«Il tempo è una palla che si muove in cerchio». Conversazione con Davide Enia

Set 27, 2022

Siamo abituati a pensare il tempo come una corsa lungo una linea retta, precisa come quella di un assist, ma forse il tempo non è altro che «una palla che si muove in cerchio». O così sostiene il mitico centravanti della Nazionale Paolo Rossi – el hombre del partido – che fa la sua fantasmatica apparizione in Italia-Brasile 3 a 2, spettacolo di Davide Enia tornato in scena a vent’anni dal suo debutto e a quarant’anni dalla vittoria degli Azzurri ai Mondiali di calcio dell’82. 

Dopo l’esperienza di maggio ’43 – racconto concitato del bombardamento che distrusse la città di Palermo – e de L’abisso – monologo vincitore del Premio Ubu 2019 dedicato alla tragedia contemporanea degli sbarchi a Lampedusa – , il drammaturgo, interprete e regista palermitano recupera nel suo teatro «uno di quei rarissimi momenti di felicità delle persone»: la partitissima, rivissuta minuto per minuto, si propone allora come vero e proprio evento fondante la memoria e la coscienza collettiva di un’intera generazione.

In occasione della replica al MAXXI di Roma lo scorso 23 settembre, abbiamo incontrato Davide Enia per parlare della temporalità interna alla sua produzione e della tensione tra individualità e collettività che percorre la sua opera.

Per iniziare, una domanda sull’“aggiornamento” del titolo: Italia-Brasile 3 a 2. Il ritorno  sembra rimandare al secondo momento di una sfida calcistica, ma anche al secondo atto di uno spettacolo che in questo caso ha luogo a vent’anni di distanza. Qual è il significato di rimettere in scena questo testo in un anno che rappresenta un pluri-anniversario, ma in cui si rende evidente anche la constatazione che molti dei protagonisti del racconto non ci sono più?

Ci sono diversi livelli di lettura per questa operazione di recupero dello spettacolo. Un primo movimento nasce dal mio bisogno di tornare a fare uno spettacolo felice dopo l’esperienza de L’abisso (esperienza che comunque sta proseguendo). Italia-Brasile è uno spettacolo che prende di petto una delle possibilità del teatro che troppo spesso viene dimenticata e che ne è stata causa di origine: l’elemento dionisiaco, l’ebrezza, il furore nella gioia. È uno spettacolo che rappresenta un momento di coscienza collettiva felice. È una vittoria, è l’abbandono alla potenza del sentimento: è idealmente la catarsi raggiunta tramite la felicità. 

L’altro aspetto riguarda sicuramente la coincidenza del ventennale dello spettacolo e del quarantennale del Mondiale… E poi quest’anno l’Italia non si è qualificata (sorride amaramente). Ma è soprattutto un lavoro che, secondo me, non aveva esaurito le sue possibilità. È un lavoro che continua a parlare, come certi dischi che continuiamo ad ascoltare per tutta la vita. Tuttavia, all’interno del testo c’è stato un cambiamento inevitabile, dato dall’impossibilità di tacere che alcuni dei protagonisti sono morti. È morto Paolo Rossi, è morto mio zio Beppe – già allora uno dei personaggi principali –, è morto Socrates, è morto Valdir Peres. E proprio questo cambiamento mette l’accento su un’urgenza alla quale il teatro in generale – e il mio in particolare – cercano di dare soluzione: il rapporto tra i vivi e i morti. Questo rapporto è presente in ogni mia scrittura, in ogni mia drammaturgia, in ogni momento in cui sono sul palcoscenico. E Italia-Brasile oggi mi dà una possibilità che ieri non avevo colto e che sono arrivato a comprendere tramite il percorso portato avanti con maggio ‘43 e con L’abisso: mi dà la possibilità di ritrovare i morti, di rientrare in connessione con loro, e di accettare quel misterioso contatto che esiste con chi non c’è più in carne, ma continua ad esserci in spirito. 

L’ultima considerazione riguarda il corpo: come avrebbe reagito il mio corpo nel tornare a fare uno spettacolo che – nonostante circa 860 repliche in sette anni – non mettevo in scena da dodici anni? 
E la risposta è che il corpo ricorda, scattano i meccanismi e gli automatismi: è un’immersione nella ritualità, quanto di più simile ci sia alla ripetizione delle preghiere o delle coreografie sufi. Ed è proprio la ripetizione che apre lo spiraglio da cui filtra la luce. Per me è un privilegio poter tornare a raccontare tutto questo.

