Per la 60° Stagione al Teatro Greco di Siracusa torna in scena Edipo a Colono con la regia di Robert Carsen, secondo atto della Saga dei Labdacidi a cura del regista canadese che, dopo l’Edipo re del 2022 tornerà in scena nuovamente il prossimo anno con l’Antigone. Ad indossare le vesti lacere, da supplice di Edipo è anche questa volta Giuseppe Sartori, protagonista di un’interpretazione di rara sensibilità artistica. Lo abbiamo intervistato per conoscere da vicino la sfida di portare in scena un personaggio che non smette di emozionare.
È molto raro che al Teatro Greco di Siracusa un attore abbia la possibilità di interpretare lo stesso personaggio in due tragedie diverse in un lasso di tempo così breve, tanto più che abbia la possibilità di farlo condividendo l’esperienza con lo stesso regista. Com’è stato riprendere quello che avevi messo in pausa appena tre anni fa?
Mi sento da questo punto di vista molto fortunato, anche perché l’intera squadra tecnica era la stessa di tre anni fa, quindi si partiva, oltre che dalla regia ovviamente, anche degli stessi reparti di costumi, musica, luci e movimenti. Si è trattato di riprendere in mano un alfabeto che già avevamo cominciato a condividere, però con tutte le differenze del caso date dalla drammaturgia. In questo senso è stata una fortuna perché anche se in questo testo sono passati anni dagli avvenimenti dell’ultima tragedia, Edipo è un personaggio in cui il passato è sempre presente, e anche se rimane incapsulato, il dolore di allora è qualcosa che viene fuori costantemente.
Durante la prima avevo dei flashback della messa in scena di tre anni fa, e in questo senso è stata una doppia fortuna avere dei riferimenti molto concreti, vivi, di quello stesso palcoscenico. Ogni volta che devo nominare mia madre, non posso non pensare alla mia collega Maddalena Crippa e alle scene che facevamo insieme, non posso non pensare a come abbiamo messo in scena il momento in cui Edipo scopre tutto. Ogni volta che in Edipo Colono viene riproposto il ricordo di ciò che fu, non posso non rifarmi ai ricordi della nostra messa in scena di tre anni fa. Così come nelle due scene tra me e Creonte – e qua parlo a nome mio ma credo anche a nome di Paolo Mazzarelli che interpreta il personaggio di Creonte – ci portiamo un vissuto reale che da colleghi abbiamo condiviso tre anni fa e ora riproponiamo con gli stessi personaggi che hanno subito l’intervento del tempo. In qualche modo la serialità è sempre stata presente nei grandi cicli dell’antichità e quindi la fortuna di poter portare avanti lo stesso personaggio porta anche a questo vantaggio: in qualche modo adesso è diventato una piccola storia anche all’interno del percorso di un personaggio immaginario.
Relativamente al personaggio di Edipo, porti sul palco la caratteristica che da un punto di vista fisico lo contraddistingue, cioè la cecità. In questo caso qual è stato il lavoro preparatorio sull’assenza della vista e com’è stato poi andare in scena senza di essa?
Il discorso spaziale è qualcosa che da subito si riesce a superare, nel senso l’imbarazzo spaziale che la cecità provoca. Potrei fare come esempio quello di ognuno di noi a casa propria, che anche senza luci si sa muovere perché ricorda la posizione degli oggetti: in qualche modo anche in quello che poi diventa il palcoscenico il corpo memorizza lo spazio, quindi, in quel senso la cecità non diventa qualcosa di necessariamente invalidante. La vera sfida di recitare senza l’ausilio della vista è per me nella relazione con i colleghi e in quello che poi diventa tempo scenico perché non hai l’ausilio di ciò che primariamente veicola l’aspetto comunicativo, cioè lo sguardo.
Mentre dal punto di vista spaziale interviene la sapienza del corpo, invece dall’altro il vero lavoro è stato sul rapporto con l’altro che veniva a mancare, o meglio, veniva a mancare il modo che mi era conosciuto per instaurarlo. Anche a livello ritmico, di tempo, senza l’ausilio della vista un piccolo silenzio sembra un’enormità, qualcosa che normalmente tu riempi con lo sguardo o con l’intenzione che puoi far passare attraverso lo sguardo, ecco devi trovare un altro modo per farlo. Ho capito alla fine che non basta solo il ritmo, non basta solo il corpo, deve esserci sempre una mescolanza di tutti i vari fattori che fanno significare l’essere in scena.
E in questa stessa questione il riferimento al pubblico è stata una tematica che hai vissuto?
È stato molto strano non avere coscienza di chi avessi davanti; in un certo senso se ne ha comunque coscienza perché il pubblico lo senti, lo percepisci anche senza vederlo, però pensavo mi mancasse di più l’apertura verso la grandezza dello spazio. In qualche modo ne ho dovuto fare meno e mi sono limitato ad ascoltarlo.
