Claudia Castellucci, oltre che autrice e interprete, è una didatta e creatrice di scuole. Nel 1988 fonda la Scuola Teatrica della Discesa presso la Casa del Bello Estremo, nel 2003 Stoa presso il Teatro Comandini di Cesena, nel 2009 Mòra, da cui è nata l’omonima compagnia che debutterà in prima assoluta il 16 ottobre presso il Teatro Piccolo Arsenale con Fisica dell’aspra comunione.
Intervistata in occasione della consegna del Leone d’Argento alla Biennale di Venezia 2020, nei giorni in cui stava concludendo la masterclass con i danzatori diplomandi della Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi, racconta come si è trasformato il suo lavoro di coreografa e didatta in trent’anni di attività.
Hai fatto della didattica un’arte, sganciandola da un concetto di causa-effetto standardizzato ed economicistico e perseguendo piuttosto una messa in discussione costante, attraverso il rapporto dialogico e lo stupore. Come sono cambiate le tue scuole negli anni?
Hai descritto sinteticamente il motivo che genera la scuola: un incontro tra persone in cui l’insegnante è una figura asimmetrica, che si mette continuamente in gioco nella dialettica con gli scolari. Ecco perché non è una scuola di tipo istituzionale: le persone stesse imprimono una fisionomia alla scuola. Ha le caratteristiche dell’arte perché ha le caratteristiche del fare. Di conseguenza, come le opere, le scuole si formano e poi finiscono.
La durata media è di cinque anni, al termine dei quali sento l’esigenza di concludere, quindi passano uno o due anni di letargo, dopodiché risorge la necessità da parte mia di dar vita ad altri incontri. Queste scuole sono molto lunghe ma distese nel tempo, ci siamo sempre incontrati un giorno alla settimana per tutti gli anni. L’incontro stesso è un ritmo che cadenza le abitudini che ognuno di noi ha. La prima è stata la Scuola Teatrica della Discesa in cui, oltre al movimento, c’era anche il canto, e vi partecipavano persone dalle provenienze più disparate: fornai, studenti, artigiani, tutti molto giovani.
Nella scuola successiva, Stoa, i partecipanti erano ancora più giovani, liceali o ai primissimi anni dell’università. Man mano che si andava avanti, le persone aumentavano. All’inizio eravamo in 8, alla fine in 33. Con loro mi sono avventurata a esplorare il ritmo e ho iniziato a capire quanto fosse importante avere un musicista all’interno della scuola, perché la musica è talmente connaturata al movimento che, a un certo punto, la si cuce su misura del ballo e viceversa. Dopo un altro periodo di letargo è sorta un’altra scuola, Calla, durata poco, due anni, perché il numero era scarso e facevo fatica, ma ha prodotto comunque dei balli.
Infine la scuola Mòra, l’ultima, durata cinque anni. Mòra ha determinato un cambio notevole nella cronologia della mia esperienza scolastica perché si è verificata una sorta di tradimento delle premesse, che ha creato una crisi in me e negli scolari stessi: io non ho mai selezionato, ha sempre funzionato l’autoselezione, ma un certo punto ho sentito la necessità di approfondire la tecnica e quindi ho dovuto chiedere a delle persone di continuare e ad altre di salutarci, perché non avrebbero potuto seguire questo tipo di approfondimento. A questo punto, non bastava più una giornata settimanale, dovevamo incontrarci più spesso incaricando le persone di prepararsi, di conseguenza è sorta la necessità di passare dalla scuola alla compagnia e quindi ad un rapporto remunerato.
Questo cambia moltissimo le cose, tant’è che ci è venuta subito la nostalgia del rapporto di studio puro, senza finalità: stiamo dunque organizzando dei seminari liberi rivolti a chiunque, per tornare al modo scolastico.
La verità è che io non riesco a creare coreografie al di fuori di questa prolungata e decantata preparazione che ho assieme agli scolari danzatori. Non riesco a formulare una coreografia a tavolino, astratta dalla relazione. La coreografia sorge dopo un lungo processo di studi liberi, dopo molto tempo trascorso insieme a provare. Dopodichè si cominciano a isolare le parti più interessanti, alcune si aggregano, altre si escludono, poi inizia il lavoro vero e proprio di coreografia.
Il 16 ottobre, presso il Teatro Piccolo Arsenale, andrà in scena in prima assoluta Fisica dell’aspra comunione, creato con la Compagnia Mòra, nata dalla omonima Scuola di movimento ritmico che si è tenuta a Cesena tra il 2016 e il 2019. Come sei approdata alla scelta del Catalogue d’Oisaux di Olivier Messiaen – una composizione per pianoforte che traduce in note il canto degli uccelli – come ispirazione musicale? Rispecchia la tua idea di danza come arte che unisce realtà e mimesi?
