Il tramonto di Aiace e il tormento di Fedra: Sofocle ed Euripide in scena al Teatro Greco di Siracusa

Mag 24, 2024

Per la 59° Stagione delle rappresentazioni classiche al Teatro Greco di Siracusa vanno in scena l’Aiace di Sofocle e la Fedra (Ippolito portatore di corona) di Euripide. Le due tragedie aprono il ciclo di spettacoli a cui si aggiungerà dal 13 giugno il Miles gloriosus di Plauto.

Ad inaugurare questa nuova edizione firmata INDA (Istituto Nazione del Dramma Antico) è l’Aiace, per la regia di Luca Micheletti, con Luca Micheletti, Roberto Latini, Daniele Salvo, Diana Manea, Arianna Micheletti Balbo, Tommaso Cardarelli, Michele Nani, Edoardo Siravo, Lidia Carew. 

La scena iniziale, firmata da Nicolas Bovey, restituisce nei drappi impregnati di sangue che insozzano le tende degli Achei, il massacro che si è consumato nella notte precedente. Aiace, privato dai sovrani atridi delle armi di Achille, assegnate invece a Odisseo (come premio del suo valore nella guerra di Troia), intende farsi giustizia su Agamennone e Menelao. Ma l’intervento di Atena, cara a Odisseo ed ostile ad Aiace per aver rifiutato il suo aiuto sul campo di battaglia, instilla nella mente dell’eroe il germe della follia. Traviato nel senno dalla dea, nella notte Aiace farà così strage di buoi e di capre più che di sovrani. La presa di coscienza di quanto fatto e la conseguente vergogna dinnanzi ai Greci, porrà nella mente dell’eroe la soluzione del suicidio, unica condizione per riscattare l’onore ferito

Teatro Greco di Siracusa
©  Maria Pia Ballarino

Il suicidio di Aiace è, per definizione, a noi incomprensibile. Scontiamo uno scarto valoriale che ci rende distanti dalla Cultura della vergogna, ovvero dal mondo degli eroi omerici, in cui Aiace è profondamente iscritto. Con Matteo Nucci (autore de Le lacrime degli eroi) potremmo dire; non comprendiamo le lacrime o, meglio, il dolore di Aiace – il senso di disonore verso il nome il padre, verso sé stesso, verso i marinai dell’isola di Salamina di cui è re, verso l’intero accampamento degli Achei – perché quegli eroi per noi sono distanti, tramontati. 

L’epilogo dell’Iliade e la morte di Achille di fatti determinano l’inizio del viaggio di Odisseo e segnano una cesura epocale: è il passaggio storico dal mondo omerico ad un mondo nuovo, in cui gli eroi sono, prima di tutto, i campioni della parola. L’Atene in cui Sofocle mette in scena il suo dramma, del resto, conosce bene la forza dei discorsi dei suoi nuovi eroi, di cui Odisseo rappresenta l’archetipo indiscusso. Eppure, Aiace è l’ultimo degli eroi a poter piangere e soffrire, ad assumere in modo così intransigente il peso delle sue azioni, anche se condizionate dall’ira di una dea.

Mettere in scena un materiale così ricco rappresenta una sfida tutt’altro che agevole. Nel complesso la regia fatica a restituire la profondità del gesto di Aiace, così come le implicazioni psicologiche e sociali che caratterizzano la struttura della tragedia. Le principali interpretazioni (Aiace, Odisseo, Atena, Teucro), non sembrano intrecciarsi armoniosamente nei tempi, negli stili e nelle intenzioni. Questo potrebbe essere dovuto al doppio ruolo di protagonista e regista di Luca Micheletti, che si cimenta per la prima volta in un contesto unico, sia per codici che per spazi, come il Teatro Greco di Siracusa. Anche la gestione dell’impianto visivo incorre in alcune problematicità, dall’utilizzo di scene di buio prolungate che rischiano di confondere più che convincere il pubblico, all’uso frequente dell’emiciclo e della cavea che rende difficoltosa al pubblico la fruizione di alcuni movimenti degli attori. Di contro,  gli stasimi corali dei marinai di Salamina, arricchiti dalle musiche di Giovanni Sollima e dalla presenza di una musicazione dal vivo,  contribuiscono ad amplificare  in maniera significativa l’atmosfera del Teatro Greco.

