Enzo Cosimi è uno tra i coreografi e i registi più importanti e colti del panorama artistico italiano. Coreografo ospite del Teatro Alla Scala di Milano e del Teatro Comunale di Firenze, con la sua Compagnia ha realizzato produzioni per i più prestigiosi festival e teatri nazionali e internazionali.
Negli ultimi anni ha firmato due trilogie, Sulle passioni dell’anima – dove ha preso in esame i temi della paura collettiva, del desiderio e del dolore – e Ode alla bellezza, 3 creazioni sulla diversità – con la quale ha espresso il suo impegno politico, sociale e ideologico esplorando la realtà delle persone senza fissa dimora, dell’omosessualità anziana, della transessualità.
Il suo nuovo progetto, iniziato nel 2018, Orestea – Trilogia della vendetta, ha debuttato con il primo episodio Glitter in my tears – Agamennone. Il secondo capitolo, Coefore Rock&Roll – performance version, è stato messo in scena nel 2020 a Romaeuropa Festival. La terza opera, Le lacrime dell’Eroe – installazione performativa sulle Eumenidi – ha visto la luce a novembre di quest’anno.
L’intera trilogia è stata presentata in prima nazionale nell’ambito della trentasettesima edizione di Romaeuropa Festival dove, tra una replica e l’altra, abbiamo raggiunto Enzo Cosimi per intervistarlo.
È andata in scena la trilogia dell’Orestea, nella versione integrale e completa, al Teatro India nella programmazione di Romaeuropa Festival. Quali sono le sensazioni, le suggestioni che sono emerse al termine di queste giornate?
Intanto, da un punto di vista emotivo, grande gioia perché è andata benissimo con tutte le serate sold out. Un grande ringraziamento voglio rivolgerlo a Fabrizio Grifasi (Direttore Generale e Artistico di Fondazione Romaeuropa, ndr) perché mi ha dato l’opportunità di presentare l’intera trilogia che sembrava una cosa impossibile. Mi è stata data la possibilità, come autore, di vedere nell’interezza il progetto che è iniziato nel 2019 con Agamennone.
Successivamente, nel 2020, ho lavorato alla prima versione di Coefore – quella che ho presentato in questi giorni ha un formato nuovo – e, infine, c’è stata la prima nazionale de Le lacrime dell’eroe. Il pubblico ha avuto la possibilità di vedere, di riflettere su questo progetto, una maratona che comunque ha una sua leggerezza e che si può vedere come se fosse un unico lavoro. Spero nel futuro di poterla presentare ancora nella sua totalità. Naturalmente i singoli spettacoli andranno in giro per i teatri però è un evento per me il fatto di presentare la trilogia nella sua interezza.
Vedere le tre performance insieme nella stessa serata concede allo spettatore una lettura d’insieme più ampia e profonda. Il suo obiettivo è quello di mantenere il formato unico oppure le tre opere hanno una vita propria?
Sì esatto, hanno una vita propria; per esempio Coefore è un lavoro molto eclettico. A fine settembre l’ho presentato al Pac di Milano al Padiglione di Arte Contemporanea, uno spazio museale, immersivo. Sono pezzi a sé, ognuno di essi ha una propria vita e, nello stesso tempo, la trilogia nel suo insieme, secondo me, acquisisce tutta un’altra prospettiva.
È stata importante e preziosa, in questi anni, la collaborazione con Maria Paola Zedda?
Maria Paola Zedda è una figura per me molto importante, intanto perché siamo amici e ci conosciamo da molto tempo; lei ha lavorato con me a lungo come assistente e in più è una studiosa molto raffinata, molto colta. L’ho scelta per scrivere un libro, uscito in tempi di pandemia, sul mio percorso lavorativo e sono molto fiero, molto orgoglioso di questa pubblicazione perché è venuta fuori una sorta di conversazione. Il suo titolo, infatti, è: “Una conversazione quasi angelica.10 oggetti per uso domestico” dove in maniera divulgativa si parla del mio lavoro in maniera profonda e con molta sensibilità.
Già da anni Maria Paola Zedda collabora con me nella drammaturgia dei miei lavori, a parte Agamennone i cui testi sono stati elaborati insieme ai performer. É una figura importante perché ho sempre lavorato in una dimensione teatrale, nel senso che la Danza come attrazione in sé non mi è mai interessata. Il lavoro drammaturgico lo faccio già nel momento in cui creo le mie visioni, le mie azioni performative. Con lei, soprattutto nell’elaborazione dei testi, c’è stato un grande arricchimento.
Agamennone è un lavoro intrinsecamente legato allo spirito di vendetta e alla violenza. Nella violenza c’è una forma di violenza oppure, come scriveva Sylvia Plath, “le carezze sui graffi non si sentono più”?
Certo che c’è una forma di bellezza; io utilizzo infatti la violenza come metafora, utilizzo le pratiche del sadomasochismo per guardare da un’altra parte. Il senso della vendetta, di questa febbre, infetta tutti i tre lavori. Con “Agamennone” è stato interessante perché ho voluto creare un linguaggio, una sorta di corpo unico dove il testo è molto presente, insieme con il corpo, il suono. É uno spettacolo che non concede nulla, ci sono tre corpi su uno sfondo bianco, gli altri due lavori sono molto differenti. Credo di aver creato una trilogia dove ci sono tre sguardi diversi che nascono però dalla stessa persona, in questo senso si possono compiere tre viaggi.
