Il cono d’ombra della drammaturgia inglese: Martin Crimp e Tim Crouch

Lug 15, 2024

A cura di Alice Strazzi

Martin Crimp (1956) e Tim Crouch (1964) sono due voci fondamentali della drammaturgia contemporanea inglese e non solo: tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila hanno realmente rivoluzionato la scrittura per il teatro, individuando percorsi ben riconoscibili all’interno e all’esterno dell’etichetta di “postdrammatico” ideata da Lehmann. Se i testi di Crimp – tra tutti il suo più noto Attemps on Her Life (1997) – costituiscono delle vere e proprie forme di ribellione e di scomposizione della struttura narrativa in tutti i suoi aspetti, Crouch invece costruisce i suoi lavori sulla creazione di narrazioni che però contemplino una forte compresenza dello spettatore, parte attiva nel processo della messinscena. Due approcci diversi quindi, eppure assimilabili: le loro scritture si delineano a partire da questa necessità di frammentare e offuscare il dato di realtà, non per disorientare, ma piuttosto per creare nuove traiettorie di senso, forme differenti di comprensione. Il linguaggio diventa uno specchio deformante del mondo esterno, consegnato nelle mani di spettatori e spettatrici. Decostruire con la parola, ricomporre con lo sguardo.

Date queste premesse, stupisce l’assenza quasi totale di questi due autori dal panorama italiano, noti più per sentito dire che per un incontro diretto con i loro lavori portati in tournée in Italia o per la visione di adattamenti di compagnie e artisti italiani. D’altronde le stesse traduzioni dei loro testi scarseggiano, ad eccezione di quelle approntate per la messinscena, come, per esempio, la recente versione di The City di Martin Crimp realizzata da Alessandra Serra per lo spettacolo di Jacopo Gassmann (2023), o il lavoro centrale e di lunga durata svolto dalla romana Accademia degli Artefatti/Fabrizio Arcuri con le traduzioni di My Arm (2020), And Oak Tree e di quattro dei cinque monologhi shakespeariani scritti da Tim Crouch, e anche di Attemps on Her Life, Fewer Emergencies e Advice to Iraqi women di Crimp pubblicate nel libro Il teatro di Martin Crimp nelle messe in scena di Accademia degli Artefatti, edito da Editoria & Spettacolo, nella collana “Spaesamenti”. Salvo quest’unica felice eccezione, nessuna casa editrice ha reso accessibili questi due fondamentali autori e le loro drammaturgie ai lettori e alle lettrici italiani: chissà che in futuro – auspicabilmente – qualcosa possa cambiare.

All’interno di questo tentativo di interrogare la condizione d’ombra che avvolge Crimp e Crouch, un punto significativo, in senso contrario, è stato posto dalla quadriennalità della direzione artistica di Stefano Ricci e Gianni Forte del Festival Internazionale di Teatro della Biennale di Venezia dal 2021 al 2024. Il Festival, infatti, in apertura e in chiusura, è stato segnato dalla presenza dei due drammaturghi britannici, entrambi coinvolti nel programma formativo offerto dalla Biennale College. Crimp nel 2021 ha tenuto un laboratorio sulla pratica della riscrittura del mito greco e latino come meccanismo di indagine della contemporaneità a partire dalla lettura delle Metamorfosi ovidiane, Crouch nel 2024 ha lavorato invece sul concetto di costruzione della co-autorialità dello spettatore e sulla necessità di tenere uno sguardo sempre in parte rivolto alla platea nell’atto creativo. Inoltre, è stato ospitato all’interno della programmazione un lavoro di Crouch del 2022, Truth’s a Dog Must to Kennel, incentrato su alcune questioni particolarmente significative della sua produzione: la rilettura radicale di Shakespeare, il dialogo sempre vivo con il pubblico mai posto in una condizione di passività, e il potere trasformativo e immaginifico dell’arte teatrale. 

Non è, però, la prima volta che i loro nomi compaiono nel programma della Biennale Teatro: le riscritture shakespeariane di Tim Crouch erano state messe in scena da Fabrizio Arcuri nel 2013; Martin Crimp invece, nel 2016, aveva curato un workshop di drammaturgia ed era stato protagonista di uno dei numerosi incontri tenutisi con gli artisti presenti al Festival. Un felice tentativo di riempimento di questo vuoto, anche se restano sparse e sporadiche le apparizioni dei due drammaturghi britannici sul territorio italiano.