All’Aiace sofocleo segue in programmazione Euripide con il dramma di Fedra (Ippolito portatore di corona) diretto da Paul Curran, con Ilaria Genatiempo, Riccardo Livermore, Sergio Mancinelli, Gaia Aprea, Alessandra Salamida, Alessandro Albertin, Marcello Gravina, Giovanna Di Rauso.

Teatro Greco di Siracusa
©  Franca Centaro

Come nel caso dell’Aiace, anche nella Fedra il movimento drammatico scaturisce dalla tracotanza di un mortale. Ippolito figlio di Teseo re di Atene, servo devoto della dea Artemide, rifiuta e disdegna i favori di amore di Afrodite, suscitandone l’ira. Contro Fedra, moglie di Teseo, si scaglia però il desiderio di vendetta della dea, che la rende folle d’un amore incestuoso verso Ippolito che porterà in rovina il suo nome. La scenografia firmata da Gary McCann, nelle impalcature e nei ponteggi che avvolgono il palazzo reale, nonché nell’imponente volto frammentato che domina la scena, restituisce a gran voce l’immagine della rovina, della disgregazione, ora dell’io dei protagonisti, ora dell’intera casa. 

Assalita dai tormenti Fedra confessa il suo amore ad Ippolito che, rabbrividendo all’idea di un pensiero così empio, la ripudia. La consapevolezza del rifiuto e dell’onore macchiato guidano Fedra ad un desiderio di morte che chiama altra morte: si toglierà la vita, ma non prima di aver riportato nero su bianco in una lettera, il racconto di un falso stupro subito da parte di Ippolito. La lettera infamante rinvenuta da Teseo, convinto da subito delle nefandezze commesse dal figlio, porta all’esilio di Ippolito, nonché alla maledizione che ne segnerà la morte. Interverrà in scena Artemide a scagionare l’ormai esangue Ippolito, permettendo la riconciliazione con il padre e il perdono, concesso dal figlio, con l’ultimo fiato.

Perno della proposta portata avanti dal regista scozzese Paul Curran, è l’intenzione di rileggere il tormento di Fedra attraverso il filtro della psicanalisi moderna. Se alla domanda sull’origine scatenante del male a cui assistiamo in scena, Euripide sarebbe presto a rispondere con il nome della dea Afrodite, Curran cerca una causa non divina del disturbo psichico di Fedra. In altre parole, quali sono oggi le forze esterne – o interne – che potemmo attribuire alla condizione di Fedra e quali le forze che determinano gli squilibri della nostra salute mentale

Attraverso l’esibizione del dramma di Fedra e Ippolito, la domanda del regista intercetta un’intenzione antica a profonda della tragedia greca, vale a dire la messa in scena della condizione umana, degli equilibri che la regolano, delle forze che la dominano portandola ora sul palmo della mano, ora lasciandola sprofondare. Questo ingrediente, che rende da 2500 la tragedia attica un modello senza tempo, è autenticamente presente se riesce ad istillare nel pubblico il dubbio che quanto presente in scena, lo riguarda e coinvolge direttamente, favorendo un’analisi introspettiva che passa attraverso l’empatia e l’immedesimazione. Allora il teatro greco sembra ricordarci che, per comprendere qualcosa di noi stessi, bisogna saper provare empatia e immedesimarsi nel dramma dell’Altro.

Le prove attoriali degli attori coinvolti, ben affiatati tra loro, risultano mediamente convincenti, con alcuni picchi notevoli nei ruoli interpretati da Ilaria Genatiempo, Gaia Aprea e Alessandro Albertin. Il coro accompagna consapevolmente l’intreccio drammatico anche se talvolta i costumi e le movenze richiamano alla mente la cerchia di seguaci di Dioniso più che dell’austera Artemide. In ultimo, non convince la successione di immagini proiettate sul volto che domina la scenografia, sia per errori tecnici di posizionamento che per la qualità dei contenuti visivi.

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