Il regista e attore a colloquio con lo studioso Gerardo Guccini sul commediografo veneziano
La doppiezza dell’essere umano e l’ambivalenza della sua stessa esistenza, in cui si mescolano frivolezza e tragedia: è il teatro di Carlo Goldoni e lo spettacolo I due gemelli veneziani che il regista Valter Malosti ha portato in scena inaugurando la Stagione di Ravenna Teatro all’Alighieri, è stata anche un’occasione per ripensare e approfondire l’attualità della sua opera. Così, sabato 12 novembre, il Ridotto del Teatro Alighieri ha ospitato Malosti a colloquio con Gerardo Guccini, docente di drammaturgia e tecniche della composizione drammatica all’Università di Bologna. Una conversazione che si è alimentata sui temi della ricerca linguistica, del rapporto fra gli attori e lo spazio scenico e di Goldoni con i suoi attori, ma anche su Goldoni quale prototipo del regista come già intuito da Strehler nei Memoires.
Scritta e rappresentata nel 1747 a Pisa, con Cesare D’Arbes interprete dei due gemelli, Zanetto (lo sciocco) e Tonino (lo scaltro), l’opera rappresentava da tempo una sfida per il regista che, insieme ad Angelo Dematté ne ha affrontato l’analisi e l’adattamento a partire proprio dalla lingua italiana e dal dialetto veneziano. Contrapponendo il veneziano terso di Zanetto con quello più gergale di Tonino, infatti, è evidente come il dualismo dei due personaggi si radichi già a partire dall’elemento linguistico. Un aspetto condiviso anche da Piermario Vescovo, drammaturgo e curatore dell’opera edita da Marsilio. Nondimeno, aggiunge Malosti, è notevole l’abilità di Goldoni nel riuscire a costruire una lingua “pulita” su personaggi legati, come Zanetto, ma soprattutto come Arlecchino, ai bisogni primari e a una vivace sensualità che sconfina nel procace.
Ed è sempre facendo riferimento alla lunga e meticolosa ricerca sulla lingua e sugli scritti del commediografo, che Malosti ha raccontato di aver realizzato una riscrittura che ha ricucito sul testo goldoniano altre parti di testo più improvvisate, dirette, prese dai suoi lavori per musica e dagli Intermezzi, che hanno riguardato soprattutto i personaggi femminili. Il realismo di Goldoni, la sua concretezza, è evidente. Lo era il suo linguaggio e lo erano anche le vicende raccontate, spesso ispirate alle vite reali dei suoi attori e attrici e alle loro peripezie sentimentali. Spesso scriveva su misura per loro, che occupavano un posto fondamentale nel suo teatro e “questo rapporto stretto e viscerale del drammaturgo con gli attori è un aspetto fondante del teatro stesso senza il quale il testo da solo, è roba morta”.
Ma l’esperienza di portare in scena Goldoni ha significato soprattutto affrontare l’autore che ha innovato il teatro facendo recitare gli attori senza indossare la maschera, in un’opera del periodo in cui tutto questo non era ancora avvenuto. Una fase di transizione dove gli equilibri tra l’io e il suo doppio sono forse più delicati ma Goldoni riesce con questo pastiche a far coabitare gli opposti e “a mostrare, come faceva Euripide, un mondo complesso, pieno di chiaroscuri”.
Si pensi all’audacia, ad esempio, di realizzare una commedia con la morte finale di uno dei due protagonisti, impensabile per le commedie dell’epoca, ma lui lo fa, in un continuo bilanciamento di elementi drammatici ed altri briosi, che danno movimento alla vicenda e la alleggeriscono, smorzando il senso di tragedia che rimane però palpabile e che nella riscrittura di Malosti è accentuato dalle sonorità cupe di Wagner e dall’inquietante figura di Pulcinella, inserita nella scena d’apertura del funerale. La maschera qui rappresenta il ponte tra la vita e la morte, il trait d’union tra commedia e tragedia.
La stessa morte, presente nella vicenda, nelle scene dell’assalto alla diligenza in cui muore la madre dei due gemelli e della morte di Zanetto, si tinge di ambivalenza: è drammatica e violenta la prima, grottesca la seconda. La morte di Zanetto non suscita commozione, nessun pathos nello spettatore, nessuna identificazione con il suo personaggio, troppo strampalato e sciocco. Ecco allora, dice Malosti, richiamando Samuel Beckett, che “si ride del dolore”.
“Goldoni non è tra i miei autori preferiti, mi sembrava troppo letterario. Poi, leggendo Memories, la raccolta di sceneggiature di Giorgo Strehler per una serie televisiva sulla vita di Goldoni commissionatagli dalla Rai alla fine degli anni ’60 e mai realizzata, ho scoperto un autore diverso, molto in anticipo sui tempi, soprattutto per la sua scrittura scenica. Un aspetto che Strehler aveva già compreso e che emerge anche dagli scritti e contratti vari ritrovati negli ultimi 20 anni, in cui l’autore veneziano ha spesso il compito di concertatore, una sorta di regista ante litteram”.
Infine lo spazio scenico: cupo, massiccio, imponente, “tipico della tragedia ma molto funzionale anche per la commedia”. Uno spazio materico, contrapposto al ritmo veloce e leggero della narrazione. Ma per gli attori, ha spiegato il regista, lo spazio era stato creato volutamente “scomodo”, senza sedie o possibilità di appoggiarsi durante le scene. “Proprio come gli attori di Goldoni erano per lo più per lo più acrobati e quindi abituati alla fatica e ad ore estenuanti di allentamento, così ho voluto creare uno spazio scenico dove potesse essere esperita questa fatica. Un’esperienza che doveva mettere a dura prova la loro resistenza fisica, ma indispensabile a rafforzare l’elemento della corporeità, altra componente molto forte nella poetica goldoniana”.

Insegnante di italiano come seconda lingua, formatasi all’Università per Stranieri di Siena, giornalista pubblicista iscritta all’Ordine laureata in Filosofia e Beni culturali all’Università degli Studi di Bologna, una grande passione per il teatro. Pirandello, De Filippo, Pasolini e le avanguardie del Novecento i preferiti di sempre.