Con Ivano Picciallo, capofila della Compagnia Malmand Teatro, autore, attore e regista dello spettacolo “A Sciuqué”, vincitore della VI edizione del Roma Fringe Festival in collaborazione con i Nuovi Scalzi e di Gran Ghetto, premio della giuria dei giornalisti al Giovani Realtà di Udine, abbiamo attraversato il suo percorso artistico, a partire dalla virtuosa formazione con maestri indiscussi nel campo della Commedia Dell’Arte, analizzando le importanti tematiche sociali trattate nei suoi spettacoli fino ad arrivare a toccare le criticità presenti nel circuito teatrale in cui gli artisti e gli spazi stentano a sopravvivere. Una discussione avvincente che mette in luce la storia e le idee che guidano la poetica di un artista capace di valorizzare le tecniche e i principi teorici della tradizione in un continuo lavoro di innovazione e di ricerca dentro e fuori il palcoscenico.
Durante il tuo periodo di formazione come attore quali sono stati gli incontri artistici più rilevanti?
Quando sono arrivato a Roma ho iniziato a lavorare con Augusto Zucchi mentre facevo l’università al CTA – Centro Teatro Ateneo – che all’epoca funzionava ancora. Ho fatto un corso di formazione e perfezionamento di Commedia dell’Arte con Claudio De Maglio, oggi direttore della Nico Pepe di Udine, da lì mi sono subito addentrato in questo mondo che è quello del teatro in maschera e mi sono innamorato. Parliamo di un maestro pedagogo che mi ha aperto la visione di ciò che è il teatro, qual è la sua forza, la magia e la bellezza perché lavorando con le maschere e giocando ho capito la semplicità del gioco ma la difficoltà estrema e in un certo senso la crudeltà e la cattiveria di quel gioco in cui siamo noi a giocare con le maschere ma per giocare con quelle maschere abbiamo vissuto una crisi e siamo stati male.
Ho iniziato a studiare Commedia dell’Arte incontrando diversi maestri: sono stato in Francia da Bosio e poi ho incontrato Enrico Bonavera così mi sono fatto quello che è il mio pensiero sulla Commedia dell’Arte che al contrario di quello che si pensa è un teatro di ricerca e soprattutto non è un teatro morto. Dalla Commedia dell’Arte ho capito che la cosa che più mi interessava non era la prosa pura ma cercavo qualcosa che andasse più sul fisico e quindi ho lavorato con Giancarlo Sepe avvicinandomi al teatro sperimentale se così possiamo chiamarlo. Fino ad arrivare a lavorare in “Bestie di Scena” con Emma Dante che per me è il simbolo del Teatro Nuovo che ha stravolto tutto quello che aveva segnato il teatro del ‘900, sia per quanto riguarda il testo sia per la regia , mettendo al centro lavoro la fisicità degli attori e la crudeltà del teatro. La Commedia ha un codice mentre Emma Dante ne ha uno tutto suo però nella sua poetica c’è l’essenza del gioco cioè dove gli attori giocano a fare qualcosa e possono farsi male e possono far male agli altri ma è pur sempre un gioco e come tutti i giochi si rischia, più rischi e più diventa interessante il gioco perché c’è in palio la vittoria finale.
Della Commedia dell’Arte cos’è che ti ha affascinato? Quali sono i valori e le tecniche che come artista hai mutuato dalla tradizione?
Io credo che la Commedia dell’Arte subisca in Italia una ghettizzazione, noi abbiamo una compagnia di Commedia dell’Arte e facciamo una fatica immane a portare in giro i nostri lavori in Italia mentre giriamo il mondo avendo premi e riconoscimenti ovunque ma in Italia si fa fatica perché viene associato a un teatro di marionette o un teatro per bambini. Non è così: è un teatro puro con delle maschere.
Quello che mi ha sempre affascinato della Commedia dell’Arte e credo che sia un punto fermo del teatro tutto – non a caso tutti i grandi maestri hanno attinto Commedia dell’Arte perché c’è la completezza dell’attore – è che per fare Commedia dell’Arte devi avere un corpo pronto e quindi ti serve del training, ti serve lavorare con te stesso e su te stesso, ti serve un’emotività molto forte perché l’attore non racconta il quotidiano ma racconta fatti straordinari quasi favolistici.
Come attore per portarti dentro al mio mondo devo sapere almeno cantare e ballare perché devo affrontare tutto il lavoro coreografico con altre persone; è l’essenza pura del teatro in quanto gioco teatrale lavorando in 4 metri per 3 e sviluppando l’immaginario dell’attore in Commedia dell’Arte è essenziale la cosiddetta l’improvvisazione che in realtà è una mezza verità perché i commedianti in origine improvvisavano pochissimo perché sapevano perfettamente tutto. Ci sono dei principi fondamentali che muovono quel teatro e che, in generale, governano il mondo cioè il potere Il sesso e l’amore e sono trasversali per bambini, grandi e anziani, cattivi e buoni. Così vorrei prendere questi principi e poi portarli al mondo d’oggi perché oggi il teatro e la vita stessa sono così.
