Il posto della memoria: Best Regards e Gli Anni di Marco D’Agostin

Mar 14, 2024

La questione dell’identità, fino ad allora relegata al documento che tenevamo nel portafoglio, si faceva sempre più pressante. Nessuno sapeva esattamente in cosa consistesse. In ogni caso, era qualcosa che bisognava possedere, ritrovare, conquistare, affermare, esprimere. Un bene prezioso e supremo.

(Gli Anni – Annie Ernaux)

Come si afferma un’identità? Le drammaturgie coreografiche di Marco D’Agostin sembrano infestate dalla ricerca di una risposta a questo interrogativo, in un costante lavoro di accumulazione di immagini (che non scompariranno). Best Regards e Gli Anni riflettono sul tentativo di identificarsi con delle istantanee che dialogano con i ricordi e la memoria, trasformandoli in materia performativa.

Nigel Charnock, nel suo monologo danzato di Strange Fish, sostiene che la voce abbia accusato qualche colpo attraverso le discussioni che smembrano i soggetti che parlano, ma la danza e la musica non possono essere distillate, sono testarde. Così la scrittura di Best Regards è testarda, too much, come Nigel. D’Agostin si accanisce sulla ripetizione per dare forma a un omaggio coerente al suo destinatario, un canto collettivo a cui il pubblico viene invitato, in cui la morte diventa veicolo di spazio d’espressione.

Best Regards è uno spettacolo polisemico a partire dal titolo, che parla di congedi, di lettere e di omaggi a quello che è il suo mentore Nigel Charnock, fondatore della compagnia di danza DV8, creatori di spettacoli spartiacque nella storia della danza. L’azione si apre con un monologo che fluisce senza soluzione di continuità apparente, ma in cui le parole di D’Agostin creano la cornice necessaria attraverso cui lo spettatore viene trascinato in un moto centrifugo attraente e sovraccarico.

Marco D’Agostin parla di lettere e ne cita tantissime: quelle che Calamity Jane ha scritto a sua figlia, quelle di Virginia Wolf, di Rainer Maria Rilke; gettando su tutte l’aura atemporale del mito, sono lettere che parlano di tempo e del tentativo connaturato all’epistola di sfidarlo. 

In un citatissimo passaggio di De memoria et reminiscentia, Aristotele descrive come la memoria e l’immaginazione appartengano alla stessa parte dell’anima. Marco D’Agostin, in questa sua esperimento di scrittura scenica che apre lo spettacolo, sottolinea come preferisce immaginare Calamity Jane che impara a scrivere in sella al suo cavallo per poter comunicare con la figlia, o Rainer Maria Rilke che si consegna all’eternità perché «Gli amanti non possono conoscere il declino». Ogni lettera, ci dice è un atto di fiducia verso chi la riceve, e il suo spettacolo in forma di epistola danzata raddoppia questo atto, in quanto lettera senza destinatario. 

In una lettera che mi piace immaginare potrebbe trovare posto nel flusso epistolare di D’Agostin, James Joyce scrive così a Nora Barnacle:

«Forse quel libro che ora ti mando sopravviverà a entrambi: Forse le dita di un giovane o di una fanciulla (i figli dei nostri figli) ne volteranno con reverenza le pagine di pergamena quando i due amanti le cui iniziali sono intrecciate sulla copertina saranno da tempo scomparsi da questa terra. Allora non rimarrà nulla, carissima, dei nostri poveri corpi appassionati e chi può dire dove saranno allora le anime che si guardavano a vicenda attraverso gli occhi di quei corpi?»

Cosa resta di Nigel Charnock? Forse l’immagine tracotante che prende vita e sembra voler emergere dal corpo convulso di D’Agostin, che sembra abitato dallo spirito di N. Che lo libera e finalmente, perché possa vivere e ballare. Come una prefica in scena, D’Agostin ripete un nenia che coinvolge il pubblico in un rito collettivo di liberazione.

Se il processo di “Best Regards” ricostruiva un’identità postuma, con Gli Anni (Premio Ubu 2023 come Miglior Spettacolo di Danza) D’Agostin si cimenta con una memoria terza, quella della danzatrice e amica Marta Ciappina (Premio Ubu 2023 come Miglior/Performer).

©  Michelle Davis

Il mio primo libro di Annie Ernaux, è stato un regalo di un amico, che mi ha detto che Ernaux è la quintessenza dell’esperienza, scrive grida per la salvaguardia di ogni singolo vissuto e, per questo i suoi libri, per essere colti a pieno, devono già essere passati per le mani di qualcuno che non conosciamo.

Gli Anni di Marco D’Agostin prende la forma di un’edizione tascabile, sfogliata davanti allo sguardo dello spettatore che diventa inquisitorio: cosa va in scena? Cosa c’entra questo spettacolo con gli anni? Cosa ha a che fare con un libro? 

Ad essere messo in scena è il processo del ricordo, riprodotto attraverso lo specifico filtro di Marta Ciappina. D’Agostin utilizza il bagaglio biografico della danzatrice per performare il meccanismo narrativo che caratterizza il romanzo, ma anche, come sottintende lo stesso spettacolo, de Gli Anni di Max Pezzali. 

Lo spettacolo si situa tra le pieghe tessili del materiale biografico della performer che apre lo spettacolo con una lapidaria dichiarazione: «Buonasera, sono Marta Ciappina e oggi al mercato ho comprato un limone, due limoni ». 

Il flusso della conta attraversa trasversalmente l’azione, che oscilla costantemente tra memoria collettiva e immagini autobiografiche. Se la riuscita del gioco sta nella capacità di non incepparsi nella conta dei limoni, Marta non rompe mai questo filo invisibile, seguendo un binario interrotto da frammenti iconici della sua storia: l’educazione al movimento del corpo, i rumori di un telegiornale, un’effimera dichiarazione d’amore. Un processo di ri-memorazione che diventa semiosi collettiva

Protagonisti insieme a Marta sono gli oggetti, che ricordano le buone cose di pessimo gusto di cui parla Guido Gozzano ne L’Amica di nonna Speranza: un fox terrier di ceramica, un telefono fisso giallo, uno zaino, un paio di cuffie, diventano i dispositivi con cui l’interprete in scena riattiva la propria storia in un flusso ininterrotto. A interrompere il flusso sarà la proiezione di un video di Marta bambina, che recide il flusso del ricordo in un momento sospeso, sbagliando il flusso dei limoni, quasi a sottolineare la necessità di fermarsi per ripartire. Marta adulta, in un dialogo immaginario con la sé di un tempo, ricomincia il flusso al contrario, creando un nuovo ordine, un nuovo binario della sua storia, modificata dall’attraversamento con il pubblico. Perché, come disse Paul Valery, «La memoria non ci servirebbe a nulla se fosse rigorosamente fedele».

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