Esiste un luogo accogliente per il teatro, secondo Horacio Czertok, ed è il carcere. Il fondatore del Teatro Nucleo di Ferrara ha lavorato dentro le istituzioni totali: i manicomi prima della riforma Basaglia e le galere. Ne parla (insieme ad altri) in Libertà vo’ cercando, volume edito da Edizioni Seb27 che raccoglie l’esperienza del Teatro Nucleo nel Carcere di Ferrara, e in qualche modo in Contra Gigantes – Narrazione per attore solo e complici spettatori (ed. Seb27), in un racconto tra Chisciotte combattente contro le ingiustizie e un Miguel De Cervantes recluso. Quello che segue in forma di monologo è gran parte del suo intervento all’incontro avvenuto a Torino il 23 maggio scorso in occasione di Salone OFF.
Partiamo dal presupposto che consideriamo il carcere come la terra di nessuno. E noi abbiamo pensato che probabilmente quella terra di nessuno, che nessuno vuole, poteva essere la nostra terra ideale. Se nessuno la vuole, prendiamocela questa terra. Era talmente ideale che dentro il carcere il luogo del laboratorio teatrale è una terra che i detenuti sentono propria. Sì, perché in quella terra di nessuno si crea questo spazio strano dove vigono altre leggi e altre regole. Dove al contrario di quanto avviene fuori, per esempio, si deve usare una voce forte, bisogna urlare. Ma se tu urli in un carcere, urli nei confronti di un altro detenuto, ti prendi un rapporto e sei punito. In carcere non ci si può toccare, non ci sono contatti, e così via: insomma l’elenco è lungo. Così, delle volte, anche in carcere i detenuti, e anche i poliziotti, possono non fare i poliziotti, possono non mostrare un personaggio, possono diventare qualcosa di diverso rispetto al personaggio che indossano nelle attività quotidiane.
Il teatro è sovvertitore di regole, è paradossale e quindi dove può stare meglio di un luogo paradossale come il carcere?
Restiamo al paradosso. Anzi, al paradosso nel paradosso. Una cosa importante che mi segnalava un carissimo amico, 95 enne, ex docente di filosofia di Firenze, che continua a fare il professore come volontario nel carcere di Scandicci, è che nella Costituzione non è scritta la parola carcere. E la cosa mi ha provocato uno strano brivido, avendo letto anche io quell’articolo 27 non ho mai notato che non ci fosse scritta la parola carcere. Vuol dire che la nostra Costituzione non prevede il carcere. L’articolo 27 parla della pena, della condanna, di come deve essere la pena, di come non deve essere la pena, ma non dice dove questa pena deve essere vissuta. Allora io nella mia innocenza ho chiesto a perché ci sia stato questo rifiuto e lui mi ha ricordato che i padri costituenti venivano tutti dalle galere fasciste e non sarebbe stato immaginabile per loro inserire nella loro Costituzione quella parola.
Quindi siamo al paradosso nel paradosso.
E perché non esiste? Perché in effetti il carcere funziona malissimo. Tutto l’investimento che facciamo lì dentro come società produce una recidiva di oltre il 75%. Questo è un conto impressionante in termini economici e in termini di sofferenza. Anzi, di sofferenza nella sofferenza: anche le famiglie dei detenuti, infatti, sono costrette a scontare una pena per delitti che non hanno commesso. I figli di detenuti, per esempio, escono malissimo. Avere un genitore in carcere è una pena terribile per un bambino che a scuola deve affrontare la domanda sul lavoro del padre. Ecco lo stigma che si diffonde. E non possiamo che considerare queste come pene accessorie.
Da noi, poi, non c’è il cosiddetto vis a vis, ovvero la possibilità di detenuti e detenute di incontrare affettivamente e sessualmente i loro congiunti. Un’altra pena accessoria: non fare più sesso per la durata della condanna. Questo è spaventoso, è una vera tortura, è ancora dell’altro dolore nel dolore. Tu condanni in modo del tutto cieco delle persone a subire dei trattamenti, diciamo così, che sono vere e proprie torture.
