Di Alessandro Iachino
Per scrivere un curriculum, ricorda Wisława Szymborska, «è d’obbligo concisione e selezione dei fatti»: ecco che, nel sintetizzare la vicenda artistica del gruppo lacasadargilla, ormai prossimo ai vent’anni d’età, potrebbe essere sufficiente osservare le date delle produzioni, oppure quelle in cui ha ricevuto consacrazione e riconoscimenti prestigiosi. 2006, il debutto dello spettacolo che ha poi dato nome al collettivo romano; 2012, l’esperienza di Art You Lost? condivisa con Muta Imago, Santasangre, Matteo Angius; 2014, la prima edizione dello storico festival IF / Invasioni (dal) Futuro. Gli anni scorrono veloci, nello sfogliare un album le cui ultime pagine menzionano i premi Ubu vinti con When the Rain Stops Falling, con Anatomia di un suicidio, con Il Ministero della Solitudine; certo, le «cianfrusaglie del passato», come le definirebbe la poeta polacca, non potrebbero trovare traccia alcuna in un racconto che volesse essere esaustivo senza per questo risultare pedante.
La storiografia tralascerebbe forse i tempi pigri delle letture al tavolino e quelli irrilevanti della loro sedimentazione, oppure quelli non catalogabili degli incontri, delle passioni e dei ritorni di fiamma: tuttavia, mai come nel caso della compagnia formata da Lisa Ferlazzo Natoli, Alessandro Ferroni, Alice Palazzi e Maddalena Parise, è proprio nella spola del tempo, nei suoi inciampi e ritardi così come nelle sue torsioni, che sembrano situarsi non soltanto un’essenza identitaria, quanto soprattutto un metodo di lavoro ormai affinatosi, una processualità riconosciuta, negli anni, come propria e imprescindibile. Di «lavorio lento» parla Ferlazzo Natoli, in una conversazione che abbiamo avuto pochi giorni prima che Uccellini – la nuova creazione del gruppo, con drammaturgia firmata da Rosalinda Conti – fosse presentata in anteprima a Pesaro, Capitale italiana della cultura 2024: di una relazione con i testi che sembra potenzialmente interminabile, che si compone di tappe spesso impreviste o imprevedibili, di attese e appuntamenti mancati.
«Abbiamo imparato, nel rapporto con le drammaturgie, a fare ciò che non possiamo fare con la vita, che si dirige sempre verso la fine, la morte. Con i testi possiamo invece viaggiare avanti e indietro nel tempo», aggiunge, ripercorrendo i ripetuti incontri avuti con L’amore del cuore prima che prendesse forma spettacolare, o con lo stesso Uccellini. È ancora il 2015 quando lacasadargilla affronta per la prima volta il dramma scritto da Caryl Churchill, che debutterà poi solo nel 2021; ed è proprio nel 2021 che si accosta all’opera di Rosalinda Conti, la cui prima assoluta è prevista per l’ottobre di quest’anno, nell’ambito di Romaeuropa Festival. «Tocchiamo un testo, lo trattiamo, lo mettiamo in vita una prima volta – perché di questo si tratta: di vita, non di una lettura – e poi aspettiamo, ci ritorniamo sopra, verifichiamo che le condizioni siano ottimali».
Le condizioni, com’è ovvio, si identificano con sufficienti garanzie produttive o residenziali, con la possibilità che quel determinato progetto trovi cioè un terreno adeguato alla propria crescita: ma afferiscono anche a una temperatura biografica, alla consapevolezza che il tempo del teatro è cairologico e non cronologico, si compone di istanti opportuni più che di sequenze e successioni. Quel kairòs pertiene anche e soprattutto agli interpreti che incarnano le storie di vita attraversate dalla drammaturgia: appartiene cioè alle fibre di Francesco Villano o di Emiliano Masala, di Tania Garribba o di Petra Valentini, di Fortunato Leccese, di Caterina Carpio o della stessa Palazzi, intercettate – non semplicemente dirette, né soltanto scritturate – nell’istante in cui possono far risuonare ed echeggiare con nitore le voci orchestrate da Andrew Bovell, da Alice Birch, da Edward Bond, o nel momento in cui possono finanche donare le proprie parole a un testo, come nel caso della scrittura collettiva – amalgamata e resa coesa da Fabrizio Sinisi – de Il Ministero della Solitudine.
