Il tre è un numero primo, oltre ad essere ricorrente nella cronologia d’autore di Massimo Odierna. Nella sua drammaturgia il teatro ha una dimensione triplice. C’è l’aspetto della follia creativa, nell’esplorazione e nella rappresentazione dei meccanismi sociali e comportamentali delle persone. È presente anche una percentuale di istrionismo e teatralità partenopea che unisce diversi elementi tra loro: si gioca con la capacità espressiva, con la musica, le emozioni e le suggestioni che creano una relazione tra palcoscenico e pubblico. C’è infine una predisposizione a sviluppare ambivalenze tra i generi e i colori dell’animo umano, le alternanze tra grottesco e drammatico, il cambio da vittima a carnefice all’interno dello stesso momento teatrale.
Il 2019 è stato l’anno di Signorotte. Un testo che originariamente superava il centinaio di pagine e che completa la trilogia del disagio insieme con Toy Boy (2016) e Posso lasciare il mio spazzolino da te? (2017). La scrittura e il teatro per Massimo Odierna sono anche un atto di disobbedienza, nell’ aggiungere qualcosa alla realtà. Soprattutto quando esiste un forte senso di frustrazione e insoddisfazione a causa di regole e codici troppo rigidi. Scrivere, andare in scena e formare nuove generazioni e nuovi talenti e complementare con l’urgenza artistica che muove ogni azione.
“Collaboro – dichiara – con la realtà della scuola del Teatro dell’Orologio, sono un docente di improvvisazione e scrittura creativa, con loro c’è un dialogo aperto”. Durante il nostro incontro è emersa la sua generosità e lo slancio nel ricordare tutti gli attori con cui ha condiviso la stagione teatrale: Vera Dragone, Luca Mascolo, Alessandro Meringolo, Vincenzo D’Amato, Alessandra Fallucchi, Sara Putignano Viviana Altieri, Martina Galletta, Luca Pastore ed Elisabetta Mandalari. Alcuni di questi fanno parte, insieme con lui, di Bluteatro, la compagnia di giovani attori professionisti Under 35, di cui Massimo Odierna è socio fondatore. Dopo aver condiviso con noi il racconto, i ricordi di un frammento di carriera e di vita da palcoscenico, ci affida un piccolo e ultimo frame personale: “Sono un fan delle atmosfere anni ‘80 e ’90 – confessa- un po’ tra Ritorno al futuro e i video di Michael Jackson. C’è un po’ di quell’eccesso, quasi trash, degli anni 80. Cerco sempre di inserire un passaggio musicale, quando posso, di fare quasi dei videoclip. Momenti in cui, in maniera bizzarra e leggera, all’improvviso si balla, anche il personaggio più cattivo, perché tutti devono avere la possibilità di poterlo fare. ”
Come racconteresti la tua drammaturgia sul disagio, le suggestioni e le esperienze dal punto di vista backstage?
Disalogy è un esperimento che include tre mie drammaturgie. Dal backstage posso dire che c’è stato un insieme di fiducia e di complicità, da parte mia e degli attori che hanno preso parte a questo progetto, e anche la voglia di scoprire dove ci avrebbero condotto quelle tre bizzarre composizioni. Solitamente io propongo un testo, lo condivido con gli attori e da quel momento in poi iniziamo a lavorarci insieme. Quasi tutti sono professionisti con cui collaboro da anni, compagni di Accademia che già conoscono la mia cifra, la mia “follia”. Durante le prove si aggiusta un po’ il tiro, si cambia qualche battuta, si ragiona in gruppo anche se io sono piuttosto esigente e ho ben chiaro dove voglio arrivare. Le prove si svolgono quasi sempre in maniera serena, leggera. È normale che ci siano dei momenti, come in qualsiasi lavoro, in cui ci si confronta e ci si scontra su diversi punti di vista, ma quella follia che spesso si ritrova durante gli spettacoli è la stessa che adottiamo durante le prove.
Questo significa lavorare bene divertendoci, con serietà e con quel pizzico di originalità che io cerco sempre di restituire agli attori e al lavoro di regia. Una volta scritta una drammaturgia non appartiene più all’autore. Il regista deve possedere la capacità di saper condurre gli attori in un luogo dove coesistono il tragico, il comico, l’assurdo, il bizzarro, l’intrattenimento. Dove c’è anche una cura abbastanza maniacale del lavoro sulla circostanza. Sono regista unicamente dei miei testi. Un “cre-attore”, mi definisco così, un attore che crea dei mondi che mette in scena, dando un senso a tutto questo.