E di un problema così vasto, è giusto se ne prendano carico i teatranti. Perché non è una questione di attualità, è come una sofferenza umana che c’è sempre stata. Allora ecco che arriva il teatro che non è attuale a un tempo come il cinema o la televisione, ma è attuale da sempre. I nostri autori hanno cominciato a scrivere testi 2500 anni fa: Sofocle, Euripide e tutti gli altri che sono sempre lì. Sono lì anche quando si parla di rifugiati che arrivano dal mare e si torna alle Supplici di Eschilo. Noi pensiamo al diritto d’asilo e lì è già scritto, chi lo legge, anche tra i detenuti, riconosce che le metafore sono già tutte lì. Si fa un viaggio nella cultura europea, ma al tempo stesso si arriva a temi di una terribile attualità.
Ecco, quindi che diventa anche un’attività educativa per i detenuti, ma anche per i poliziotti. E per il pubblico. Perché il teatro, come insegnano i grandi è una relazione tra attori e spettatori, o meglio, per me, tra attori e personaggi. Nel senso che penso a personaggi che vanno a incontrare le persone e insieme fanno il loro teatro socialmente condiviso.
Il tempo in carcere è sempre brutto. Non cambia. Fuori invece cambia. Come il tempo di oggi, che per certi versi è peggio per le ragioni di pubblico dominio, ma per certi versi è meglio perché è la verità. E la verità è sempre la cosa migliore con cui avere a che fare, perché abbiamo governi che sono stati liberamente scelti dalla popolazione. E’ la popolazione che pensa così come si riflette nel governo. Quindi questa è la verità.
E il teatro è una delle cose più democratiche che esistano perché prevede degli incontri. E gli incontri possono avvenire solo in democrazia. Io vengo dall’Argentina ed eravamo abituati alle dittature militari, come al vento o alle tempeste, ma l’ultima dittatura è stata terrificante. Siamo stati abituati a vivere e a far teatro in un ambiente veramente pericoloso perché la situazione politica non rendeva possibile esprimersi democraticamente non solo col volto ma anche col proprio pensiero. E quindi era normale per noi affidarci, ai grandi drammaturghi del passato e Sofocle non si può dire che non fosse un rivoluzionario.
Per altro per i teatranti i tempi sono bruttissimi da parecchio tempo. Il teatro non è previsto nella società tecnologica. Il teatro è un ingombro costosissimo perché implica portare le persone vive tutto il tempo con un carico di materiale in giro per il mondo. È una cosa veramente costosissima: implica che le persone debbano uscire di casa da casa, intraprendere un percorso, pagare un biglietto per sottoporsi a questo incontro che non tutte le volte merita lo sforzo. Per quanto certamente noi proviamo a far sì che lo giustifichi. Ma non è facile per lo spettatore che è uscito con un desiderio in mente, poi cambiare canale. Non volevi vedere quello spettacolo? Ecco, adesso stai lì e te lo tieni e alla fine applaudi pure, perché, anche se non ti è piaciuto lo spettacolo, gli attori hanno lavorato e quindi va riconosciuto loro lo sforzo.
Quindi perché i teatranti vanno in carcere? Perché lì c’è un ambiente dove si può far fruttare al massimo questa paradossale contraddizione.
Abbiamo dentro delle persone che si trovano tutte in uno stato di deprivazione sensoria terrificante. I detenuti vivono una vita che voi potete solo immaginarvi che cosa significa. Non sto parlando della restrizione fisica negli spazi, ma sono le altre costrizioni. Non si parla dei tre pasti al giorno o di dormire al caldo, e tutto il resto che pesa tanto: la distanza, gli affetti che si rompono, eccetera, eccetera. Quindi si trovano in una condizione spirituale come se fossero dei monaci per i quali purtroppo non arriva mai la Vergine. Non vedono mai quello che si suppone che un monaco deve poter vedere. Non vedono niente, vedono solo più disperazione.