Negli studi per pianoforte di Messiaen, il silenzio è una sostanza musicale di primissimo piano e non di sfondo. Noi, che stavamo studiando la pausa e il rapporto che c’è tra una figura in primo piano, sostanziosa, marcata, e un’altra, quell’intercapedine vuota volevamo approfondirla e sondarla. È la prima volta che adottiamo un’opera di un musicista noto. Questa volta, non abbiamo fatto ricorso a un musicista integrato nel gruppo, a parte un fastigio sonoro finale composto dal nostro musicista Stefano Bartolini. In Messiaen ritrovo effettivamente la caratteristica che mi affascina della danza: questa partizione precisa tra finzione e realtà. La finzione è uno schema – nel caso di Messiaen, il canto degli uccelli – trascritto, copiato, imitato. Poi c’è una trasfigurazione, una metabolizzazione del suo ritmo. Non si tratta quindi di mera imitazione, ma di una trasfigurazione. La stessa cosa deve avvenire, secondo me, per i danzatori: da una parte la finzione, che è lo schema coreografico e la sua assunzione, dall’altra le decisioni reali che devono essere prese in quel momento per far sì che quello schema sia vivo, impugnato realmente, in maniera flagrante.
In questo periodo, durante la masterclass con i danzatori diplomandi della Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi, stai lavorando sul tempo e sul ritmo, approfondendo in particolare concetti come pausa, intervallo e psicologia della durata. Il blocco dovuto alla pandemia ha in qualche modo influenzato la tua percezione del tempo?
Noi, che alla Paolo Grassi ci siamo visti e abbiamo fatto un lavoro fisico, questo discorso ce lo siamo lasciato alle spalle. Paradossalmente trovo che il tempo dell’isolamento sia stato molto chiassoso. Il recupero della fisicità ci ha portato ad apprezzare molto di più il silenzio e la pausa.
In un’intervista rilasciata nel 2009 a Klpteatro, dichiari che la tua non è una scuola di formazione, ma di ricerca e in Setta sostieni che il maestro è il vero principiante, perché è quello che comincia per primo una cosa. Citando Roland Barthes: «Vi è un’età in cui s’insegna ciò che si sa; ma poi ne viene un’altra in cui s’insegna ciò che non si sa: questo si chiama cercare». Cosa stai cercando in questa fase del tuo percorso artistico?
In questa fase sto cercando una coralità che passi attraverso la solitudine, quindi una scelta paradossale di unità che si compia attraverso la consapevolezza di essere individui e di essere soli. Sarà questo l’argomento dei miei prossimi seminari. La scuola, più che fugare la solitudine, la rivela.
Nello statuto della Socìetas Raffaello Sanzio si legge “L’Associazione si propone come scopo primario di svolgere un lavoro di riflessione, elaborazione dell’arte del teatro in diretto riferimento al contesto sociale nel quale essa è inserita”: in quale contesto è nata la Socìetas, nel 1981? Cosa credi occorra all’arte in questo particolare momento storico?
Noi siamo immersi nella storia e nella cronaca, tuttavia il nostro lavoro non è né storiografico né cronachistico: la relazione con la società è di tipo consecutivo e automatico, non è propositivo. Il discorso politico diventa tale, nel nostro caso, tanto più ci si riferisce alla specificità del linguaggio teatrale, anziché direttamente alla cronaca. Altri si dirigono frontalmente verso i problemi contemporanei e non dico che questo non vada bene, dico solo che nel nostro caso la relazione con la società, con la politica e con l’etica passa sempre attraverso l’estetica.
La scuola da te teorizzata non è uno spazio di libertà fittizia. Eviti l’approssimazione e lo spontaneismo attraverso gli esercizi, passaggi parametrici immediatamente analizzabili, che obbligano alla precisione. Nelle motivazioni per la consegna del Leone d’Argento alla Biennale di Venezia 2020 vieni definita una “coreografa sobria, seria, minimalista ed esigente, che lavora con sacralità alla sua arte”. Che significato dai alla sobrietà?
Per me la sobrietà è semplicità, laddove la semplicità non è un carattere, la descrizione psicologica di uno stato d’animo, ma è uno sforzo, uno scopo da raggiungere, per quanto riguarda un’essenzialità del gesto, o dello stare, o del movimento. Abbiamo scoperto nella scuola la potenza negativa: tirare fuori la massima potenza dal minimo gesto o dalla sottrazione. La danza tiene in massimo conto il volto, ma proprio per questo, proprio perché il volto, lo sguardo, è apicale, non va assolutamente caricato. Non spetta a noi. A noi spettano le direzioni, spettano i movimenti essenziali, sintetici, decantati. Perché è da lì che passa la commozione, non da altri carichi, né tantomeno dalla parola. Noi ci siamo liberati della parola. Anche queste interviste le vivo un po’ come una contraddizione. È chiaro che la parola, quando ci incontriamo, è necessaria, ma è necessaria per liberarcene, per poterne fare a meno. Perché la danza è un pensiero reale e non verbale.