«I ricordi di per se stessi ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, senza nome e non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso». È questa citazione di Rainer Maria Rilke, riportata da Emma Dante nelle note di regia, a illuminare le stratificazioni di senso racchiuse nel suo ultimo spettacolo, Pupo di zucchero. La festa dei morti, in scena dal 18 al 30 ottobre al Teatro Argentina, e di nuovo in tournée all’inizio del prossimo anno.
L’atto dell’incorporare la memoria è infatti centrale nella pièce che, liberamente ispirata a Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, prende avvio dall’azione rituale nella quale si cimenta il vecchio protagonista ‘nzenziglio e spetacchiato (Carmine Maringola): quella di impastare con poveri ingredienti il tradizionale “pupo di zucchero”, statuetta antropomorfa realizzata per onorare i morti in visita la notte tra il primo e il due novembre. In quell’unica notte dell’anno – secondo la tradizione siciliana – i defunti della famiglia tornano infatti alla propria dimora per portare doni ai bambini e, in cambio, vengono offerti loro ricchi banchetti di dolci: il cibarsi collettivo di quelle pietanze si traduce originariamente in una sorta di patrofogia simbolica, per la quale ci si “nutre” dei propri cari, anelando a una ricongiunzione viscerale che possa perpetuare la loro esistenza dentro di sé.
Nell’attesa che l’impasto lieviti, dal buio del palcoscenico si stagliano una a una e con contorni sempre più definiti le figure rievocate dalla memoria del vecchio: figure amate che un tempo popolavano e rendevano chiassosa la casa, e che per una notte vi fanno ritorno a passo di danza. Compaiono allora le tre sorelle Rosa, Primula e Viola (Nancy Trabona, Federica Greco e Maria Sgro) con la loro giovinezza e con la gioia dei loro canti, la “mammina” ingobbita e dalla voce esilissima (Stephanie Taillandier) che non smette di attendere il marito disperso in mare (Giuseppe Lino), e poi ancora il figlio adottivo Pasqualino (Tiebeu Marc-Henry Brissy Ghadout), e Pedro che si strugge d’amore battendo i tacchi a ritmo di flamenco (Sandro Maria Campagna).
Lo spazio spoglio della scena si colora dunque di una luce soffusa, domestica, riempiendosi degli oggetti che silenziosamente custodiscono le memorie familiari. A scompigliare questa armonia rinnovata è però il riaffiorare di un rimosso: la morte violenta di zia Rita (Martina Caracappa) per mano di zio Antonio (Valter Sarzi Sartori), al quale è unita da un legame carnale e distruttivo che – come cerca di ricordare il vecchio, nel tentativo inutile di cambiare ciò che è stato – nun’è ammore.
In un’articolata e precisissima partitura mimica, guidati dal suono di campanelli, del tamburo e di altri strumenti, i morti si uniscono al vecchio per aiutarlo nella decorazione del “pupo”, reiterando nel pubblico lo stesso stupore che accompagna la lettura della magica ricetta della fiaba di Basile Pinto Smauto: «Se mi vuoi bene, portami mezzo vaso di zucchero di Palermo e mezzo vaso di mandorle ambrosine, con quattro o sei boccette d’acqua di rose e un po’ di muschio e d’ambra (…) una quarantina di perle, due zaffiri, un po’ di granatine e di rubini, un po’ di filo d’oro».
Allo stesso modo dei precedenti Vita mia e Le sorelle Macaluso, l’ultimo spettacolo di Emma Dante discende dall’ossessione «di dare una forma concreta all’impensabile della morte» e soprattutto – citando la prefazione di Giorgio Vasta alla raccolta di testi drammaturgici della regista, Bestiario teatrale (Rizzoli, 2020) – di ammettere «soluzioni che il pensiero razionale ha la necessità di interdire: per esempio il rendere percepibile il nesso tra il lutto e la festa».
«Se il morire è l’impensabile della morte, qualcosa che non si può neppure descrivere come esperienza ma solo come incandescenza» – prosegue Vasta – la parola “morto”, intesa come «participio passato che imbriglia l’infinito», è «l’escamotage necessario al quale ricorriamo per rendere tollerabile ciò che è insostenibile»: «la messinscena è allora lo spazio-tempo in cui ciò che non si può pensare viene convocato attraverso i morti».Il finale di Pupo di zucchero indaga in questo senso una dimensione della fine, finora rimasta inesplorata nel teatro di Dante, che arricchisce di nuove sfumature il ragionamento: in una danza macabra conclusiva, infatti, i fantasmi che paradossalmente hanno riportato la vita nella casa del vecchio si separano con tenerezza dalle loro spoglie mortali – raffigurate da dieci sculture a opera di Cesare Inzerillo –, per lasciarle appese alla cancellata di un cimitero e affidarle alle cure e al culto dei vivi. Ispirate alle mummie delle Catacombe dei Cappuccini di Palermo, le salme sulle quali si chiude la scena radicano profondamente lo spettacolo nella storia e nell’immaginario del capoluogo siciliano: la visita ai corpi in decomposizione – e tuttavia vestiti con l’abito migliore e con gli accessori più cari – assume il potente significato di un’ultima ed estrema opposizione alla completa sparizione di chi si è amato.

Nasce a Brescia nel 1994. Dopo un periodo trascorso a Monaco di Baviera, si laurea in Scienze Filosofiche all’Università di Padova, approfondendo il pensiero estetico di Adorno. Si diploma al Master in Critica giornalista presso l’Accademia Silvio D’Amico di Roma con una tesi dedicata al teatro di Pasolini nella visione di Antonio Latella. Attualmente scrive di teatro, cinema e letteratura sulle riviste online Tre Sequenze e Bookciak Magazine.