Tra il 24 e il 26 gennaio presso il Teatro Carcano di Milano è andata in scena la prima nazionale de L’empireo, il nuovo spettacolo firmato dalla regista Serena Sinigaglia, già direttrice artistica del teatro. Dal testo The Welkin della scrittrice inglese Lucy Kirkwood, la traduzione di Monica Capuani e Francesco Bianchi per Sinigaglia racconta la storia di dodici figure femminili convocate a pronunciarsi sulla presunta gravidanza di una giovane donna condannata alla pena di morte nell’anno del passaggio della cometa di Halley. Si tratta di una restituzione corale, femminile, dirompente, capace di oscillare tra il comico e il tragico e di offrire occasioni di riflessione senza orpelli sulla natura del potere.
In scena Giulia Agosta, Alvise Camozzi, Matilde Facheris, Viola Marietti, Francesca Muscatello, Marika Pensa, Valeria Perdonò, Maria Pilar Pérez Aspa, Arianna Scommegna, Chiara Stoppa, Anahì Traversi, Arianna Verzeletti, Virginia Zini, Sandra Zoccolan.
Come è nata l’idea di lavorare con questo testo e quali sono state le modalità attraverso cui è entrata in contatto con l’opera di Lucy Kirkwood?
Tutto parte dal lavoro instancabile e appassionato di Monica Capuani, scopritrice di testi internazionali e in particolare inglesi. È tutta la vita che si divide tra Londra e l’Italia portando avanti quel difficilissimo lavoro di individuare testi di drammaturgia contemporanea meritevoli, tradurli e cercare di favorirne le produzioni. Mi ha sottoposto questo testo – ci conosciamo da più di vent’anni con Monica – perché sa che amo il teatro corale e quello di derivazione shakespeariana e quindi ha pensato che potesse essere un testo che faceva al caso mio. Dico shakespeariano perché Kirkwood ha questa capacità che gli inglesi hanno e cha ha la cultura anglosassone in generale di saper unire, a teatro come nella vita, l’alto e il basso, il sacro e il profano, il puro divertimento — chiamiamolo pure, senza paura, intrattenimento— con la potenza del teatro classico. A fianco di queste ragioni c’era poi la questione della coralità che fa sì che tutti i personaggi, da quelli principali a quelli minori, siano tratteggiati a 360 gradi. Mi sono fin da subito resa conto che sarebbe stato difficilissimo riuscire a portarlo in scena in Italia: oggi il mercato italiano è saturo di spettacoli con quattordici attori perché è difficile venderli, portarli in giro e perchè costano troppo
Così in un primo momento abbiamo provato a farne dei reading. Grazie alla collaborazione con le associazioni Amleta e Atir siamo riusciti ad organizzare un secondo reading in Calabria, con la partecipazione della compagnia teatrale Scena Nuda. Studiando e lavorando sul testo in queste occasioni laboratoriali mi rendevo conto che potevo farlo senza il vestimento, anzi, che proprio la natura cinematografica – altra caratteristica della drammaturgia inglese, vale a dire una minore distanza tra il realismo cinematografico e la scrittura teatrale – mi permetteva di omaggiare il teatro nel senso di poter creare un rito civile, una sorta di orazione: io l’ho chiamata un’orazione civile. Mi interessava che, a partire dalla descrizione delle azioni fatta da Kirkwood, ogni spettatore avrebbe ricreato il suo film attraverso l’uso dell’immaginazione, e questo è il teatro. Il grande scarto tra il cinema e il teatro è che il primo, essendo legato al linguaggio fotografico, ti mostra la realtà mentre il secondo la evoca. Allora lì ho fatto click, ho pensato “devo fare di tutto per riuscire a metterlo in scena”, dato che i temi mi stavano a cuore, la scrittura era divertente, entusiasmante, piena di colpi di scena, con un ritmo molto contemporaneo e al tempo stesso profonda, corale, e al femminile. Nel giro dell’arco di tre anni siamo riusciti a coinvolgere oltre al Carcano, che era già disponibile dato che lo dirigo con Lella Costa, il Tetro LAC di Lugano, il Teatro Stabile di Genova, il Teatro Stabile di Bolzano e il Bellini di Napoli.
Mi ricollego al fatto che il lavoro sia partito da dei readings dato che, durante lo spettacolo, assistiamo inizialmente ad una lettura con copione alla mano che da neutra diventa espressiva, fino ad arrivare, con l’abbandono del copione, ad una recitazione piena. Da un punto di vista registico qual è la funzione di questo passaggio e qual era l’intento dietro questa scelta?