Qual è il percorso creativo che hai affrontato in “A Sciuquè”?
“A Sciuquè” è il mio primo monologo e con mio fratello, a cui era affidata tutta la parte corale che c’è ora, lo portai per la prima volta al premio Giovani Realtà di Udine dove ricevemmo una menzione speciale che fu indetta quella sera stessa perché noi non rientravamo nè nella categoria monologhi né nella categoria spettacoli essendo un lavoro un po’ ibrido. Quando lo avevo scritto avevo già in mente i quadri dall’inizio alla fine e poi abbiamo cominciato a lavorare con un gruppo di artisti che nel tempo sono cambiati.
Sono passate tante persone che mi hanno aiutato da Terry Paternoster di INTERNOENKI, Donato Paternoster e con lui c’era anche Chiara Spoletini durante la prima residenza che facemmo al Nuovo Cinema Palazzo. Diedi il canovaccio del monologo, infatti oltre al monologo non ho scritto praticamente nulla sennò una riscrittura scenica che abbiamo fatto insieme ai ragazzi durante le improvvisazioni. La cosa che mi ha fatto piacere è che tutti i ragazzi si sono innamorati del progetto e si sono fidati di me credendoci fino in fondo. Non abbiamo un vero e proprio testo scritto, molte parti sono libere però voglio che resti un ibrido perché non posso dare un testo per imparare le battute a memoria perché se no molte scene perderebbero di efficacia ma non posso nemmeno lasciare completamente gli attori liberi all’improvvisazione altrimenti degenererebbe.
Quindi restiamo sempre in questo limbo, in questo gioco rischioso dove in ogni replica si modifica sempre qualcosa anche drammaturgicamente. Poi stando dentro lo spettacolo, sebbene ce l’abbia abbastanza chiaro, riconosco la difficoltà di non poter essere fuori completamente e quindi credo ci sia bisogno sempre di migliorare ma questo adesso ce lo può dare solo il pubblico. Con Adelaide Di Bitonto, Giuseppe Innocente, Igor Pedrotto, Francesco Zaccaro della compagnia I Nuovi Scalzi abbiamo messo il punto e dobbiamo farlo e rifarlo e poi troverà da solo la sua strada.
In “A Sciuquè” parli del gioco d’azzardo e della ludopatia: come nasce l’interesse da parte tua rispetto a queste tematiche?
La ludopatia è un argomento che mi ha sempre interessato soprattutto quello delle macchinette perché quando ero ragazzino passavo tanto tempo per strada e nelle sale giochi e non capivo mai perché si giocasse alle macchinette. Poi per caso mi ha affascinato negli ultimi anni questa “vendita della fortuna” – così la chiamo io – che si fa sempre più ingombrante e che per me è una piaga sociale, un mondo che dagli anni ‘90 fino ad oggi ha avuto una crescita esponenziale: le sale slot si sono decuplicate. Ho iniziato a fare delle ricerche partendo dagli slogan “Gioca e Vinci” o “gioca con moderazione” passando tanto tempo documentandomi poi a un certo punto ho mollato tutto perché rischiavo di fare inchiesta. Il motivo che ha fatto sì che io buttassi giù il canovaccio è che poi ho incontrato una persona a me vicina che aveva avuto questo problema.
Rispetto a tutte le altre dipendenze la dipendenza dal gioco non lascia segni cioè di un gamblers, un dipendente da gioco, non ti accorgi che è malato ma in un certo momento togli il velo su qualcosa e vedi un altro mondo. Ed è quello che poi io racconto attraverso quel cambio repentino in scena cioè come una chiacchierata cambi l’idea che hai di quella persona; cambia la vita stessa di quella persona e molto spesso cambia la tua vita se sei in relazione con quella persona. Sono così tutte le storie che io ho raccolto e che hanno tutte le stesse analogie.
Scopri che la ludopatia è una piaga sociale che colpisce tutti, maggiormente gli anziani e le donne e non c’è classe sociale quindi prende il ricco come prende il povero perché dovrebbe essere un gioco e viene pubblicizzato come tale. Il problema vero è questo: c’è tanta la pubblicità che invoglia a giocare ma è minima la pubblicità che ti fa intendere il rischio che c’è dietro. Semmai se ne parla poco e si fa poca prevenzione anzi, lo Stato incassa troppi miliardi e quindi c’è un interesse malato in questa “vendita della fortuna” che rovina moltissime famiglie.
Passando da un sistema (am)malato a un altro, parliamo del sistema teatrale nostrano. Quali sono a tuo avviso i problemi che oggi imperversano in Italia?
Il problema che abbiamo in Italia con il teatro prima che istituzionale è culturale: rispetto alle altre forme d’arte il teatro ha la necessità, altrimenti non esisterebbe, di relazione fra l’artista e il pubblico. Se non ci fossero queste due componenti il teatro non potrebbe esistere.
