Articolo a cura di Cecilia Cerasaro
Prendere una storia semplicissima e complicarla all’inverosimile, infarcendola di rimandi colti, simbologie esoteriche, polemiche culturali: che sia questo ciò che ha fatto Goethe nel Faust? Di sicuro seguendo questa intuizione si può tentare l’impresa di mettere in scena il dramma tedesco, uno dei più enigmatici che siano mai stati scritti.
In sala al Teatro Vascello il sipario è chiuso, ma in proscenio si può vedere un tavolo da conferenza lunghissimo, studiato per restituire l’impressione di infinitezza. Mentre il pubblico prende posto una stampante sospesa sopra al palco vomita fogli bianchi con un ritmo lento e costante. Poi, quattro sedicenti esperti, quattro tuttologi interpretati da Alessandro Bandini, Chiara Ferrara, Jozef Gjura e Beatrice Verzotti, si siedono ognuno di fronte al proprio microfono. Al termine di un concerto di rutti che lascia interdetto e imbarazzato lo spettatore, annunciano l’inizio di un seminario sul Faust, presentato come un capolavoro assoluto. Quella di Goethe è l’opera letteraria analizzata dagli studiosi, spremuta fino all’ultima goccia, risolta agli occhi del grande pubblico. Peccato però che nessuno l’abbia letta.
Nel frattempo attori e spettatori si illudono di vivere in un mondo intellettuale in cui il confine tra bene e male è netto, in cui fare la scelta giusta è semplice come seguire la ragione e la sapienza, in cui la menzogna e il dubbio morale non esistono: un mondo, insomma, in cui nessun diavolo può riuscire a sedurli. Così viene da subito annunciato che questo prologo in teatro del Faust non finirà, che la storia non verrà raccontata. Un bello spettacolo, d’altronde, non avrebbe bisogno che di un’idea impeccabile dal punto di vista etico per riuscire.
Il pubblico può dare per buona questa dichiarazione d’intenti fino a che non si accorge della silenziosa presenza di Alessandro Bay Rossi, in scena da prima dell’inizio della rappresentazione, solitaria incarnazione di quella stessa antonomastica infelicità generata dall’intellettualismo, di quel vuoto incolmabile nel cuore del compassato uomo di cultura che è segno distintivo di Faust. E soprattutto può crederci fino a quando dal sipario ancora chiuso non spunta un Mefistofele più in forma che mai, interpretato da Paola Giannini.
Il diavolo, che Faust definisce con disprezzo d’avanspettacolo, entra in scena in un vistoso completo viola, corre sul tavolo con un triciclo, con un trucco di magia fa scomparire e riapparire i tuttologi, trascina sul palco la violenza dell’amore e delle emozioni e riporta in sala il teatro, le luci dei riflettori, la musica, gli effetti speciali. Paola Giannini, con la sua ottima e davvero demoniaca interpretazione, riesce a trasmettere l’eccentricità, l’energia soprannaturale del personaggio e al contempo centra l’obiettivo di rendere la profondità ben nascosta, la filosofia del diavolo. Così, mentre gli esperti che ora assumono il ruolo di psicologi consigliano a Faust il suicidio in una delirante sequenza cantata degna di un musical, Mefistofele, “parte di quella forza che desidera eternamente il male e opera eternamente il bene”, si lamenta di dover insegnare, per l’ennesima volta, all’essere umano ad amare.
A questo punto sul volto saggio e triste di Faust si accende una debole luce. Fra le mille idee, indossate dagli interpreti come vecchie lampade da salotto, quella dell’amore sembra l’unica in grado di creare un cortocircuito nel complesso apparato di teorie inventato per giustificare l’inazione, la rinuncia alla ricerca eterna della soddisfazione esistenziale.
Come nell’opera di Goethe, è l’apparizione della donna a sollevare il tema del desiderio: quando Mefistofele materializza Elena di Troia Faust ha un primo tentennamento, ma la tensione sessuale tra i due si incaglia nelle formalità della richiesta e concessione del consenso. Lo spettacolo non rinuncia, infatti, a esplorare le tematiche di genere che una moderna messa in scena del dramma romantico solleva, ma canzona senza rimorso il politicamente corretto, visto come una minaccia all’arte e al canone. Questa ragionata prospettiva, al tempo stesso conservatrice ma attenta e sensibile alle istanze della contemporaneità, rimette lo spettatore di fronte all’ambiguità, alla sfumatura di pensiero sottratta dalla deleteria certezza di essere sempre dalla parte della ragione.
Questa piacevole fragilità intellettuale sembra far spazio nell’animo di chi guarda e permette infine alla grande assente di prendere forma, anche se solo nell’immaginazione. Margherita è la donna distrutta dal privilegio maschile, dal capriccio e dall’ipocrisia dell’uomo bianco, ma è anche il vero amore, la tensione che indirizza la vita umana, che mette tutti d’accordo nella confusione, è la forza misteriosa che fa scrivere i libri e commettere i peccati.
CREDITI
di Leonardo Manzan e Rocco Placidi
con Alessandro Bandini, Alessandro Bay Rossi, Chiara Ferrara, Paola Giannini, Jozef Gjura, Beatrice Verzotti
regia Leonardo Manzan, scene Giuseppe Stellato, costumi Rossana Gea Cavallo, light design Marco D’Amelio, musica e suono Franco Visioli, fonico Filippo Lilli, direzione tecnica e luci David Ghollasi, macchinista Giuseppe Russo, assistente scenografa Caterina Rossi, aiuto regia Virginia Sisti, collaborazione organizzativa Elisa Pavolini, foto Manuela Giusto
produzione La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello, Teatro Piemonte Europa, LAC Lugano Arte e Cultura, in collaborazione con Teatro della Toscana Teatro Nazionale e con l’associazione Cadmo
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