L’edizione 2023 di Equilibrio, Festival di Danza Contemporanea di Roma prodotto da Fondazione Musica per Roma, con la direzione artistica di Emanuele Masi, si è svolta all’insegna e nel segno della fusione, della concentrazione di diverse ramificazioni del contemporaneo. Con l’obiettivo di far incontrare e di ibridare i diversi linguaggi e le diverse discipline con le persone e i luoghi – l’Auditorium Parco della Musica, il Teatro Argentina e il Teatro Palladium – di una città sconfinata, complessa, ma sempre eterna come la Capitale.
Sono state tre le settimane di durata del Festival con undici serate, quindici coreografi con i loro rispettivi lavori, quattro prime italiane, due spettacoli per famiglie e una Notte a Teatro – residenza notturna con laboratorio per bambini e bambine dai 7 ai 12 anni – e numerosi incontri. Due sono stati i film proiettati nell’ambito della rassegna: Radix I-II-III di Cristiano Leone e Will you still love me tomorrow? di Matteo Mafesanti.
L’opening night ha visto coinvolti sette coreografi e coreografe influenti per mettere in scena i vizi capitali. Una produzione concepita e nata dall’idea di Eric Gauthier, il direttore artistico e il fondatore dell’omonima compagnia, Gauthier Dance // Dance Company Theaterhaus Stuttgard, il quale ha coinvolto i massimi esponenti della coreografia mondiale: Sidi Larbi Cherkaoui, Aszure Barton, Marcos Morau, Marco Goecke, Hofesh Shechter Sasha Waltz e Sharon Eyal. Questi sette artisti sono stati così invitati a trasformare ogni peccato – avidità, accidia, orgoglio, golosità, lussuria, ira e invidia – in una creazione coreografica.
Il 10 febbraio è andato in scena Satiri, al Teatro Palladium, la nuova produzione di Virgilio Sieni, danzatore e coreografo attivo in ambito internazionale per le massime istituzioni teatrali e musicali, fondazioni d’arte e musei. I due danzatori protagonisti, Maurizio Giunti e Jari Boldrini – su musica di Johann Sebastian Bach, eseguita al violoncello da Noemi Berrill – si scoprono e si sfidano, contemplano e sperimentano il gesto simmetrico che incontra il suo simile.
«Il danzatore getta il corpo nell’abisso del gesto dicendo sì alla vita» ha dichiarato Sieni, il suo messaggio è positivo e consapevole. Uscire dallo stato di natura non corrisponde all’implicita accettazione di una civiltà in crisi, quanto piuttosto riscoprire la forma e la dimensione di essere parte di essa mediante il gesto e la danza. L’uomo prende atto della tragedia e del dramma della sua condizione, di fronte alle leggi della natura. Non sarà questa profezia o verità rivelata, però, a condurlo allo sconforto. Supera l’angoscia, nella relazione poetica con l’altro. Ogni essere umano ridefinisce il proprio spazio e ambiente vitale attraverso la traduzione fisica della sua intima essenza. Ecco perché «La danza – sempre Sieni – si presta ancora una volta a laboratorio della vita».
Ink, di Dimitris Papaioannou è una creazione anch’essa per due uomini in scena, uno vestito in total black (Papaioannou) e uno nudo (Šuka Horn); quest’ultimo potrebbe essere a grandi linee collegato alla figura del satiro in quanto archetipo di desiderio frenetico e dionisiaco. Si manifesta fin da subito come la trasposizione di una metafora sinestetica immersa nell’inconscio che associa il dolce rumore dell’acqua e il sapore oscuro dell’inchiostro. La vista morbida di un giovane nudo (un alieno, un figlio, uno schiavo, una preda da domare?) e quella ruvida, dura di un uomo adulto (un padre, un amante, un maestro, un padrone?). Entrambi cercano di divorarsi a vicenda, di nutrirsi l’uno dell’altro.
Ink è tornato sui palcoscenici internazionali e nei teatri in una nuova versione con la musica originale di Kornilios Selamsis, con un formato più completo e un finale rimodellato rispetto alla versione del 2020.