Così come anche il giro dei fogli all’unisono da parte delle interpreti, ho fatto queste scelte dal punto di vista interpretativo, perché ritengo questo testo una sorta di manifesto di alcuni temi portanti che ci riguardano da vicino: la relazione tra i generi, la violenza sulla donna e sul corpo della donna, discorsi di democrazia mancata. Volevo dare l’idea che questo copione fosse quasi un libro di preghiere in un rito laico. La stessa postura delle attrici, così concertata, era pensata proprio per dare un valore sacro al testo e portare lo spettatore a poco a poco, con dolcezza, nel gioco evocativo del teatro. Le interpreti riprendono poi il copione alla fine dello spettacolo e l’ultima pagina viene letta, ma è ovvio che le attrici sanno tutto a memoria; la lettura qui non ha niente di concreto, è qualcosa che vuole portare più significati. Inoltre è un omaggio alla parola, alla sua forza, alla sua potenza emotiva ed evocativa: in certi testi teatrali le parole giuste al momento giusto sono sacre. Vedere le persone che piangevano, ridevano, partecipavano e che non si rendevano conto che in scena non c’era niente – non c’era il camino, non c’era la stanza, le attrici non si muovevano – che c’erano soltanto le parole, mi è sembrato il miracolo del teatro.
Sul modo di nutrire e caratterizzare i personaggi in scena, l’autrice Lucy Kirkwood, in un’intervista con il regista James MacDonald in occasione della prima del National Theatre, diceva di essersi informata, nonostante la storia sia ambientata nel 1759, su un sito molto popolare nel Regno Unito che si chiama Mumsnet, una specie di piattaforma in cui futuri e attuali genitori si scambiano pareri sulle proprie esperienze. Nel vostro caso come avete lavorato per cucire in modo così preciso i ruoli addosso alle attrici in scena?
Siamo partiti nel più classico dei modi, tramite un casting in cui ho scelto attrici che ritenevo in qualche modo simili per carattere e fisionomia all’idea che avevo dei personaggi. Sottolineo che un grosso numero di queste attrici le conosco da più di vent’anni; alcune avevano già collaborato con me all’interno di Atir e in un modo o nell’altro siamo cresciute insieme. Attraverso i laboratori iniziali ho avuto modo poi di testarle e il criterio che ho utilizzato per la selezione è stato proprio quello di percepire un’aderenza emotiva e fisica al personaggio, o quantomeno alla caratteristica fondamentale del personaggio. Va detto però che quando il testo è scritto così bene è molto più facile, perché è proprio un coro tridimensionale all’interno del quale tutti i personaggi potrebbero andarsene in giro da soli. Direbbe Pirandello che quando un personaggio funziona, funziona talmente tanto che lo puoi togliere dal contesto in cui è stato scritto e può andarsene in giro per fatti suoi.
Entrando nel vivo di questa vicenda, ambientata durante il passaggio della cometa di Halley, risulta centrale nell’opera il fenomeno storico della cosiddetta “jury of matrons”, una sorta di giuria popolare femminile di dodici membri che si doveva occupare di stabilire se una donna fosse o meno incinta in caso di controversie legali a suo carico. Come avete lavorato sulla forte contraddizione di un progresso scientifico che è in grado di studiare e calcolare fenomeni come il passaggio di una cometa ma che nel 1759 (le juries of matrons vengono abolite solo nel 1931) non conosce nulla o quasi del corpo della donna e relega questo sapere alla cultura esperienziale delle levatrici?
È un tema molto complesso e Kirkwood ambienta la vicenda in quell’epoca anche perché proprio in quegli anni comincia la Rivoluzione industriale che esaspera il contrasto tra la sapienza femminile sul proprio corpo, quindi le levatrici, e l’irrompere del sistema scientifico maschile e patriarcale. Si vede anche nel personaggio del medico che alla fine arriva alle stesse conclusioni a cui era arrivata la levatrice, anche se la levatrice portava un senso che è tipicamente femminile. Specifico che quando dico “tipicamente femminile” non intendo necessariamente “che appartiene alla donna”, perchè sia l’uomo che la donna siano fatti di una parte femminile e di una parte maschile. Parlando di quella parte femminile è interessante rilevare che Elisabeth, la levatrice, indipendentemente dal fatto che Sally Poppy sia o meno incinta, è contraria alla pena di morte. Ecco il distacco della scienza: la scienza ti dice se sei incinta o no, ma non prende parola sul dilemma sostanziale cioè, in questo caso, la pena di morte. Questo fa capire come la logica sia riduttiva e paradossalmente deresponsabilizzante.