Ed è qui che arriviamo noi teatranti e proponiamo loro delle strategie di sopravvivenza, chiamiamole così, spirituali. Strategie nelle quali è prevista questa deprivazione sensoriale. Perché quando lavoriamo nei laboratori teatrali, anche gli attori passano attraverso queste forche caudine: si sottopongono a sforzi emotivi, spirituali e fisici. Devono farlo per prepararsi e per affrontare i personaggi, per mettere in moto fonti di energia necessarie per tener vivo questo magnetismo, questo interesse da parte dello spettatore.
Ecco questi detenuti e queste detenute si trovano già in quello stato. Basta poco. Basta veramente poco e sono pronti. È gente che quando capisce qual è il gioco, capisce il fatto che finalmente potrà uscire da quella condizione, immediatamente si prende tutta la responsabilità.
È interessante vedere un montenegrino che insegna la dizione italiana a un albanese. Perché noi lavoriamo anche in contesti che richiedono impegno con Tasso o con Dante: lavori con testi importanti nella nostra lingua perché questa è la sfida. È la sfida che merita lo sforzo, perché altrimenti neanche i detenuti sono contenti se non li sfidi là dove sembra impossibile. Come fa uno che appena ha un vocabolario di appena duecento parole a imparare il Tasso? Non lo so come fa. Studia, studia, studia. Ma alla fine ce la fa. E quando ce la fa è davvero sorprendente. Ti impressiona moltissimo perché il percorso che quella lingua ha fatto dentro la persona è potente. La poesia è potente.
E così ci sono quasi duecento istituti penitenziari in Italia e nella metà di questi istituti più o meno si fa teatro. Ed è stata fatta una ricerca dalla quale si evince che la ricaduta generica dei detenuti, ovvero che i detenuti usciti a fine pena poi tornano in carcere, supera il 75% circa, ma tra coloro i quali hanno fatto un percorso teatrale professionale serio la ricaduta scende sotto il 18%. Non si tratta, come dicono molti, che chi fa teatro è già predisposto a comportarsi bene, anzi. Spesso a teatro vengono buttati i più piantagrane con la sfida: “vediamo un poco come ve la cavate con questo qua”. E noi ce la caviamo come coi bulli della classe, che hanno una certa energia particolare. Tu trovi il modo di infilarla in una direzione efficace. Questo è educativo per i detenuti ed è educativo per i poliziotti. È educativo per la società. Soprattutto.
Noi facciamo teatro soprattutto per la società. Perché nella società prima o poi i detenuti escono. E dove vanno? Non hanno una casa, non hanno un lavoro. La famiglia dopo alcuni anni di deserto affettivo è sparita. E allora dove va quest’uomo o questa donna? Di solito va nel luogo dove si sente più accolto: in carcere, perché una volta che è passata la paura, il carcere è un posto accogliente. In carcere sei al sicuro. C’è anche un sacco di gente che si preoccupa che nessuno ti accoppi. Sembra un paradosso, però è così.
Altrimenti dobbiamo far diventare la società un luogo accogliente, dove a fine pena un detenuto sa dove andare o può andare da qualche parte. E lo accogliamo come persona ricca di interessi che può insegnare anche delle cose agli altri.
E noi queste condizioni le creiamo portando il teatro fuori dal carcere, creando occasioni di incontri tra i reclusi e i cittadini. Portiamo dentro le scuole per insegnare che cos’è il carcere. E così portiamo fuori la compagnia di galeotti quando lo spettacolo è un prodotto teatralmente e artisticamente valido, perché è giusto che sia messo a disposizione del grande pubblico nei posti migliori della città. E anche questo, come un teatro nel teatro, mettiamo a disposizione il nostro lavoro per la bomboniera del Comunale di Ferrara, per esempio, di un bellissimo teatro del Settecento, meraviglioso.
Noi abbiamo circa 35 – 38 iscritti su un carcere che ospita 350 vuol dire che è circa il 10% della popolazione presente.