In qualche modo, il tuo assistere alla partita di calcio insieme alla tua famiglia è una messa in scena dell’ “essere spettatore” rivolta a un pubblico di altri “spettatori”. Quale cortocircuito si viene a creare in questo tipo di rappresentazione?

Secondo i Veda, la realtà che percepiamo è un’oca sopra una tartaruga che sta immersa nell’acqua. La parte emersa – cioè l’oca –  è quello che noi percepiamo. Tutto il resto, sommerso in mare, ci rimane nascosto. Dove avviene esattamente lo spettacolo? Avviene sul palcoscenico – cioè, il pubblico osserva un narratore che racconta se stesso e la sua famiglia osservare una partita – o, in maniera più interessante, avviene in simultanea nell’intimità di ogni spettatore? 
Il protagonista ha otto anni, e tendenzialmente tutte le persone del pubblico li hanno avuti: questo è un primo dato sul lavoro intimo compiuto dallo spettatore. Chi ha visto la partita ricorda immediatamente il tempo e il dove della visione, così come le immagini che vado a raccontare. Coloro che non l’hanno mai vista hanno altri tipi di consonanza, che seguono la regola delle attrazioni interne allo spettacolo, la relazione tra le parole e le suggestioni narrate.

Lavorando sull’immaginario – come singolo interprete in scena insieme ai musicisti –, proviamo a evocare immagini che devono essere recuperate e ricostruite da ogni singolo spettatore.  Lo spettacolo diventa allora un’operazione di collaborazione tra me e ogni singola persona presente. E, al tempo stesso, ogni singola persona ha accanto altri esseri umani che compiono lo stesso tipo operazione. Questo crea l’idea di comunità in Italia-Brasile. Allo stesso modo in cui, attraverso lo stesso mezzo di negazione dell’immagine – che deve essere ricostruita da chi osserva –, il principio della collettività ne L’abisso è dato dal tentativo di trovare una risposta alla crisi del presente.

Il palcoscenico, tramite la mediazione artistica, è quindi uno specchio: l’immagine che viene restituita è al contempo quella della comunità e quella del singolo spettatore che riesce a osservare se stesso dentro quella comunità.

La tua narrazione è sempre corale, eppure, come dicevi, sei sempre solo sulla scena. Citando Rodolfo Di Giammarco, sul palcoscenico ti fai attraversare dalle voci e dalle vite che racconti come uno “strumento umano”, e i tuoi stessi testi sono frammenti di esperienza individuale in cui riverbera l’esperienza collettiva. Quale tipo di tensione esiste tra queste due componenti nei tuoi spettacoli?

Sono uno strumento umano, e allo stesso tempo sono una moltitudine. Rimbaud diceva «Io è un altro»: sul palcoscenico ci sono davvero con me tutte le persone di cui parlo e da cui ho ereditato frammenti di storie, persone che mi hanno regalato sguardi e attenzioni. Questo mi impedisce di affogare nell’ingorgo dell’abisso, e mi aiuta a risollevarmi ogni volta che il Brasile ci segna un gol. E poi ci sono i musicisti: per me sono un’ancora di salvezza continua.

La tensione tra le due componenti probabilmente deriva dal dialetto che mi ha formato: un dialetto che tende ad assolutizzare tutto, rendendolo ipostasi ed exemplum. Il dialetto palermitano è una lingua fortemente verticale, con una grande istanza di sacralità e di costruzione simbolica. Secondo questo processo linguistico, il bombardamento di Palermo di cui parlo non è una semplice tappa di una guerra, ma diventa Il Bombardamento, che racconta una dinamica umana in maniera assoluta. Così come Italia-Brasile diventa La Partita per antonomasia. 

Per non rischiare di essere incompleto, però, sento di dover dare anche un altro tipo di risposta: in fondo, è un qualcosa che mi viene istintivo. Credo che il romanzo tenda sempre verso due direzioni: lo smisuratamente grande o l’infinitesimamente piccolo, ma entrambe le dimensioni coincidono. Cerco di raccontare come si tira di puntazza arraggiata, il movimento che fa la palla, la gioia dei tifosi, il brivido nella pelle, il sospiro che rimane bloccato nella gabbia toracica, la speranza e la disperazione che ci sono dietro a tutto questo. C’è uno slabbramento che si astrae dal tempo, ma avviene senza che ci pensi volontariamente. 