Truth’s a Dog Must to Kennel – Tim Crouch. Photo courtesy of Biennale di Venezia

Eppure, il loro lavoro potrebbe essere un utile stimolo per la produzione drammaturgica contemporanea nostrana – scarsamente diffusa nelle sale teatrali del nostro Paese – proprio per la sua radicale tensione alla ridefinizione del ruolo del testo e della sua conformazione (un fenomeno inquadrabile come «new writing», per utilizzare le parole del giornalista e critico teatrale britannico Aleks Sierz), sempre fortemente legato a una lettura del tempo presente spesso visto come critico e conflittuale, e per la costante creazione di un ponte dialogico – più o meno esplicito – con il pubblico, mai dimenticato nella fase di ideazione – ma anche di esecuzione –, oggetto diretto di una continua sollecitazione all’abbandono di una posizione passiva nell’atto della fruizione. E questo legame con la realtà e la sua problematica complessità si riflette nelle parole stesse di Martin Crimp, riportate da Sierz nel suo libro The theatre of Martin Crimp: «Come può affrontare ciò il teatro? Ricordandoci costantemente che le esistenze umane sono più contraddittorie e strane di quanto ogni ideologo/a possa mai immaginare».

Per il drammaturgo inglese nato a Dartford è, difatti, impossibile concepire e comporre un testo teatrale slegato dalla vita contemporanea. Il ritratto del tempo attuale che ne deriva, però, non porta in sé nessun aspetto conciliatorio: soggetti e contenuti della sua produzione ritraggono una realtà inquietante, destabilizzante. Una delle note dell’autore che precedono il testo di Attempts on Her Life, nascondendosi dietro l’indicazione di una corrispondenza voce-attore, racconta fin da subito l’ampiezza e la complessità che lo sguardo di Crimp getta sul reale: «Questo testo si adatta a una compagnia di attori la cui composizione dovrebbe riflettere la composizione del mondo al di là del teatro». La comunità ritratta si mostra nel suo essere abbagliata da ingannevoli apparenze, sempre più indirizzata verso il declino morale, incentrata esclusivamente sull’utile personale, basata su rapporti disumani che portano all’affioramento della violenza, alla sua diffusione e radicamento. L’intento di Martin Crimp non si identifica affatto con la volontà di proporre uno spettacolo piacevole, semplice e di intrattenimento: al contrario, centrale risulta il desiderio di incentivare e spronare il pubblico all’autoanalisi e alla conseguente autocritica. Proprio per questo, bersaglio inequivocabile della critica mossa è giustappunto il pubblico inglese, obbligato a doversi confrontare con la sua immagine speculare presente in scena. Il drammaturgo non vuole tuttavia imporre una visione moralizzante sulle sagome da lui ritratte: la riflessione è lasciata allo spettatore, non viene prescritta dall’autore.

Meno contrastiva, ma ugualmente sfidante, è la postura dialogica di Tim Crouch rispetto alla platea, artefice e non solo fruitrice del processo teatrale. Questa disposizione nasce anche dalla diversa formazione dei due autori: Crouch è prima di tutto un attore, ed è proprio il desiderio di poter incarnare lui stesso una parola realmente capace di trasformare, anche solo per un momento, lo spazio condiviso della sala, a spingerlo alla scrittura. Al frammento, alla composizione per quadri legati da forme di intertestualità e di richiami interni ideati da Crimp, Tim Crouch sostituisce una costruzione testuale che, seppure in parte segmentata, trova unità nella voce dell’io narrante che incarna ed esplicita – grazie alla necessaria complicità del pubblico – il valore metaforico del teatro e dell’arte più in generale, come accade per esempio in An Oak Tree (2005). In questa drammaturgia l’attore e autore britannico lavora sulla creazione di una materia immaginifica che contrasta con la percezione dei sensi umani: il confine tra realtà e finzione ne risulta sfumato, ma non per indebolirlo o confonderlo, ma piuttosto per creare una stratificazione, una moltiplicazione delle capacità di comprensione di ciò che ci circonda, che si attua quando, nonostante lo scetticismo, scegliamo di credere nel valore trasformativo del teatro. 

E anche da questo punto di vista, le traiettorie artistiche di Crimp e Crouch tornano a intersecarsi: grazie alle drammaturgie di entrambi il pubblico assiste – e attiva con la sua sola presenza – questo processo di svelamento del reale e dei meccanismi attraverso cui l’arte cerca di afferrarlo, e di darne una lettura. Alla platea quindi non resta che colmare i vuoti delle strutture testuali proposte dai due autori inglese: allo spettatore il compito di mettere insieme i numerosi volti che compongono Anne/Annie/Annuska di Attempts on Her Life e riportarla a unità, allo spettatore la possibilità di scorgere l’immagine di una figlia deceduta sovrapposta a quella di una sedia vuota, o il sostituire un bicchiere d’acqua posto su una mensola con una quercia (My Arm); esercitando così un tentativo di ricomposizione attraverso lo sguardo.

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