Lì ci sono tutti, ci sono tutte le etnie italiche o gran parte: ci sono siciliani, napoletani, qualche ferrarese, ci sono albanesi, ci sono marocchini, ci sono tunisini, c’è persino un russo e una volta c’era un cittadino suddito di sua maestà britannica. Di solito è gente che fuori dal carcere vive separata e dentro il carcere deve vivere insieme. Nel laboratorio teatrale addirittura deve anche lavorare, si deve confrontare, si deve sostenere. Devono fare insieme musica e canto: c’è un grande fuoco che si accende e questo cerchio è prodotto e nutrito da tutte queste persone che dentro fanno cose che fuori non si sognerebbero neanche.
Allora ecco che queste persone hanno qualcosa da insegnare, nel senso che abbiamo noi cose da imparare da loro, per esempio questo è un interessantissimo aspetto che gli spettatori non tralasciano di notare e sottolineare. Perché quando si incontra un attore montenegrino che comincia il laboratorio con trecento parole in italiano e in scena ripete il combattimento di Clorinda che sono 23 minuti di testo difficile, di Tasso, è perché questo combattimento viene riportato da un ex soldato per cui qualche idea di che cosa poteva essere veramente una guerra ce l’aveva. E quando questo un testo viene studiato da un cubano che, chissà come diavolo è, ma è un cantante pop innamorato delle cover, lui impara il testo con la musica di Monteverdi, e tu credi seriamente di essere alla presenza di un miracolo. Ma come diavolo fa a succedere tutto questo? E’ il frutto di un lavoro di scavo che queste persone fanno su se stesse che arriva dalla poesia. La potenza del poeta è quella per cui con la sola parola deve fare tutto. Allora se ci si chiede perché si va in carcere, la risposta è: “dove altro trovi miracoli di questo tipo? Da nessun’altra parte”.
Il teatro non è letteratura. Il teatro è un’arte antica che viene prima della letteratura. Noi viviamo in un sistema che confonde il teatro con letteratura teatrale in prosa. È una pericolosa confusione. Il teatro è la relazione tra persone. Noi pratichiamo un teatro che è fondato su quello, sullo scavo su di sé che l’attore fa e costringe lo spettatore a fare lo stesso. Pratichiamo un teatro che accompagna questa trasformazione e la relazione che ne consegue.
L’unica altra cosa che giustifica questo lavoro nei confronti dello spettatore esterno è la qualità. Altrimenti stai spalando merda. E una merda è una merda. E’ un prodotto di una certa quantità, ma non la puoi contrabbandare per bellezza. Se fai teatro dev’essere di alta qualità. E come fai a creare qualità, lavorando con delle persone che hanno pochi strumenti? Non lo so. Nessuno ti costringe a entrare in un carcere, però se lo fai devi perseguire la qualità. Perché se non lo fai, se non ottieni qualità, ottieni solo l’applauso peloso. Il tuo lavoro dev’essere talmente potente che lo spettatore finalmente sia chiamato alla catarsi aristotelica, a quell’impatto emotivo che fa funzionare la ragione e genera una prima agnizione. Questo cambiamento è la magia.
Noi teatranti abbiamo questa possibilità, abbiamo questo ruolo, abbiamo questo mandato. Prendiamo subito questo mandato. Dobbiamo farlo per non lasciare che il teatro e l’arte siano l’intrattenimento dei ricchi, di quelle persone che non hanno un cazzo da fare, di quelle serate borghesi. Il teatro è un mezzo straordinario che può aiutarci a cambiare e, con mille difficoltà, con il tempo aiuta a creare altri nodi della rete. Possiamo farlo? Io sono di quella generazione che pensa che se possiamo farlo, dobbiamo farlo e dobbiamo farlo noi perché se no non lo fa nessun altro.
Scrivo un po’ per dare notizie e un po’ per raccontare storie. Insegno al master in giornalismo dell’Università di Torino, ho imparato alla scuola civica Paolo Grassi.