La cultura non isola: Il Teatro dei Venti alla Cerimonia inaugurale di Procida Capitale della Cultura 2022

Apr 22, 2022

Il motto del progetto – La cultura non isola – e l’arditezza nel proporre una piccola isola come Procida Capitale Italiana della Cultura 2022 sono due elementi che creano assonanza con l’attività della compagnia modenese Teatro dei Venti, chiamata alla realizzazione di laboratori con la comunità procidana, e di tre performance in occasione della cerimonia inaugurale tenutasi lo scorso 9 aprile.

L’evento, posticipato di qualche mese a causa del protrarsi dell’emergenza Covid, ha rappresentato un primo passo verso una ritrovata normalità con un ritorno al grande spettacolo dopo due anni di tribolazioni, ma soprattutto ha visto stabilirsi legami tra realtà distanti unite dalla forza del teatro. Un teatro, quello “dei Venti”, che dal 2005 opera in questa direzione inclusiva, sognando e realizzando progetti con la stessa visionarietà di una piccola isola che si immagina Capitale.

Così è stato prodotto Moby Dick, uno spettacolo grandioso presentato in vari Stati prima di approdare a Procida, che alla fine Capitale lo è diventata per davvero: con gli echi leggendari che ne attraversano i vicoli, e quelli letterari o cinematografici del romanzo L’isola di Arturo di Elsa Morante e del film Il postino di Massimo Troisi. 

Inseguendo ora le suggestioni dei Miti del mare e navigando tra i contrasti connaturati alla dimensione di isola, si avanzerà in questo viaggio, inaugurato, non a caso, dalla partenza di una nave. Il direttore artistico del Teatro dei Venti Stefano Tè ha raccontato l’esperienza attorno a questa giornata, ampliando lo sguardo al loro lavoro come compagnia e al senso del fare cultura oggi attraverso il teatro.

Quale percorso vi ha condotti a questo evento e che significato ha assunto per te e per il vostro teatro?

Siamo arrivati a Procida grazie a una serie di intrecci e incontri, ma anche di casualità, che ci hanno permesso di farci conoscere come una compagnia che opera negli spazi urbani e ha fatto del teatro di comunità una sorta di manifesto: la peculiarità del nostro lavoro è infatti quella di non creare un muro tra le attività di produzione e quelle formative, realizzando progetti artistici inclusivi e aperti. Soprattutto negli ultimi due anni, esso è stato portato avanti con dedizione e tenacia, ed essere giunti alla cerimonia inaugurale ha rappresentato per noi un riconoscimento importante, la riprova di aver lavorato bene.

Io sono di San Giorgio a Cremano, lo stesso paese di Massimo Troisi, e Procida è sempre stata la meta delle mie vacanze, raggiungibile in giornata, non affollata come Ischia e Capri e già meravigliosa ai tempi dei miei quindici anni. Dopo quest’esperienza, sebbene i giorni per la preparazione dell’evento siano stati intensissimi e abbia avuto la certezza di essere stato davvero lì vedendola dal traghetto mentre andavo via, posso dire che lo sguardo che avevo da turista è mutato in quello di una persona che ha vissuto l’isola, conoscendo i procidani e lavorando con loro. Penso dunque che il mestiere del teatro fatto in questa maniera, cioè evitando il passaggio repentino ma stando più tempo nei luoghi e vivendoci davvero, sia un’occasione preziosa per cambiare punto di vista, e così è realmente stato. 

Per la cerimonia inaugurale, Teatro dei Venti ha curato tre performance: Piano Sky – il pianoforte sospeso suonato da Renata Benvegnù – sulla nave che da Napoli è salpata verso l’isola, lo spettacolo Moby Dick al porto di Marina Grande e la Grande Parata per le vie di Procida. Qual è stato il percorso creativo che ha portato alla scelta e alla realizzazione degli spettacoli?