Se all’inizio si viene a manifestare l’intenzione, il desiderio di esprimere la curiosità e, forse, la reciprocità di una relazione sociale tra due uomini, con le forme di uno schema performativo, successivamente si trasforma in un vigoroso e spettacolare duello per conquistare e abitare lo spazio. Un incontro/scontro che sprigiona una forma di (tentativo di) controllo sull’altro. In bilico tra il mantenimento degli equilibri e la complessità del dolore in cui l’inconscio fa sprofondare. Il coreografo, a rappresentanza del genere umano, pone una questione: sopravvivenza o fuga? Sembrano risuonare, tra i riflessi dell’acqua e il colore nero dell’inchiostro, le parole di Carl Gustav Jung: «Non puoi fuggire da te stesso per sempre, devi fare ritorno, riuscire ad amarti». E, subito dopo, ad amare.
E di umanità parla il coreografo francese Olivier Dubois, ad essa si rivolge con il suo poema per 18 danzatori: Tragédie, new edit. Dieci anni dopo la sua prima, questa composizione corale è stata riscritta da Dubois spingendo gli spettatori verso il “sentimento del mondo”, come recita la poesia di Carlos Drummond de Andrade. È l’immagine plastica di un’umanità in cammino e in movimento che, come il ciclo della vita, inizia, finisce e ricomincia.
In Tragédie, gli interpreti, nove donne e nove uomini nudi, entrano, avanzano, resistono, scivolano, si raddrizzano, si inginocchiano, scompaiono, riappaiono. Al suo debutto, nel 2012, al Festival di Avignone, l’opera è diventata fin da subito un manifesto, un caposaldo della Danza Contemporanea. Inequivocabili sono le parole di Olivier Dubois: «Se Tragédie parla dell’Umanità, deve interrogare l’oggi e parlare del domani». Per creare un grande collettività senza differenze e per rappresentare autenticamente gli uomini, le donne, gli spettatori di oggi. I performer vengono liberati dai ruoli di genere e la nudità viene utilizzata come costume esclusivo e originale. Sembra quasi compiersi una desessualizzazione di quei corpi che diventano poetici, politici ed artistici.E la danza ha il potere di sopravvivere quando continua ad apparire, scomparire e riapparire, nel corso degli anni.
Chiudiamo il nostro racconto del Festival con The Collection. L’opera di Alessandro Sciarroni esprime con forza il messaggio che si può concepire e vivere la Danza non solo come qualcosa di esperto o virtuoso, ma anche come un pensiero, un processo che riesce a comunicare mediante quello che potrebbe essere definito una presenza viva e specifica. Più gli artisti riescono ad aprirsi alla fragilità e più gli spettatori riusciranno a riconoscerli come esseri umani, ritrovandosi un po’ in loro.
The Collection si interroga ed esamina ciò che la ripetizione di una frase coreografica produce su sé stessa. A dieci anni dal suo debutto e dopo diverse repliche in tutto il mondo, il gruppo di undici danzatori del Ballet de l’Opérà de Lyon riprende la danza tradizionale tirolese e bavarese dello Schuhplattler che consiste nel colpire, con le mani e ritmicamente, le scarpe, i polpacci e le cosce. Gli interpreti realizzano una magia ipnotica con precisione, regolarità e coerenza. I cambiamenti sono minimi, ma per essere eseguiti con pulizia e sincerità, devono accadere ed essere ripetuti all’unisono. Man mano che il movimento progredisce, il gruppo si sintonizza nell’ascolto reciproco. I cerchi diventano linee, il dentro diventa fuori e viceversa. Di undici ne resteranno solo due a continuare quello che diventerà alla fine un curioso pas de deux. È chiaro che non è tutto scritto e deciso a tavolino, i danzatori vanno oltre, si spostano, decostruiscono e trasportano altrove il pubblico insieme con loro. Ed è questo il trasporto, il viaggio, quello che è successo nelle tre settimane del Festival Equilibrio.

Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.