Io scrivo in un modo abbastanza compulsivo. Quando inizio qualcosa cerco sempre di lasciarmi trasportare dalle mie visioni, dai dialoghi, dalle circostanze. Mi interessano quelle storie dove c’è una sorta di incoerenza, dove i personaggi sono diversi tra loro e, a causa di un disagio comune, si incontrano, si scontrano e vanno per le loro strade. Una volta finita la stesura della drammaturgia, il mio approccio al testo avviene, non dico come se fosse il lavoro di un altro, ma con il rispetto che bisogna avere nei confronti di ciò che è stato scritto. Cerco di staccarmene, di interrogarmi insieme agli attori. Quello che mi interessa maggiormente è come e se gli attori entrano in quel mondo da me immaginato, se si fidano e se rimangono affascinati, come lo sono stato io, al punto di voler continuare quel viaggio. Questo per me è forse il risultato più bello perché io ragiono da attore. So cosa vuol dire quando un regista ti fa entrare in un determinato mondo, quando ti mette in difficoltà.
Signorotte, a differenza degli altri due, è un testo nuovo. È nato con più di 100 pagine che sono state riviste insieme a tre amiche-colleghe con cui condividiamo da anni tante esperienze teatrali. Per unire il filo: se in Posso lasciare il mio spazzolino da te ci sono tre individui che, in un certo senso, si danno un addio, in Signorotte ci sono tre amiche che si ritrovano dopo tanti anni. Agli attori lascio carta bianca, mi piace che loro possano, insieme con me, diventare ognuno autore di se stesso.
I tre testi di Disalogy sono stati scritti in altrettanti momenti diversi della tua vita?
Nelle mie storie non c’è nulla di esclusivamente autobiografico. C’è però una parte del mio vissuto e del mio modo di essere, una certa spregiudicatezza nel vivere in maniera avventurosa la vita. Mi sono chiesto spesso: “Se le cose fossero andate così, cosa sarebbe potuto succedere?”.
C’è quindi un aspetto legato un po’ al mio percorso personale ma c’è anche la creatività che porta in altri mondi e direzioni. Questioni come il grande passo nell’iniziare una relazione, andare in profondità o restare in una zona di mezzo e continuare a giocare, sono situazioni che ho attraversato anche io, però non è tanto l’aspetto biografico a essere importante. Mi interessa capire se ci sono degli elementi, dei riferimenti comuni, in quello che scrivo, come la paura, la solitudine, la bellezza del caos, il piacere fine a se stesso, l’amicizia, gli scontri, vivere anche in maniera cruda i rapporti. Cercando sempre di evitare il taglio morale e di non lasciare alcun messaggio. In ogni personaggio metto sempre una ambivalenza che gli permette di essere vittima e carnefice di se stesso. Secondo me c’è una sorta di compromesso tra gli aspetti creativi e l’esperienza personale.
I fantasmi, le maschere sono i mostri che si agitano all’esterno o quelli che vivono all’interno di ognuno di noi sotto forma di piccole o grandi ossessioni?
Il mostro è ben definito, in maniera quasi da horror movie, in Posso lasciare il mio spazzolino da te? C’è una sorta di aspetto tragicomico dell’orrore, un corpo a sé, un personaggio che entra, spaventa ed esce di scena. Quasi una parodia dell’essere mostro. In Toy boy è presente un horror vacui che la protagonista femminile cita perché è la prima ad aver paura di questo vuoto dell’esistenza. In quello che scrivo ci deve essere sempre un’inquietudine latente, dove potrebbe succedere qualsiasi cosa in qualsiasi momento. così come accade nella vita reale. In quei momenti di folle lucidità i personaggi fanno cose al di sopra delle loro possibilità. Mi piace non dare coordinate precise senza classificare i personaggi. La cosa che più mi affascina è il gioco di contrasti tra forza e debolezza.
In una tua dichiarazione hai detto che bisogna continuare a raccontare e osare raccontando. Cosa è necessario fare per usare?