Noi, come compagnia, siamo attratti da un termine che ci sta alquanto condizionando in questo periodo, ovvero l’utopia, e dal cercare di vedere le cose da un nuovo punto di vista, spingendoci sempre un po’ più in là, oltre il limite; e l’idea di Procida Capitale è in fondo anch’essa qualcosa di utopico. La parte narrativa ha dunque tenuto conto di questa visione: i miti, le utopie, i punti di vista ribaltati e l’elevarsi verso la poesia con la metafora di un pianoforte che si solleva, per esempio; anche Moby Dick ha rappresentato l’emblema del sogno irraggiungibile che finisce col diventare incubo, e la Parata, che ha attraversato il centro di Procida, si è costruita pure attorno a questo tema, reso esplicito anche attraverso i testi elaborati dalla comunità procidana assieme agli allievi della Scuola di Teatro Iolanda Gazzerro di Modena

Con loro, infatti, ancor prima di arrivare sull’isola avevamo già immaginato questa linea narrativa, che abbiamo poi condiviso con i ragazzi di Procida creando un ponte. Benché il nostro compito sia anche quello di generare fratture, lavorando in luoghi di tensione e negatività come le carceri, nasciamo essenzialmente come arte teatrale volta a costruire legami e fare passaggi di consegna. Allora spero davvero che gli striscioni della parata vengano utilizzati in futuro e si crei una realtà culturale a Procida anche perché siamo passati noi. Questo è ciò che conta e in cui credo, più della carta d’identità dell’attore che ha fatto lo spettacolo.

Ph Antonello De Rosa

Parliamo dello spettacolo Moby Dick, Premio Ubu nel 2019 per l’allestimento scenico, col quale avete fatto varie tappe all’estero fino ad approdare a Procida. Com’è stato portarlo sull’isola e cosa c’è dietro la scelta di realizzare uno spettacolo così grandioso?

La scelta di fare uno spettacolo così ampio e complesso nasce da una necessità e da un desiderio: quello di uscire da un mercato e da un’offerta prevedibile che vede soluzioni spesso a due attori, spoglie sul piano scenico, e sempre al ribasso. Sebbene la qualità possa risultare comunque alta, mancano quelle proposte che stupiscono per il coraggio e la forza della messa in discussione. Noi siamo una piccola compagnia indipendente che partendo da trenta persone arriva anche a più di un centinaio sul territorio, ed è un impegno spesso al di là delle nostre capacità produttive ed economiche. Portare Moby Dick in tour durante la pandemia, così come è stato nei Balcani, ha rappresentato poi uno sforzo enorme, e continua a esserlo anche in condizioni apparentemente più semplici, ma per noi è appena l’inizio: capiremo infatti le sue reali potenzialità solo quando usciremo da questa paura, ricercando però sempre un accordo tra la necessità di affermare un mestiere e quella dose d’incoscienza nel praticarlo che bisogna assolutamente conservare. 

Portare lo spettacolo in un luogo significa inoltre completarlo sia in senso scenografico, sia grazie all’incontro con la comunità, e doverlo adattare nonostante l’implacabilità di una struttura che impone un certo approccio e utilizzo. Anche Procida è stata per noi una sfida, e non nego che quando ho visto il luogo di spettacolo ho pensato sarebbe stata un’impresa andare lì, in quella fetta di porto, ma alla fine, nei limiti del possibile, ci riusciamo ogni volta, alleggerendo con l’esperienza le nostre visioni. Ormai sono quasi arrivato a pensare che aleggi un po’ Melville sulle nostre teste, e che alla fine ci si salvi sempre, pur con la costante presenza del rischio.

Quali adattamenti implica la scelta di operare in spazi urbani e come è stata ripensata un’opera come Moby Dick in tal senso?