Mi sembra interessante poi che le donne stesse non sappiano nulla del proprio corpo, perché l’universo femminile è un universo che contiene in sé un mistero di cui l’uomo, l’essere umano, spesso ha paura. Questo è un concetto davvero molto contemporaneo. La battuta di Kirkwood («È proprio strano che conosciamo il movimento di una cometa lontana migliaia di chilometri più di come funzioni il corpo di un donna») potrebbe essere benissimo tradotta in “è proprio strano che conosciamo gli algoritmi dell’intelligenza artificiale ma non abbiamo ancora capito veramente perché un essere umano ammazza un altro essere umano a coltellate solo perché lo vuole lasciare”. Sto parlando dei femminicidi, chiaramente. Questo mistero riguarda tutti, ma le donne hanno la possibilità di fare esperienza del parto e questo dà loro una sapienza concreta di questo mistero. Questo ha sempre fatto molta paura al potere perché si traduce in una mancanza di controllo su di loro.
La nascita era e rimane di fatti un mistero, basti pensare che ci sono coppie non sterili, sane, che non hanno nessun impedimento genetico e che non riescono ad avere figli, e nessun medico, nessuna scienza è in grado di spiegarlo. La religione dice di accettare il tuo destino perché il Signore ha voluto per te questa sofferenza, la scienza risponde “no, io continuerò a indagare le ragioni oggettive”, mentre magari gli anziani suggeriscono di provare a non pensarci e distrarsi. Ciò che voglio dire è che il discorso è molto più ampio e che, per quanto possiamo progredire nella ricerca scientifica e tecnica, la nascita rimane un ambito in cui appunto scienza, religione e saggezza popolare hanno tre chiavi di lettura diverse e i piani si moltiplicano. Il problema si pone quando uno di questi piani pretende di avere il primato, cioè di diventare normativo. Il piano femminile non è mai diventato normativo il che è paradossale perché, se proprio volessimo introdurre delle regole, dovremmo chiedere alle levatrici. Al contrario la loro sapienza è stata spazzata via dalla società industriale e ancora una volta lo scopo è controllo e di sopruso.
A proposito della dimensione del sopruso, nel testo l’espediente in potenza positivo della partecipazione politica al femminile della jury of matrons finisce per essere ribaltato da un potere di stampo patriarcale, un potere senza volto ma con degli interessi particolari. Che eco di risonanza può avere mettere in scena, davanti ad un pubblico del 2025, un modello di coinvolgimento delle donne nella vita politica della città il cui verdetto è, di contro, ignorato e soppiantato da un potere patriarcale molto più profondo e pervasivo?
Il finale ci riporta a mio avviso – e questo voleva Kirkwood – al problema che in fin dei conti affligge l’umanità da sempre, in maniera del tutto antiretorica. Ci sta dicendo due cose: che la giustizia che dovrebbe essere la vera cartina al tornasole di una democrazia – lo vediamo proprio in questi giorni con quello che sta succedendo con il governo, con la magistratura – lascia posto alla sete di vendetta – perché è questo che Mrs. Wax vuole, vendetta – e che questa vendetta è resa possibile dalla corruzione del denaro. I nostri tentativi di trovare égalité, fraternité e liberté si infrangono sempre davanti ai motori ancestrali dell’agire umano come la vendetta e, con essa, la possibilità di alcuni di corrompere col denaro o sfruttando il proprio potere potere. A me in questo caso vengono in mente Borsellino e Falcone che continuavano a dire che la mafia altro non era che un sistema economico formidabile di corruzione.
Questa è la riflessione che chiude tutto, è come se Kirkwood dicesse “tutto quello che avete visto fino a qui sono sottotemi; la questione di genere, la questione dell’immigrazione, la questione delle ingiustizie che la donna subisce, sono tutti problemi veri che sappiamo esserci, ma il problema più grande su cui purtroppo la società patriarcale si è fondata è che le pulsioni primarie di ciascuno di noi vengono veicolate da un sistema corruttivo“. Il finale è molto, molto amaro. Mr. Coombs, come esecutore materiale della volontà di Mrs. Wax, in quel momento assurge a una figura tragica, come Oreste che ammazza Clitennestra, come nei grandi miti classici. Al tempo stesso è però la figura di un disgraziato, da sempre considerato un po’ lo zimbello del paese, deriso dalle donne, abbandonato dalla moglie, un poveraccio, un ignorante con pochi strumenti. E cosa deve fare di fronte all’insistenza del potere che ti dice “ti do i soldi, ti do una casa, ti do una posizione. Fai quello che ti dico io, perché tu sei uno schiavo“?. Credo che sia la chiusa a mettere in crisi gli ideali con un avvenimento amarissimo, come se Kirkwood ammettesse di non avere molta speranza che la società si possa organizzare in modo diverso da così.

Nato a Siracusa nell’ormai lontano1997. Si laurea in filosofia a Bologna per proseguire gli studi tra Milano e Parigi. La passione per scrivere e raccontare storie apre a collaborazioni con le testate giornalistiche online Frammenti Rivista, Palomar e Theatron 2.0. L’interesse per il teatro e il mondo classico lo deve interamente al meraviglioso teatro greco della sua città.