È un itinerario di conoscenza che inscrive un testo nei corpi di un ensemble attorale, e che di conseguenza trova forza e senso nelle frequenti soste, in tutti gli incroci che ciascun attore e ciascuna attrice si trova ad attraversare nel corso della propria carriera e del proprio lavoro con lacasadargilla. Difficile, se non impossibile, è perciò immaginare il John di Anatomia di un suicidio, straordinariamente reso da Francesco Villano, senza ricordare il suo Joe Ryan di When the Rain Stops Falling, e insieme a lui quel grumo di dolore che accomunava entrambi gli uomini; o la fissità dello sguardo di Tania Garribba, descritta da Birch sulla riva di un fiume insieme all’amatissima figlia, senza pensare all’attonito disarmo con cui rispondeva a una telefonata intercontinentale nel vertiginoso dramma firmato da Bovell.
Parlano tra loro, le figure protagoniste delle opere affrontate da lacasadargilla in tutti questi anni: si confidano dubbi ed entusiasmi, si consegnano posture e tic, vezzi linguistici e ombre, come se l’intertestualità – lungi dall’essere una mera chiave interpretativa di un percorso artistico – fosse soprattutto una nota di regia, un invito rivolto ad attrici e attori a farsi accrescere da una stratigrafia esistenziale, dai sedimenti che battute, gesti, intere frasi hanno lasciato dietro di sé. È un «mettere in valore un progetto dentro l’altro, come in una matrioska, ed è possibile solo concedendoci una tempo lungo», sottolinea Palazzi.
Di questa relazione d’amore – che lega il collettivo ai propri interpreti, ma rifugge il possesso esclusivo, aprendosi e arricchendosi grazie ai legami che ciascuno stringe nel corso del tempo – sono elemento necessario, e incandescente, le drammaturghe e i drammaturghi con i quali lacasadargilla ha condiviso i percorsi, intrecciando sguardi, visioni, valori. È un avvicinamento realizzato su un territorio che Alessandro Ferroni definisce «rischioso»: dove il conflitto appare potenzialmente sempre presente, ma che più spesso ha dato origine a incantamenti e legami pluriennali, destinati a durare ben oltre la sera della prima.
Edward Bond, quasi ottantenne, accolse Lisa Ferlazzo Natoli con un freddo «you’re such a primitive person», quando, in occasione del primo incontro, la vide fumare una sigaretta: eppure, i tre giorni che trascorsero insieme, discutendo e confrontandosi sulle proposte di adattamento immaginate dalla regista per il monumentale, ciclopico Lear – più di cinquanta personaggi, distribuiti su otto interpreti nella versione firmata dal gruppo romano – si sciolsero in un rapporto di stima, comprensione, fiducia. Ad accomunare il teatrante e il drammaturgo, nelle parole di Ferroni, è sempre d’altro canto un’identica ricerca, un medesimo «desiderio di conferire la forma più adatta al testo»: una quête evidente anche quando si nutre delle differenze, quando restituisce l’afflato naturalistico del Bovell di When the Rain Stops Falling in una creazione che affida solo alle parole il compito di determinare azioni, avvenimenti, luoghi, o quando mette in scena finanche le didascalie, una «bold choice» che l’autore australiano imparò ad apprezzare.

Ciò che resta invariato e comune, nella complessità di latitudini drammaturgiche toccate dalla compagnia, è l’interesse per testi che possano connettere un microcosmo familiare e intimo – quello della «puntualità di una caffettiera che borbotta», nell’efficace immagine proposta da Ferlazzo Natoli – all’universo, al mondo fuori dalla stanza che abitiamo. Riuniti intorno a un tavolo – oggetto feticcio dell’arte della compagnia romana, presente in When the Rain Stops Falling, in Uccellini, ne L’amore del cuore – i personaggi amati da lacasadargilla contemplano un mondo quotidiano e banale, in grado tuttavia (o forse proprio in virtù di questa stessa ordinarietà) di accordarsi al «brulichio al centro del pianeta». Le case edificate dal collettivo – quella voluta, e infine abbandonata, da tre generazioni di donne in Anatomia di un suicidio, o quella in cui si consuma un’attesa nel dramma di Churchill – sembrano infatti spalancarsi sull’abisso di un’alterità: spaziale, biologica, temporale.