Quando ci spostiamo all’esterno non possiamo ignorare il pubblico che ha una tipologia di sguardo differente rispetto a quello che va in un teatro, per cui il linguaggio va certamente orientato. Bisogna poi considerare che subentrano altri elementi – come le auto di passaggio o i gabbiani, nel caso di Procida – che potrebbero essere considerati di disturbo; ma di fatto il disturbo sono io, che esco dal teatro e porto lo spettacolo in quella piazza rubando la panchina al signore, e sono sempre io a dover entrare in ascolto, inventando un linguaggio capace di costruire un legame. È dunque importante usare più livelli: uno è quello drammaturgico, l’altro riguarda l’effetto stupore, e qui tengo come riferimento l’immagine di un bambino che, passando per mano con mamma o papà col gelato in mano, si ferma a guardarci perché rimane incantato.

Nel caso di Moby Dick, abbiamo conservato l’incoscienza e il bisogno di evadere del personaggio di Ishmael, l’ossessione di Achab, l’equipaggio che diventa opposizione al capitano, ma anche speranza, nel finale, in quella rialzata e nello sguardo puntato all’orizzonte. Quest’ultimo elemento è una novità rispetto al romanzo, insieme al secondo livello che comprende riferimenti al circo e al teatro come rituale. Anche la musica è altrettanto necessaria, perché serve al pubblico per comprendere ancora meglio l’arcata narrativa. 

A tal proposito, credo sia importante attingere a quell’eredità che viene dalla Commedia dell’Arte e non considerare la piazza come un teatro di serie b perché non accoglie i soliti venti abbonati, ma batterci per portare qualità senza considerare al ribasso il rapporto col pubblico.

Com’è stato lavorare con gli abitanti di Procida e come hanno accolto il progetto?

Il progetto è stato accolto con entusiasmo, soprattutto da parte dei bambini che non facevano attività da molto tempo causa pandemia. Già il fatto di poter incontrare altre classi, fare attività fisica con loro, era di per sé straordinario; poi ci siamo amalgamati e messi in cordata per Moby Dick, il testo di riferimento, e dall’entusiasmo si è passati all’adesione.

Devo dire, però – e questo un po’ lo immaginavo – che oltre all’entusiasmo c’è stata una sana diffidenza, in parte conservata nonostante la bellezza e la riuscita dell’evento. A me, comunque, va bene anche questo: tutto riesce infatti a costruire un habitat dove il teatro può esistere.

Il motto di Procida Capitale Italiana della Cultura 2022 è “La cultura non isola”, concetto che può estendersi o, meglio, comprendere, anche il teatro. Cosa significa oggi fare cultura attraverso quest’arte e quali potenzialità dovrebbe sviluppare per adempiere questa missione?

Nel tempo, soprattutto negli ultimi due anni, fare teatro ha significato un impegno diverso e sempre maggiore. Viviamo in un periodo complesso in cui, non solo dobbiamo lavorare, ma lavorare per lavorare, dando spiegazioni e pretendendo di voler fare le cose in un certo modo. Io credo che adesso bisogna risalire la china, per dimostrare, a noi stessi prima di tutto, di possedere una pratica antichissima e di grande efficacia per la ricostruzione di un’identità basata sull’armonia, sfruttando anche tensioni e cortocircuiti per ricrearla. 

La nostra compagnia potrebbe tranquillamente rimanere tra i confini di un edificio, occupandosi di produzioni più semplici, ma penso sia nella nostra natura il volerci cacciare un po’ nei guai, in situazioni più scomode; allo stesso modo, potremmo evitare i laboratori e tutte quelle attività collaterali per noi fondamentali, che per i committenti costituiscono quasi un impiccio. Se non lo facciamo, è perché riteniamo importante costruire legami, essenziali affinché la cultura diventi una soluzione a monte. Siamo infatti chiamati a commuoverci quando vediamo il pianoforte o il violino in mezzo alle macerie, ma la cultura e il teatro non possono essere soltanto il sollievo a distruzione avvenuta, sebbene anche io desideri portare adesso un sorriso in quei luoghi: devono piuttosto iniziare a essere trattati come pratica di bellezza che potrebbe arrivare persino a evitare tragedie.

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