Bella domanda. Vorrei poter rispondere e lanciare anche un messaggio, ma non so cosa sia necessario. Per me, forse, è continuare a raccontare delle storie. Osare vuol dire cercare di seguire lucidamente la propria follia. Non intendo la sbadataggine o il caos fine a se stesso, ma la propria creatività. Che sia un racconto, un film o un quadro. Cercare di seguire sempre la propria idea, la propria urgenza di esserci, la necessità di dichiarare se stessi. Un continuo divenire creativo che orienta il lavoro individuale. Io per ora mi limito a raccontare delle storie, interpretandole quando posso. Se è richiesto, cerco di comunicare, di lasciare qualcosa agli allievi, quando mi occupo di formazione. Seguire senza insicurezza, senza timore, la propria lucida follia: in questo io mi ritrovo anche perché quando lo faccio mi sento vivo. Sento che sto dentro a quello che devo fare. Ognuno di noi se ne accorge quando vive appieno la propria centratura, quando fa quello che sa e che vuole fare. Si sviluppa energia, vitalità, creatività a prescindere dalle conseguenze, anzi, non si dovrebbe nemmeno pensare al risultato, ma al processo.
Lo scambio di emozioni e l’esperienza di formazione con i ragazzi della scuola del teatro dell’Orologio: cosa ha significato e cosa continua a significare per te?
Ai ragazzi di cui mi sono occupato per la loro formazione ho detto che posso raccontare e cercare di dare loro quello che io sono adesso. Comunicando in maniera sincera e sana. Quando questo arriva, ritorna sempre indietro qualcosa e molto di quella pura e creativa follia dei ragazzi. Questo mi piace perché è uno scambio che avviene attraverso diversi canali e livelli. Insegnare mi aiuta a migliorare come drammaturgo e scrivere mi serve per potenziare il mio essere attore.
Che cosa ha lasciato dentro di te l’esperienza con il maestro Ronconi?
Da un punto di vista umano e professionale quello è stato un incontro che mi ha aiutato a crescere e che rimarrà per sempre dentro di me. Questo vale per me come per gli altri miei colleghi che hanno avuto la fortuna di incontrarlo nella sua ultima fase e che forse è stata quella migliore da un punto di vista umano e artistico. Dopo l’Accademia trovarsi faccia a faccia con lui in un laboratorio, sperimentare il tipo di lavoro che faceva sul testo con gli attori, il modo di spendersi, di stravolgere anche il senso comune della recitazione è stata una formazione intensa. Il mio approccio con quel linguaggio è stato facile e l’ho fatto anche con una dose di ingenuità.
Quel primo laboratorio è stato molto fortunato, tra i partecipanti il Maestro ha individuato me, Fabrizio Falco, Sara Putignano, Lucrezia Guidoni, un gruppo con cui ha voluto portare avanti e sviluppare successivamente I Sei Personaggi in cerca d’Autore. Adesso, più di prima, mi rendo conto meglio della lezione che ho ricevuto. Incontrarlo al Centro Teatrale Santacristina, essere scelto da lui come protagonista di un suo spettacolo, ha cambiato anche il mio approccio al lavoro. Il suo esempio è stata la mia lezione: la maniacalità quasi ossessiva, la generosità di un uomo che aveva problemi di salute, ma nonostante tutto era lui che sosteneva noi in classe con un’energia incredibile. Non potrò mai dimenticare la sua capacità di tenere duro, di dialogare anche con l’ultimo arrivato nello stesso modo e con la stessa attenzione con cui lo faceva con i personaggi famosi. Anche da chi aveva solo una battuta pretendeva il massimo e quando si arrabbiava desideravi stare dall’altra parte del mondo. Io però sono stato fortunato perché c’è sempre stata una grande stima reciproca.
Quattro sono stati i laboratori con lui. Al Santacristina, insieme ad altri attori, ho vissuto quel mondo, le lezioni con lui, la devozione totale nei confronti del nostro mestiere. Ronconi è stato un uomo, un Maestro che stava dentro al discorso teatrale e restituiva tutta quella energia. È stato anche una specie di padre, di guida con tutto l’amore e la passione che spendeva soprattutto nel suo centro teatrale. Lì si poteva concedere il lusso di darsi del tempo, stava in un luogo protetto senza lo stress della macchina che doveva andare avanti. Si cenava con lui, a volte stava e partecipava anche agli scherzi che facevamo tra di noi. Il debutto a Spoleto con Ronconi è stato un periodo di grande stress, ma quell’esperienza non la cambierei con nessun altra. Li ho capito l’integrità e il rigore di una personalità complessa che ha consegnato a me e ad altri del mio gruppo un bene dal valore incommensurabile. Sono quegli incontri fortunati che non decidi tu quando si manifestano e, forse per questo, sono tra i più belli che possano accadere perché ci si incontra a metà strada.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.