Per Hystrio Festival è andato in scena all’Elfo Puccini di Milano Ilva football club, spettacolo nato dalla collaborazione tra la compagnia Usine Baug e i Fratelli Maniglio con Fabio Maniglio, Luca Maniglio, Ermanno Pingitore, Stefano Rocco e Claudia Russo. Liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Fulvio Colucci e Lorenzo D’Alò, Ilva football club accompagna per mano lo spettatore, con la forza didascalica di una fiaba, in una delle pagine più nere della storia italiana contemporanea.
«Questa è una storia vera» continuano a ripetere gli attori in scena, quasi a voler dare forza e veridicità ad un fatto qualsiasi. Ma che questa in particolare sia una storia vera conta poco. Perché quella a cui assistiamo si erge a simbolo di una delle migliaia di storie dell’Ilva di Taranto, come della raffineria Saras di Cagliari, del petrolchimico di Siracusa o ancora degli stabilimenti di Termini Imerese. È la storia di una lingua di terra sacrificata in nome della promessa di modernità e lavoro che, nei primi anni Sessanta, ha segnato il destino infame di molte città del Sud Italia.
È la storia privata e inevitabilmente pubblica di una di quelle famiglie che i fumi delle ciminiere li ha esalatati per tutta la vita, che all’ombra di quei cumuli grigi, per la concretezza di un posto fisso, ha rinunciato, senza esserne al corrente, al diritto alla salute.
La complessità della materia, affrontata durante tutto l’arco della pièce con l’importanza e il rispetto che merita, è mitigata in scena attraverso il filtro del racconto. In un passato sfumato, collocato all’incirca ai tempi dell’apertura dello stabilimento, una coppia di genitori racconta al figlio (sul letto di ospedale a causa di una non casuale malformazione genetica) le vicende quasi leggendarie della squadra di calcio dell’Ilva, la “Sidercalcio”. Sul campo di terra battuta del quartiere di Tamburi, che sorge proprio di fianco all’acciaieria, si consumavano le imprese degli operai-calciatori che, in un’annata indimenticabile, arrivarono a sfidare l’Inter nella semifinale della Coppa Italia.
La favola della buonanotte prende così le sembianze di un’improbabile telecronaca sportiva, e come istantanee di ricordi che riaffiorano, le cronache dello spogliatoio si traducono sulla scena in immagini. La narrazione si fa corale e i protagonisti in scena si moltiplicano nel tentativo di dare corpo e movimento agli operai, ai calciatori, ai tifosi. Luci tenui e cinque grossi ventilatori evocano, ora con l’aiuto di teli dorati, le fiamme delle ciminiere, ora con coriandoli di sacchi neri dell’immondizia, l’aria pesante e irrespirabile che avvolgeva la fabbrica, il campo, la città tutta – quell’aria che i padroni dell’acciaieria erano soliti dire che avrebbe rinforzato l’apparato respiratorio degli operai, e che invece corrispondeva in un turno di otto ore a circa seimila sigarette.
Ma il racconto di scarpini impolverati, tifosi sfegatati e goal all’ultimo minuto si offre in realtà a pretesto per lasciar entrare lo spettatore tra le mura di casa di una famiglia operaia. Sono tre fratelli (tra di loro il padre del bambino) a portare in scena i propri ricordi: il padre e la raccomandazione per un posto in fabbrica, la madre e i pranzi domenicali, il quartiere, il campo di terra battuta, la Sidercalcio, il lavoro, i morti sul lavoro, il desiderio di partire, di nuove famiglie, di figli.
L’Ilva c’è, sempre. Scandisce ogni fase e affiora nei racconti, sullo sfondo o come protagonista, radicata nella memoria come nel presente, si erge a centro nevralgico a partire da cui si innervano i vissuti singoli e collettivi. Ogni qual volta le storie dei fratelli sembrano lascarsi alle spalle lo spettro dell’acciaieria, questa riemerge, li inchioda, li costringe ad un confronto e si ricolloca al centro delle loro vite.
L’Ilva c’è anche nel profondo messaggio di accusa che questo spettacolo rappresenta. Tra i ricordi dei fratelli riaffiorano anche i sintomi dei primi operai avvelenati, i dubbi sulle condizioni lavorative, i numeri, le certezze e l’insabbiamento della verità. Gli scioperi e le minacce, una città in subbuglio. La storia delle fabbriche di morte si somigliano tutte. Sul finire della pièce, su un televisore scorrono alcuni dati, tra questi la notizia che lo scorso 13 settembre la Corte d’Assise di Appello leccese ha annullato la sentenza della Corte d’assise di Taranto che condannava gli ex vertici dello stabilimento e dell’amministrazione pubblica per il disastro ambientale che l’Ilva rappresenta – sentenza annullata perché i magistrati d’ufficio erano di origine tarantina, e quindi troppo emotivamente coinvolti nel caso.
Lo spettacolo si conclude dunque sulle note amare di una realtà desolante, sul filo di un senso di impotenza davanti all’ennesima ingiustizia perpetrata verso chi ha meno possibilità di difendersi. Ma va dato grande merito ad Ilva football club di aver portato nel giovanissimo panorama teatrale italiano un atto di denuncia radicale vestito da fiaba per tutti.
Nato a Siracusa nell’ormai lontano1997. Si laurea in filosofia a Bologna per proseguire gli studi tra Milano e Parigi. La passione per scrivere e raccontare storie apre a collaborazioni con le testate giornalistiche online Frammenti Rivista, Palomar e Theatron 2.0. L’interesse per il teatro e il mondo classico lo deve interamente al meraviglioso teatro greco della sua città.