A proposito di un’altra caratteristica centrale di questo secondo atto, Robert Carson ha parlato di una forma di santità legata al personaggio di Edipo che ormai ha fatto tesoro del dolore che sta vivendo e ha vissuto, e l’ha talmente accettato da esser pronto ad una sorta di ricongiungimento con la natura e con la morte. In che modo avete lavorato su questa caratteristica?
Questo è il lato più ancora attivo del lavoro, qualcosa che costantemente cercherò e che la direzione del mio lavoro deve cercare di avere, anche se a volte il testo va contro questa idea. Questo testo viene letto da tutti, dalla critica, da chi lo studia, proprio come questo atto, un uomo che lascia andare ogni attaccamento terreno e si libera dal fardello della vita terrena e viene assunto in un’altra dimensione, in qualche modo travalica una dimensione conosciuta. Eppure il testo a volte ti porta da tutt’altra parte perché sembra che non faccia altro che rimestare su vecchi dolori, riportarli a galla, sembra che a volte il personaggio rischi di ritornare preda dell’ira, dell’hybris che lo condannò. Il lavoro invece, con dei tagli e con una serie di accortezze, è quello di far sì, nel rispetto dell’andamento generale dello spettacolo, di provare a portare sul palco un personaggio che scena dopo scena si libera di una questione, come se la dovesse digerire e lasciare andare, come se ogni scena diventasse un gradino di questa famosa scala che lo porti a liberarsi dalle catene terrene.
Il testo a volte ripeteva molti concetti e quindi questo percorso veniva oscurato dalle tantissime ripetizioni che noi sappiamo che in antichità erano propedeutiche a ricordare costantemente allo spettatore non attento cosa fosse successo. In età moderna dobbiamo invece a volte sacrificare certe ripetizioni per far venire fuori l’azione. L’obiettivo finale è quello di essere fedeli alla linea di un personaggio che arriva in questo luogo, che capisce essere il luogo finale, la destinazione finale della sua esistenza e in cui, momento dopo momento, tutti i personaggi arrivano da lui. Non sarebbe peregrino immaginare che in qualche modo è la sua volontà a evocarli per risolvere con ognuno una questione e liberarsene. Arriva Ismene, arriva Creonte, arriva Polinice, arriva Teseo da cui ottiene l’ospitalità e di essere accolto come supplice. In qualche modo ha bisogno di risolvere con tutti, soprattutto con i membri della sua famiglia, tutte le questioni in sospeso e finalmente dire addio e andarsene.
E questo è un dato oggettivo, il personaggio principale essendo cieco limita la sua possibilità di movimento e quindi per forza di cose dovrà essere lui la forza che chiama gli altri. Vediamo un personaggio le cui battute talvolta sfiorano il confine della profezia e della conoscenza di qualcosa tramite intervento divino. È quindi un personaggio che già a volte si presenta, per quanto noi lo vogliamo mantenere molto terreno e concreto rispetto al suo percorso, con le sfumature che già appaiono appartenere a qualcosa d’altro, privato della vista ma che vede altro. D’altronde è un luogo tipico della letteratura greca, questo equilibrio tra privazione della vista e aumento di conoscenza.
Tornando alle intenzioni del testo, cosa credi che abbia da dire oggi una tragedia lontana sotto molti punti di vista dal tipo di cose che siamo abituati a vedere e dal tipo di concetti su cui siamo portati a riflettere? Cosa credi che uno spettatore porti a casa?
Non so se sono in grado di rispondere a questa domanda, però credo che in profondità questo testo è come se in qualche modo, passami il termine, insegnasse a morire. Corro il rischio di esagerare, ma in genere abbiamo sempre bisogno di vedere in scena un gladiatore che muoia al posto nostro e che provi a gettare luce su quello che aspetta e spaventa tutti noi. In qualche modo si vede qui questa esemplificazione del dolore umano, perché se qualcuno sa chi è Edipo, archetipicamente si trova di fronte all’emblema del martire, vittima di sé stesso e del destino, e che nonostante tutto ha sopportato, è riuscito a venire a patti con quello che è successo e che non si rassegna, trovando ulteriore significato con l’ultimo passo che deve compiere, che è quello della morte. Questo aspetto della morte è assolutamente presente e credo che sia questo a parlare ancora; di sicuro in questo c’erano le riflessioni di un Sofocle quasi novantenne intento anche lui a pacificarsi con la morte.

Nato a Siracusa nell’ormai lontano1997. Si laurea in filosofia a Bologna per proseguire gli studi tra Milano e Parigi. La passione per scrivere e raccontare storie apre a collaborazioni con le testate giornalistiche online Frammenti Rivista, Palomar e Theatron 2.0. L’interesse per il teatro e il mondo classico lo deve interamente al meraviglioso teatro greco della sua città.