«Se voglio figli o meno è un segreto che nascondo a me stessa: è il più grande segreto che nascondo a me stessa».
È sul crinale di questa domanda abissale che si muove Maternità (Sellerio, 2019), romanzo di Sheila Heti che ispira l’omonimo spettacolo di Fanny & Alexander – scritto e interpretato da Chiara Lagani e diretto da Luigi De Angelis –, andato in scena all’Angelo Mai il 13 e il 14 aprile.
A partire da interrogativi radicali e insolubili sul proprio desiderio – districandosi tra gli imperativi imposti culturalmente e quelli dettati dalla propria biologia – che la scrittrice canadese si affida alla divinazione e alla consultazione dell’I Ching: ogni lancio di monete offre una risposta affermativa o negativa, conducendo così la narrazione in una direzione inedita e imprevista, in un serrato confronto con il Caso che giunge a configurarsi come una lunga sessione di autoanalisi.
Lo sforzo di Chiara Lagani è quello di trasformare il monologo interiore che appartiene alla dimensione della scrittura in una forma di dialogo con il pubblico, che è chiamato a sviscerare in termini politici, sociali e psicologici questioni quali le responsabilità connesse alla maternità, l’omogenitorialità, il diritto all’aborto, la gestazione per altri (definita, proprio il giorno prima della replica romana, “pratica disumana” dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni).
La riflessione si allarga dunque per divenire comunitaria: gli spettatori – talvolta abbagliati dal riflesso di uno specchio per essere interpellati singolarmente – sono invitati a esporsi tramite una scelta, che può essere compiuta, in un brevissimo arco di tempo, grazie all’utilizzo di un piccolo telecomando fornito a inizio spettacolo: «I figli si hanno o si fanno?». «Siamo troppi o troppo pochi su questa Terra?». «Mi sarà e vi sarà utile questo spettacolo?».
La pièce – esattamente come il romanzo – procede quindi per scossoni: la risposta che ottiene una base maggioritaria permette di dischiudere soltanto alcuni dei futuri possibili immaginabili per la protagonista e, più concretamente, solo alcune delle soluzioni drammaturgiche ipotizzate per l’interprete, precludendo l’attualizzazione di tutte le altre.
I grafici che – a ogni quesito – vengono a costruirsi sullo schermo sospeso sul palcoscenico riconducono la portata della scelta a una connotazione pienamente umana, assembleare, quasi referendaria, permettendo di abbozzare una “geografia sociale” delle platee, la cui composizione e la cui predisposizione a confrontarsi con i nodi cruciali dello spettacolo varia consistentemente a seconda dello spazio in cui viene messo in scena.
Il gioco teatrale – la cui dimensione ludica è accentuata dalla fruizione dei dispositivi elettronici – diviene progressivamente più inquietante e ambivalente se si considera che una “tribuna” di molti detiene letteralmente il potere di scegliere il destino della donna che ha di fronte, eterodirigendo le sue azioni, fino a irrompere nell’intimità della sua carne («Sono fertile oppure ho cellule pre-cancerose?»).
In questa sorta di processo allestito, l’attrice domanda al pubblico quale ruolo le pertenga: «Imputata, giudice o testimone?».
«C’è bisogno di tensione per creare qualcosa: come la sabbia dentro la perla – scrive Sheila Heti –. (…) Sono cose buone e mi costringono a vivere con integrità, a mettere in discussione ciò che è importante per me, e quindi a vivere davvero il senso della mia vita, invece che affidarmi alle convenzioni».
Chiara Lagani sembra allora radicalizzare la tematica dell’autodeterminazione in termini di autoconsapevolezza e responsabilità collettive, rendendo evidente – attraverso la dinamica scenica proposta – che non può esserci libera scelta sull’essere madri o sul non esserlo, sul portare avanti una gravidanza o sull’interromperla, senza che quella libertà venga tutelata materialmente, tramite un discorso politico che garantisca il riconoscimento giuridico dei diritti, oltre che sussidi economici adeguati e l’accesso a servizi sanitari sicuri.
«L’universo perdona le donne che fanno arte e non fanno bambini?» è una delle domande poste nel testo di Sheila Heti che apre alla tematizzazione della dicotomia platonica tra generazione secondo il corpo e generazione secondo l’anima: «del pensiero e ogni altra virtù» sono infatti «generatori tutti i poeti e quanti degli artisti sono detti inventori». Nel passaggio dalla scrittura al palcoscenico, è la stessa Chiara Lagani a ricordare – nel dibattito con Rosella Postorino – che nel teatro si rende possibile l’esperienza dell’«essere due», in una sorta di gestazione fantasmatica per la quale ci si accompagna sempre al proprio personaggio concepito per la scena. Risuonano così ancora una volta, assumendo un nuovo grado di serietà e problematicità, le parole con le quali l’attrice apre la pièce, e alle quali dobbiamo decidere se prestare fede o meno: «Mi chiamo Sheila Heti, ho quarantotto anni e sono incinta».
Nasce a Brescia nel 1994. Dopo un periodo trascorso a Monaco di Baviera, si laurea in Scienze Filosofiche all’Università di Padova, approfondendo il pensiero estetico di Adorno. Si diploma al Master in Critica giornalista presso l’Accademia Silvio D’Amico di Roma con una tesi dedicata al teatro di Pasolini nella visione di Antonio Latella. Attualmente scrive di teatro, cinema e letteratura sulle riviste online Tre Sequenze e Bookciak Magazine.