Il farsi carne della memoria. Pupo di zucchero di Emma Dante

Nov 8, 2022

«I ricordi di per se stessi ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, senza nome e non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso». È questa citazione di Rainer Maria Rilke, riportata da Emma Dante nelle note di regia, a illuminare le stratificazioni di senso racchiuse nel suo ultimo spettacolo, Pupo di zucchero. La festa dei morti, in scena dal 18 al 30 ottobre al Teatro Argentina, e di nuovo in tournée all’inizio del prossimo anno.

L’atto dell’incorporare la memoria è infatti centrale nella pièce che, liberamente ispirata a Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, prende avvio dall’azione rituale nella quale si cimenta il vecchio protagonista ‘nzenziglio e spetacchiato (Carmine Maringola): quella di impastare con poveri ingredienti il tradizionale “pupo di zucchero”, statuetta antropomorfa realizzata per onorare i morti in visita la notte tra il primo e il due novembre. In quell’unica notte dell’anno – secondo la tradizione siciliana – i defunti della famiglia tornano infatti alla propria dimora per portare doni ai bambini e, in cambio, vengono offerti loro ricchi banchetti di dolci: il cibarsi collettivo di quelle pietanze si traduce originariamente in una sorta di patrofogia simbolica, per la quale ci si “nutre” dei propri cari, anelando a una ricongiunzione viscerale che possa perpetuare la loro esistenza dentro di sé.

Nell’attesa che l’impasto lieviti, dal buio del palcoscenico si stagliano una a una e con contorni sempre più definiti le figure rievocate dalla memoria del vecchio: figure amate che un tempo popolavano e rendevano chiassosa la casa, e che per una notte vi fanno ritorno a passo di danza. Compaiono allora le tre sorelle Rosa, Primula e Viola (Nancy Trabona, Federica Greco e Maria Sgro) con la loro giovinezza e con la gioia dei loro canti, la “mammina” ingobbita e dalla voce esilissima (Stephanie Taillandier) che non smette di attendere il marito disperso in mare (Giuseppe Lino), e poi ancora il figlio adottivo Pasqualino (Tiebeu Marc-Henry Brissy Ghadout), e Pedro che si strugge d’amore battendo i tacchi a ritmo di flamenco (Sandro Maria Campagna). 

Lo spazio spoglio della scena si colora dunque di una luce soffusa, domestica, riempiendosi degli oggetti che silenziosamente custodiscono le memorie familiari. A scompigliare questa armonia rinnovata è però il riaffiorare di un rimosso: la morte violenta di zia Rita (Martina Caracappa) per mano di zio Antonio (Valter Sarzi Sartori), al quale è unita da un legame carnale e distruttivo che – come cerca di ricordare il vecchio, nel tentativo inutile di cambiare ciò che è stato – nun’è ammore

In un’articolata e precisissima partitura mimica, guidati dal suono di campanelli, del tamburo e di altri strumenti, i morti si uniscono al vecchio per aiutarlo nella decorazione del “pupo”, reiterando nel pubblico lo stesso stupore che accompagna la lettura della magica ricetta della fiaba di Basile Pinto Smauto: «Se mi vuoi bene, portami mezzo vaso di zucchero di Palermo e mezzo vaso di mandorle ambrosine, con quattro o sei boccette d’acqua di rose e un po’ di muschio e d’ambra (…) una quarantina di perle, due zaffiri, un po’ di granatine e di rubini, un po’ di filo d’oro».

Allo stesso modo dei precedenti Vita mia e Le sorelle Macaluso, l’ultimo spettacolo di Emma Dante discende dall’ossessione «di dare una forma concreta all’impensabile della morte» e soprattutto – citando la prefazione di Giorgio Vasta alla raccolta di testi drammaturgici della regista, Bestiario teatrale (Rizzoli, 2020) – di ammettere «soluzioni che il pensiero razionale ha la necessità di interdire: per esempio il rendere percepibile il nesso tra il lutto e la festa». 

«Se il morire è l’impensabile della morte, qualcosa che non si può neppure descrivere come esperienza ma solo come incandescenza» – prosegue Vasta – la parola “morto”, intesa come «participio passato che imbriglia l’infinito», è «l’escamotage necessario al quale ricorriamo per rendere tollerabile ciò che è insostenibile»: «la messinscena è allora lo spazio-tempo in cui ciò che non si può pensare viene convocato attraverso i morti».Il finale di Pupo di zucchero indaga in questo senso una dimensione della fine, finora rimasta inesplorata nel teatro di Dante, che arricchisce di nuove sfumature il ragionamento: in una danza macabra conclusiva, infatti, i fantasmi che paradossalmente hanno riportato la vita nella casa del vecchio si separano con tenerezza dalle loro spoglie mortali – raffigurate da dieci sculture a opera di Cesare Inzerillo –, per lasciarle appese alla cancellata di un cimitero e affidarle alle cure e al culto dei vivi. Ispirate alle mummie delle Catacombe dei Cappuccini di Palermo, le salme sulle quali si chiude la scena radicano profondamente lo spettacolo nella storia e nell’immaginario del capoluogo siciliano: la visita ai corpi in decomposizione – e tuttavia vestiti con l’abito migliore e con gli accessori più cari – assume il potente significato di un’ultima ed estrema opposizione alla completa sparizione di chi si è amato.

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