Noi non abbiamo culturalmente l’idea del teatro come qualcosa di importante per la società. Il problema, a mio modo di vedere, è che non facciamo il teatro per il popolo ma lo facciamo un po’ per noi stessi, un po’ per qualcun altro ma non si fa più per il popolo – quando parlo di popolo, parlo di tutti noi – che non viene più considerato e invece è il primo. Anche in teatro si sono create delle classi: quindi c’è un teatro di avanguardia e di sperimentazione che viene seguito da coloro i quali hanno interesse verso quelle forme teatrali, poi c’è il teatro di prosa con il proprio pubblico così via.
Ognuno ha il proprio pubblico ma il popolo in generale del teatro non ne sa niente. Di base c’è un discorso culturale che ho visto pure stando in Francia dove c’è un’attitudine diversa, una concezione diversa del teatro. Qui in Italia a me capita raramente di incontrare qualcuno che va a teatro perché ha piacere di farlo, a parte gli abbonati. Tutti hanno un motivo forse perché li hanno invitati o perché conoscono qualcuno in scena. Nessuno va a teatro perché si è informato o perché vuole andare in quel teatro perché si fida delle proposte artistiche che fanno. A Roma ormai siamo noi attori che guardiamo altri attori: la maggior parte del pubblico è composta da addetti ai lavori.
Dal punto di vista artistico, noi in primis artisti non rischiamo: cioè una giovane compagnia adesso per fare uno spettacolo si deve abbandonare a un certo settore di teatro che decide se funziona o meno e quindi non rischia più nel portare qualcosa che vuole raccontare perché si deve ricevere il beneplacito di narrarlo. Il problema sta nel rischio perché non c’è mai nessuno che va a vedere gli spettacoli delle nuove compagnie, forse solo una volta che queste salgono alla ribalta qualcuno si interessa a loro. Non deve – non dovrebbe – essere così: si dovrebbe capire se quelle compagnie hanno qualcosa da raccontare ed aiutarle. Ormai c’è una distinzione netta tra teatro in e teatro off, e in questo momento ogni due o tre viene aperto un nuovo spazio. Meglio tenerne pochi e stringersi in una cerchia e lavorare dentro quelli. Lavoriamo tutti con amici e parenti ma non viene fidelizzato un pubblico e in un certo senso non viene educato e molto spesso non c’è un teatro che rischia nella direzione artistica.
Inoltre noi abbiamo una marea di artisti che lavorano all’estero che noi non conosciamo, perché qui in Italia non sono considerati. Il problema è che noi stessi attori, musicisti e artisti, che non siamo una categoria tutelata, non ci tuteliamo. Come possiamo pretendere che ci tutelino, come pretendiamo che la gente ci riconosca come categoria se noi continuiamo ad andare a lavorare gratis? Siamo noi attori che sbagliamo: un conto è che tutti decidiamo che nessuno guadagni andando nella stessa direzione avendo tutti lo stesso obiettivo. Invece accettando le condizioni umilianti e sottopagate cadiamo nell’errore. Poi appena vengono richieste delle cose normali come essere pagati in maniera puntuale o avere una diaria, diventa una cosa eccezionale.
Parliamo invece del tuo nuovo lavoro “Gran Ghetto” con Francesco Zaccaro a cui è stato assegnato il premio dalla giuria Giornalisti al Premio Giovani Realtà di Udine.
In Gran Ghetto tratto una tematica sociale forte che riguarda il caporalato in Sud Italia. Un’altra piaga sociale. Credo che adesso sia indispensabile per il mio percorso o semplicemente perché ho voglia di parlare di quello che noi viviamo. Vorrei raccontare ciò che viviamo tutti i giorni e per me è quello che il teatro dovrebbe fare. Non cerco di schierarmi politicamente né di denunciare ma raccontare quello che siamo e quello che stiamo vivendo e quindi accendere un faro su qualcosa.
Tematiche importanti come la politica delle migrazioni o come il gioco d’azzardo attraversano il periodo storico che viviamo quindi c’è l’obbligo di parlare di questo, non possiamo far finta di nulla. Io devo dirti il mio punto di vista sull’immigrazione e sentire la gente che cosa sa dell’immigrazione, ho la necessità e il dovere di raccontare quei fatti e magari dopo aver visto lo spettacolo, il pubblico è incentivato a studiare e ad approfondire: in fondo è una questione di conoscenza.
Quando mi chiedono il perché io parli del Sud rispondo che provenendo da quelle terre non posso parlare d’altro o di qualcosa che non conosco. Cerco di parlare di quello che conosco con cognizione di causa. So quello che sto proponendo, per questo a me piace vedere qualcosa che ha a che fare con noi, dove io mi posso riconoscere. In Gran Ghetto abbiamo raccontato una storia a modo nostro, con i colori e quei sapori della mia terra, che tratta la tematica del caporalato però non è nostra intenzione denunciare o giudicare, non è questo il nostro compito. Ho scelto di parlare del sociale perché può riavvicinare il pubblico raccontando storie ed è questo quello che a me preme adesso.
Redattore