I fantasmi del passato hanno impresso le loro ombre su muri e arredi, sulle anime dei viventi, e presenze animali o naturali incombono con i loro misteri alle porte di un ambiente separato ma ciò nonostante osmotico: ecco un uccello alto tre metri che irrompe nel salotto de L’amore del cuore, e la pioggia che batte alle finestre nel testo di Bovell. Ecco un nuovo paradigma, una diversa prospettiva, imporsi all’attenzione di personaggi e spettatori: qui, nel chiuso di un appartamento così simile a un teatro, storie e vicende lontane chiedono di essere raccontate, e infine ascoltate. La centralità che questa differenza assoluta riveste nelle vicende portate in scena da lacasadargilla è indubbiamente legata anche alla lunga frequentazione con la letteratura di fantascienza: Jeff VanderMeer, Ted Chiang, Ray Bradbury, Octavia E. Butler, tutte le autrici e gli autori affrontati nelle dieci edizioni di IF / Invasioni (dal) Futuro costituiscono così il fascinoso terreno di coltura nel quale hanno preso forma le galassie tematiche e le temperature emotive poi dispiegatesi nelle produzioni maggiori. La famiglia – «il più crudele e feroce dei luoghi» secondo Ferroni, ma anche il fondamento al quale «ci scopriamo inchiodati» nonostante le distanze, le fughe, le peripezie autobiografiche di ciascuno di noi – si rivela in questo senso, per lacasadargilla, lo spazio teatralmente più fecondo: il luogo nel quale l’eredità degli antenati e la persistenza delle memorie si manifestano con esiti sorprendenti, drammatici, finanche comici.
Non stupisce che sia soprattutto la drammaturgia angloamericana il paesaggio letterario al quale il gruppo attinge con maggiore frequenza: nella contemporaneità teatrale inglese e statunitense, studiata e vivificata da lacasadargilla, ciò che appare con evidenza è la consapevolezza della commistione di immaginari e tradizioni, di lingue, di vissuti che contraddistingue città e società, e che si riflette, spesso inconsapevolmente, nei tessuti domestici e familiari protagonisti delle vicende. Cita il Kushner di Angels in America, Ferlazzo Natoli, come esempio di un testo nel quale l’intimità di un interno famigliare è specchio delle contraddizioni esplosive di un mondo al collasso, e che si apre, non caso, con un omaggio a un’anziana donna ebrea e ai reperti polverosi di vita che la donna recava con sé:
«Because she carried the old world on her back across the ocean, in a boat, and she put it down on Grand Concourse Avenue, or in Flatbush, and she worked that earth into your bones, and you pass it to your children, this ancient, ancient culture and home. (…) But every day of your lives the miles that voyage between that place and this one you cross. Every day».
Tony Kushner, Angels in America. A Gay Fantasia on national Themes. Part One: Millenium Approaches, Theatre Communications Group, New York 2013, act one, scene one, pp. 10-11.
In questa rotta tra le epoche e le geografie, alcuni traduttori hanno rappresentato per lacasadargilla insostituibili interlocutori: invitati però ad agire accanto ai drammaturghi e in loro vece, nel desiderio che potessero costituire una loro necessaria, e preziosa, protezione alle intemperanze della regia. Tommaso Spinelli per Bond, o Margherita Mauro per Bovell e Birch, sono stati primariamente difensori degli autori, e soprattutto dell’opera della quale, per primi, si erano innamorati. Racconta Maddalena Parise le ore trascorse insieme a loro, nell’ascolto reciproco delle ragioni alla base di minime variazioni sulla punteggiatura, di modifiche alla sintassi, di sfumature o preferenze lessicali: un processo tuttavia reso possibile non soltanto da una profonda conoscenza della lingua, ma soprattutto da una passione viscerale per il testo, per quel testo. E in quest’azione di cura di un’opera, quei traduttori hanno squadernato all’attenzione dell’ensemble attorale sottotesti, criptocitazioni, riferimenti evidenti soltanto al loro sguardo e offerti come materiale necessario alla costruzione del personaggio: ecco ad esempio Margherita Mauro invitare alla lettura di Anne Sexton, o di Virginia Woolf, come correlati di Anatomia di un suicidio, così che questi nuovi testi potessero sedimentarsi nelle parole, nella prossemica, nel timbro degli interpreti, al di sotto e al di là del dettato drammaturgico.
Una «luminescenza», sostiene Ferlazzo Natoli, un chiarore che i drammaturghi disvelano nella duplice prossimità all’autore da un lato, e alla compagnia dall’altro: a ricordare, una volta ancora, di quale orizzontalità, di quale pluralità di competenze e vite, si debba nutrire un teatro non più verticistico, ma complesso e antico come un’alleanza.

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