Non mi sono mai preoccupato del fatto che Italia-Brasile rappresentasse un momento di coscienza collettiva. L’ho capito a Bologna – forse alla quinta o sesta replica – quando un ragazzo mi disse: «mi hai raccontato una storia nella quale io c’ero, l’ho vissuta anche io così». Io ho semplicemente raccontato una partita di pallone che mi ha segnato: il resto – come viene recepita – è come il movimento del pallone dopo che l’hai calciato. Puoi fare dei calcoli mentre tiri, ma ci sono anche gli altri giocatori, c’è il fattore atmosferico, c’è il campo, ci sono gli sguardi dei tifosi che a volte rischiano di deviarlo. Mi interessa la costruzione del pallone, e la dinamica del tiro. Ma fondamentalmente la palla va dove vuole andare.

I tuoi spettacoli ruotano attorno a un evento – spesso con una data precisa – che lascia un segno indelebile nella memoria e nell’immaginario collettivo. La scrittura di maggio ’43 e de L’abisso nasce proprio dalla raccolta di testimonianze di chi ha vissuto in prima persona il bombardamento su Palermo o gli sbarchi a Lampedusa. Qual è il tuo interesse drammaturgico nei confronti di questi accadimenti? 

La logica del calendario è importante nella misura in cui – nonostante non creda che il tempo sia lineare – noi accadiamo nel tempo, e l’accadimento nel tempo viene segnato dall’alternarsi del giorno e della notte. La linearità viene sconfessata continuamente dal recupero della memoria, dei ricordi, dell’aspettativa, dalla grammatica della speranza che è il futuro, e dall’intuizione di questa circolarità, che secondo me è il segno del vero esistente. 

Per quel che riguarda l’incontro con le persone, non si tratta tanto di recuperare delle informazioni legate ad eventi specifici, ma le modalità attraverso le quali questi eventi vengono raccontati. Perché sono sempre sorprendenti. Partiamo sempre con un’idea preconcetta, figlia del pregiudizio, ma se ascoltiamo le testimonianze ci rendiamo conto che il racconto del bombardamento è pieno di languore, perché chi ne parla aveva diciassette anni, che è il tempo degli innamoramenti. Ascoltando le voci di prima mano, cambia il punto di vista attraverso il quale ci si avvicina a un evento. E la prospettiva si modifica arricchendosi. Perché ognuno ha il proprio frammento, il proprio pezzo di mosaico: la polifonia, che riesce a spiegare in maniera lirica ed emotiva un accadimento, è secondo me il tentativo di restituzione più equilibrato.

Il tuo modo di fare teatro sembra rifarsi in maniera del tutto originale alla tradizione del cunto. Quanta importanza ha Palermo nella tua produzione – a livello di ispirazione, lingua, gestualità –, e in che modo pensi che questa immensa ricchezza espressiva possa essere comunicata al di fuori del contesto palermitano?

Non andavo a teatro, non ho studiato dai pupari: il cunto è qualcosa che mi sono trovato nella carne, e che modifico secondo le mie esigenze, in maniera eretica e abbastanza spudorata. Palermo è importantissima, perché è la culla e la casa dentro la quale mi sono costruito e che mi ha costruito come essere umano. La realtà è una costruzione del linguaggio, e il linguaggio che mi ha formato è un insieme di segni, cifre, parole, identità ed eredità culturali che sono quelle di Palermo. 

Nonostante abbia molti attriti con parte della mia eredità culturale – con il patriarcato della città, con l’assenza della nominazione del trauma, e con un certo tipo di logica omertosa –, riconosco che in Occidente, Palermo è una delle poche città in cui è ancora presente l’orizzonte del sacro. E nonostante la volontà di cancellarlo, il sacro resiste. 

Per quel che riguarda la trasmissibilità del significato, cerco di non mettere mai in difficoltà il lettore o lo spettatore. Penso al corpo, all’incastro delle parole, dei suoni e dei ritmi che sottendono la costruzione del senso, e mi fido del fatto che il significante preceda sempre il significato. Credo che il significato transiti in una maniera molto più profonda di quanto lo stesso vocabolario possa contemplare. La parola è un contenitore, ma a volte il sentimento o l’esperienza sborda da ciò che la castra, la limita, e allora bisogna accettarla nella sua eventuale smisuratezza.

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