stesso romanzo ad alimentare il nesso tra privato e pubblico. La possibilità dell’incontro tra la Fata dell’angolo e Carlos è di per sé una relazione privata, è qualcosa che succede all’interno di una casa, ma questa relazione provocherà un determinato tipo di riflessione e di cambiamento nella realtà, nella vita pubblica della città.
Questo vale anche in riferimento alla scena finale in spiaggia, che è uno spazio molto privato e pubblico allo stesso tempo. Carlos e la Fata sono insieme in un momento molto intimo ma di contro la scena si consuma in uno spazio aperto. Questa capacità di mescolare il pubblico e il privato è un elemento molto importante anche in Lemebel.
Il romanzo di Lemebel, così come l’adattamento, intrattiene una forte relazione non solo con la città di Santiago, ma anche con il clima del golpe fallito del 1986. Quali sono le difficoltà nel mettere in scena un testo così strettamente collegato con l’atmosfera politica e sociale di quel momento? Quali sono le opportunità di portare questo testo in Italia, che ha vissuto una storia di dittatura, e in una città come Milano, che ha svolto un ruolo importante nella Resistenza.
La storia di ogni paese, almeno nella società occidentali presenta qualche somiglianza. Voi oggi avete un governo di estrema destra in Italia, e anche noi siamo governati da un’ala piuttosto bizzarra di estrema destra qui in Argentina, che ha la stessa linea politica che c’era durante gli anni del governo militare (in Argentina), naturalmente in altri modi, ma da un punto di vista economico e sociale stanno di fatto portando avanti la stessa linea.
Ovviamente non stanno uccidendo le persone – fino ad ora – e non fanno scomparire le persone come hanno fatto allora.
Penso però che politicamente il romanzo di Lemebel non parli solo attraverso Pinochet e la dittatura, né racconti unicamente il fallito golpe del 1986, ma credo tratti in primo luogo di un amore molto “strano” – strano naturalmente secondo l’idea di giusto, di sbagliato e di strano che hanno quei governi.
Ho avuto la possibilità di assistere all’ultima replica di Ho paura torero lo scorso 11 febbraio ed è stato davvero emozionante, prima di tutto essere al Piccolo – perché non ero mai stato al Piccolo a vedere uno spettacolo e nella mia educazione Strehler era quasi un dio.
Quando avevo 18 o 17 anni cercavo le VHS per guardare La tempesta o Re Lear con Tino Carraro e avevo un libro con tutte le interviste di Strehler, quindi entrare in quel teatro per me è stato uno dei momenti più affascinanti, quasi un momento sacro, perché so com’era quel posto prima del lavoro di Grassi e Strehler e come hanno trasformato quel luogo pieno di terrore in un luogo di resistenza e di costruzione di ricordi per le persone, e penso che con Claudio sia tornata quella energia, perché il Piccolo è lì per questo, per mantenere la fiamma della libertà, del pensiero libero, per un’idea di teatro del popolo.
Ed è stato davvero affascinante vedere tutto il pubblico in lacrime per questo specifico strano amore. Vedere un pubblico borghese capire e piangere per l’amore che lega un vecchio travestito ad un ragazzo giovane: è ciò che ti fa dire di poter ancora credere nella forza dell’arte, almeno per dieci secondi.
Poi magari usciranno da lì e ricominceranno a dire “a morte i froci”, ma in quei dieci secondi si apre la possibilità di aprire le menti e costruire una coscienza, e penso che per me questo sia il modo più affascinante di fare Lemebel. Perché al di là delle rivendicazioni politiche questo testo è una specie di canzone per la libertà, per una libertà che stiamo perdendo giorno dopo giorno.
Quindi storie come quella di Lemebel danno al pubblico la possibilità di un orizzonte, danno alle persone la possibilità di speranza e la possibilità di redenzione, e questo è qualcosa che oltrepassa qualunque confine. Oltre l’essere cileno, argentino, italiano, è piuttosto l’essere umani in questo mondo, in questi giorni.
Per me questa è la cosa più commovente, e nella produzione di Claudio Longhi e Lino Guanciale, e di tutti gli artisti che sono stati coinvolti, questo è fortemente presente. Lo spettacolo è felice, è pieno di vita, è una pièce vitale, piena di libertà, di umanità, di sensibilità sociale, qualcosa che stiamo perdendo.