Agamennone ha subito un processo di crescita incredibile, è lo spettacolo che è cambiato meno rispetto a “Coefore” per esempio ed è stato metabolizzato dai tre performer dal 2019 ad oggi.
Coefore è stato concepito con la possibilità di essere rappresentato in vari modi, l’ho verificato al Pac a fine settembre, utilizzando vari spazi del museo, con una dimensione orizzontale non verticale, e devo dire che funziona perfettamente. L’ho presentato in versione performativa e poi anche in versione teatrale, frontale. La versione che ho presentato al teatro India è ulteriormente diversa, ho sfondato il teatro andando in profondità, utilizzando le dodici ragazze dell’Accademia che interpretano le Erinni. Abbiamo realizzato una sorta di installazione spettacolare, come se l’installazione entrasse in contatto con lo spettacolo frontale. Mi è piaciuto molto realizzare questa ultima versione.
L’uccisione del padre, secondo Freud, è una necessità per raggiungere l’età adulta. Facendo riferimento alla frase conclusiva de Le lacrime dell’eroe, “Le madri non muoiono mai”, lei pensa che il matricidio, metaforico o reale, possa rappresentare un suicidio del sé, un rifiuto alla propria esistenza?
Per me quella una frase molto importante non tenderei neanche ad intellettualizzare troppo il concetto. Sotto certi aspetti Oreste viene assolto da Eschilo. L’aspetto più importante di Eumenidi, e anche il gran lavoro che abbiamo fatto, è quello appunto della creazione di questa macchina dell’intelligenza artificiale. È lei che decide se è colpevole o innocente È stato Importantissimo perché nella creazione della macchina oltre a Eschilo abbiamo messo dentro moltissime esperienze di cronaca nera di matricidi, naturalmente tutto quello che esiste ed è condiviso in rete.
La macchina è un sistema che dà delle risposte a volte spiazzanti ma anche di una contemporaneità e di una bellezza disarmante, apre dei varchi di pensiero incredibili, è stata istruita bene dai due artisti che hanno lavorato alla sua programmazione.
Umberto Eco scrisse che “I social media hanno dato diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino senza danneggiare la collettività”. Quali pensa che siano gli errori della democrazia digitale?
Proprio per questo motivo abbiamo creato questo lavoro in cui ci relazioniamo con una macchina perché i social stanno prendendo troppo potere. È un discorso molto difficile perché siamo ormai completamente soggiogati da questi dispositivi digitali. Io credo che nel futuro succederà che questa situazione verrà regolamentata, anche se poi sarà difficile farlo. Si parla di applicare una quota di pagamento, ma non so fino a che punto questa cosa possa funzionare perché, per quanto il sistema sia quello di una democrazia, alla fine c’è una sorta di violenza che viene perpetrata attraverso i social. È da discutere e secondo me nei prossimi anni si continuerà a dibattere molto su queste problematiche.
“La fantasia, come la poesia, parla il linguaggio della notte”, scrive così Ursula K. Le Guin nel frammento di una riflessione riportata nel foglio di sala. Scavare nelle tenebre, per lei significa ricercare la speranza?
C’è in generale una considerazione sui miei lavori, secondo me, troppo cupa, nera; io indago, mi immergo nel nero, nell’infernale, perché mi appartiene. Cerco sempre, però, una via d’uscita, una luce. Credo che sia così in quasi tutti i miei lavori. In questo senso, dal punto di vista di come viene percepito il mio lavoro, io sono molto democratico, nel senso che io do un’impalcatura, non mi interessa mandare messaggi, quello che mi interessa è avere uno spettatore attivo che crea, elabora lo spettacolo. Ripeto sempre che i miei spettacoli non vanno capiti, ma vanno sentiti.
Non lavoro su una narrazione didascalica, lineare e neanche sull’astrazione. Produco sempre una sorta di cortocircuito tra la narrazione e l’attrazione, infatti, in questo senso disegno delle zone con un forte impatto drammaturgico e alla fine non c’è una linearità. Quello che per me è più interessante, drammaturgicamente parlando, è il fatto che si possa pensare di seguire una linea retta e, invece, a un certo punto, si cambia direzione nell’andare da un’altra parte, per poi ritornare al punto di partenza, alla linea retta.
Lo spettatore, quindi, all’inizio può rimanere anche spiazzato, ma credo che questo perdersi, per me, sia la cosa più interessante, ci si deve perdere perché il contemporaneo è cercare l’oscuro, entrare in una stanza buia, intuire qualcosa senza capirla da subito. Quando vado a vedere una mostra, da spettatore impiego un po’ di tempo prima di comprendere fino in fondo un’opera e questo perché il contemporaneo, secondo me, va sull’ignoto. La parola stessa, ormai è inflazionata: tutto ciò che non è tradizione è contemporaneo. Non è così. Nella danza poi, questa cosa è ancora più evidente: se non metto in scena il balletto, allora è contemporaneo. Non è così perché il contemporaneo è un linguaggio e soprattutto sono idee che vanno verso uno spazio nero, uno spazio che non si conosce. In questo senso il contemporaneo è quasi inattuale, se è attuale vuol dire che non è contemporaneo.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.