Un luogo di non-morte, e di non-vita; un hospice dove il corpo viene prediletto all’anima, dove pensieri e parole, azioni e silenzi si mescolano senza soluzione di continuità; pazienti con aneliti di vita, personale sanitario tesi alla morte; l’Hospes è un luogo di confine, nell’ultimo giorno di un anno, nell’ultimo giorno di vita.
Anno di stesura: 2018
Premio “Hystrio – Scritture di Scena” (2019)
Numero pagine: 76
Numero personaggi: 13
Testo già rappresentato: SI
SINOSSI
Il testo Hospes,-itis racconta le vicende di un gruppo di persone, divise tra pazienti e personale, all’interno di una struttura che accoglie malati con patologie rare in stato avanzato e terminale, per accompagnarle alla morte, senza forzature, senza aiuti. Non si pratica l’eutanasia, ma lì i pazienti aspettano di morire “con la barba sempre fatta, sempre lavati, puliti. Sempre con dignità”
“Realizzare un’organizzazione a rete eccellente nella prestazione dei servizi.
E’ la mission.
E’ l’obiettivo del direttore.
Del factotum.
Del corpo di medici e infermieri.
Della morte, persino.
Hospes è questo.”
All’interno della struttura si alternano le vicende di pazienti, chiamati col nome delle proprie patologie, e del personale, dal direttore al factotum; ognuno vive un dramma personale, finanche la morte, che compare in dialogo sempre e solo col direttore. Sembra avere un conto in sospeso con lui. E’ il trentuno dicembre, l’ultimo giorno dell’anno, è un giovedì. Il direttore difficilmente esce dalla sua stanza; è in attesa di una telefonata. La figlia, infatti, è gravemente malata e lui teme il medico possa comunicargli di portarla lì, proprio ad Hospes, dove poterla “accompagnare”. Il factotum assiste Rohhad, il fratello, in coma irreversibile, ed è combattuto perché proprio Rohhad, prima del coma, gli ha espresso un solo, semplice desiderio: poter morire senza dover rimanere in stato comatoso. Ma le regole sono altre, lì. La nuova infermiera lo sa, o meglio, lo apprende dal discorso del Giovedì proprio del direttore, mentre lentamente s’innamora del medico che invece è vittima della sua pietà per Purpura, una paziente che vuol entrare con lui nella camera del desiderio irrealizzato.
Intanto Cloves, Lemierre e Parkinson giocano a carte e scommettono e perdono e vincono e fanno testamenti e addirittura s’azzuffano per un debito di gioco, mentre Minamata e Schindler, coppia di sposi con due diverse gravi patologie, sono convinti d’esser prigionieri e tentano la fuga, invano e addirittura, nel caso di Minamata, rimettendoci ciò che resta della sua vita. E’ il trentuno dicembre, come detto, e il cuoco viene sorpreso dalla notizia per cui il direttore desidera passare la serata e quindi il cenone con loro. Cosa cucinare?
Tutto in Hospes si mescola, tutto in Hospes perde il confine e allora ecco che chi deve morire vive di pulsioni vitali, chi deve vivere sente sempre più vicina la morte. La stessa morte, si sente un peso, un di più.
Hospes è un non luogo dove sopravvivere, in ogni caso, al di là della malattia e dove, in un estremo e continuo cortocircuito, tutto finisce per esplodere, per saltare in aria, ad una manciata di secondi dalla mezzanotte. Di Hospes non resta più nulla. Come giusto (o no) che sia.
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