Il personaggio della Fata si fa carico di questa vitalità. È un personaggio che sa comprendere e perdonare, anche quando viene usato. In altri momenti capisce quando deve dire no o combattere, ma in tutti questi momenti c’è un forte senso di amore per l’altro e per sé stesso.
Alla fine dello spettacolo tutti noi pensavamo che avrebbe accettato l’invito di Carlos e sarebbe fuggito a Cuba con lui. Ma quando nel leggere il testo scopri che rinuncia a partire capisci che era esattamente così che doveva finire, perché sta dimostrando un’altra volta cosa significhi amare. La Fata dell’angolo sa di dovere lasciare Carlos libero e lo fa. E questa è la più grande forma di amore.
Tutti piangevano anche a teatro durante quella scena, e per me è sempre un momento toccante anche il modo in cui è affrontato il tema della bellezza. Ciò che la Fata amava in Carlos era la giovinezza, e lei sta diventando vecchia, e la giovinezza è una forma di paradiso per lei, anche nella sola possibilità di stare lì ad ammirarla.
È lo stesso ne La morte a Venezia di Thomas Mann quando Aschenbach è in riva al mare, pieno di trucco e fa molto caldo, e il trucco cola giù mentre lui sta guardando Tadzio nel mare, e puntando al sole con lo sguardo, muore, continuando a guardare. La bellezza ha sé stessa come argomento. Se puoi toccarla è perfetta, ma se puoi condividerla è ancora più perfetta.
Ma anche il solo vederla è fondamentale: quando la Fata si lancia in quelle descrizioni su come appaiono il corpo, la faccia, il sesso di Carlos, c’è sempre e solo bellezza, non è mai osceno né sgradevole.
E per me quella scena in spiaggia in cui la Fata dice no, è come Aschenbach che, morendo, lascia la bellezza libera per gli altri. E anche un modo di capire il limite, di capire il miracolo, perché in un primo momento si ha l’impressione che Carlos si stia approfittando della Fata, ma poi anche lui se ne innamora, non di un amore propriamente fisico.
Nel romanzo anche questo confine tra passione e amore è meravigliosamente descritto: il momento in cui la passione è amore, il momento in cui l’amore non ha passione, e quindi si carica di un altro senso di umanità.
E penso che Lemebel non abbia avuto bisogno di scrivere altri romanzi perché ha scritto sì un testo molto breve ma al tempo stesso davvero incredibile, così chiaro, così facile, così comprensibile per tutti, e questa emozione, tutte queste emozioni, sono presenti nel lavoro di Claudio Longhi, anche perché Lino Guanciale ha fatto un lavoro straordinario.
È stata davvero un’ottima decisione che quel personaggio (la Fata dell’angolo) fosse interpretato da Lino, che è un attore molto popolare, bellissimo, che tutti amano, ma è anche molto intelligente nel catturare l’essenza del personaggio, ha colto tutti gli aspetti ed è diventato Fata dell’angolo restituendo al pubblico un personaggio con un cuore aperto, e questo non è così comune da vedere.
Per queste ragioni lo spettacolo è davvero toccante, e hanno fatto qualcosa di molto buono nella maniera in cui hanno preparato il pubblico attraverso tutto un ciclo di letture, conversazioni con la troupe, conferenze; penso che ogni teatro dovrebbe organizzare eventi in tutta la città, non solo nel centro, ma soprattutto nelle periferie, per portare la notizia e chiamare le persone, e se non vengono, io, noi dobbiamo andare. E lo hanno fatto mettendo in scena uno spettacolo accessibile a tutti ma di alto livello, che richiedeva intelligenza e sensibilità, e questo non è comune, perché è una performance molto esigente nei confronti del pubblico.
Pensare per altro che Lemebel parlava di travestiti e omosessuali, durante gli anni di Pinochet, fa capire quanto fosse coraggioso e forte. C’è un bellissimo documentario di Joanna Reposi Garibaldi (Lemebel, 2019) sugli ultimi dieci anni di vita di Lemebel, lo consiglio sempre perché è davvero stupendo.
Nato a Siracusa nell’ormai lontano1997. Si laurea in filosofia a Bologna per proseguire gli studi tra Milano e Parigi. La passione per scrivere e raccontare storie apre a collaborazioni con le testate giornalistiche online Frammenti Rivista, Palomar e Theatron 2.0. L’interesse per il teatro e il mondo classico lo deve interamente al meraviglioso teatro greco della sua città.