Genesi e cura del Narciso. Intervista a Giulia Fioravanti

Mag 19, 2025

Nelle pieghe del corpo si nascondono storie che le parole non riescono sempre a dire. Genesi e cura del Narciso è uno spettacolo di teatro-danza che nasce da questa consapevolezza: l’idea che il corpo possa diventare strumento di racconto per ciò che, troppo spesso, rimane confinato nella mente.
Abbiamo incontrato Giulia Fioravanti, autrice e coreografa dello spettacolo, che ci ha accompagnati in un viaggio intimo tra filosofia greca, psichiatria contemporanea e vissuto personale. Un dialogo profondo, ma accessibile, che tocca il tema della salute mentale con delicatezza e forza, mettendo in luce quanto l’arte possa essere non solo specchio del disagio, ma anche luogo possibile di cura.
Tra cappelli rossi, ombre gemelle e danzatrici che si spogliano – letteralmente e simbolicamente – emerge un pensiero che è insieme poetico e politico: accogliere la fragilità non è debolezza, ma scelta rivoluzionaria.

Come nasce l’idea di coniugare il teatro-danza con il tema della salute mentale, e qual è stato il tuo primo impulso creativo per Genesi e cura del Narciso?

Il tema della salute mentale mi affascina fin da bambina; all’esame di terza media portai come argomento centrale della tesina il lavoro di Freud sull’inconscio. Ma già dalle elementari avevo fatto qualche piccola lettura in materia. Con il tempo, lo studio sempre più approfondito della danza mi ha condotta quasi naturalmente all’esigenza di raccontare quella mente di cui avevo tanto letto, attraverso il corpo.
Ci hanno abituati a pensare – ed è ormai uno stereotipo – che la mente sia più forte del corpo. Ho pensato: e se fosse il contrario?
Nell’epoca dell’overthinking e delle performance intellettuali, troppo spesso dimentichiamo la nostra “materia grezza”. Volevo creare qualcosa che raccontasse l’altalena emotiva dell’essere umano non attraverso dinamiche cognitive, ma tramite il rapporto con la propria pelle, la somatizzazione del pensiero. Il primo embrione dello spettacolo è nato nel giugno 2018, quando coreografai una piccola parte dell’esibizione finale dell’Accademia in cui studiavo. Da lì è cominciata la scrittura dello spettacolo, durata circa cinque anni, fino al debutto nell’ottobre 2023.

Nel tuo lavoro si fa riferimento al “Daimon” di Hillman e della filosofia greca: in che modo questo concetto ha influenzato la costruzione drammaturgica e coreografica dello spettacolo?

La filosofia greca, come spesso accade, ci aveva visto lungo. Il “Daimon”, come ben spiegato poi da Hillman, è un compagno di vita: un’immagine o disegno che l’anima di ciascuno sceglie prima della nascita, affinché ci guidi verso ciò che è naturalmente destinato a noi. Tuttavia, tendiamo a dimenticarlo – proprio come avviene con l’inconscio.
A differenza di molte correnti della psicologia moderna, che ricercano le cause del disagio psichico nel passato e nei traumi infantili, questa visione antica suggerisce che ogni sofferenza derivi dal tradimento del proprio “Daimon”: dal vivere una vita che non ci appartiene.
Nello spettacolo, il “Daimon” è rappresentato da un cappello rosso. Attraverso il suo passaggio da una danzatrice all’altra, si racconta una progressione dissociativa che conduce prima alla perdita e poi alla riappropriazione della propria natura. Le sei danzatrici rappresentano sei sfumature di un’unica persona, di una sola anima alla ricerca del proprio “Daimon”. Ogni personaggio ha uno stile coreografico distintivo e i cambi di costume avvengono in scena, dentro un armadio che è mentale e fisico allo stesso tempo.

La presenza delle gemelle bambine e del cappello rosso ha un forte valore simbolico. Come hai lavorato con questi elementi per rendere visibile l’ombra di cui parli nel testo?

Accanto al piano concettuale delle sei sfaccettature della mente, esiste un piano narrativo, affidato a due sorelle gemelle che, nel prologo e nell’epilogo, si scambiano lettere e, apparentemente, anche ruolo e abito.
Non potevo affrontare il disagio psichico senza evocare il tema del doppio, poiché è proprio dalla non accettazione della nostra parte oscura che nasce spesso il malessere. Tutti noi possediamo un’ombra gemella: se la accogliamo, ci amerà; se la respingiamo, ci farà ammalare, portandoci anche verso derive narcisistiche e dipendenze affettive.
Da qui l’interesse per il disturbo narcisistico di personalità, che trovo rappresenti in sé molte delle letture distorte che riserviamo a noi stessi e, di conseguenza, al mondo.
Nel prologo, il passaggio del cappello – del “Daimon” – dalla gemella “sana” a quella “disturbata” apre la strada alle sei sfumature della mente e al coraggio di dissociarsi per riequilibrarsi.
Ho inserito anche sei figuranti che rappresentano le sei ombre delle sei danzatrici.
Nell’epilogo, il cappello ritorna alla prima gemella, ormai cresciuta, che si specchia nelle sue ombre prima di ritrovare nel borsone da viaggio il suo cappello rosso.

In che modo la collaborazione con Antonino Tamburello e l’uso della voce fuori campo hanno arricchito il lavoro scenico?

Quando incontrai per la prima volta il Professor Tamburello nel suo studio a Roma, si mostrò subito entusiasta di prestare la sua voce, avendo compreso profondamente il senso del suo utilizzo.
Lo spettacolo alterna musica, gestualità nel silenzio e movimenti scenici accompagnati dalla voce fuori campo del Professore.
Questo si è rivelato fondamentale per rendere accessibili i concetti psichiatrici su cui si fonda lo spettacolo, concetti che Tamburello porta avanti da anni come fondatore dell’Istituto Skinner per la psicoterapia cognitivo-comportamentale.
In linea con ciò, ho scelto di abbandonare i codici della danza accademica quando non necessari, sostituendoli – durante le voci fuori campo – con gestualità stilizzata, interazioni naturali e azioni quotidiane.
Emblematica, in questo senso, è la scena della visita medica: alle domande del medico, le danzatrici rispondono con il corpo.
Il connubio tra la voce (la scienza) e il corpo (il teatro) ha arricchito enormemente il lavoro, restituendo poesia e semplicità a temi complessi e spesso scomodi. Credo di aver trovato un linguaggio originale, ma accessibile, per raccontare il DSM attraverso il teatro-danza.

Lo spettacolo invita a riconoscere e accogliere le proprie fragilità. Che tipo di risonanza speri di attivare nel pubblico, a livello personale e collettivo?

Lo spettacolo non parla “dei malati mentali” né “ai malati mentali”. Parla a tutti, perché riguarda il funzionamento fisiologico della nostra mente, a prescindere da eventuali patologie.
Le risonanze che spero di suscitare a livello personale sono principalmente due.
La prima: l’accoglienza delle nostre “parti storte”, di quel sosia interiore che a volte ci contraddice. Accogliere il Male – che non vuol dire assecondarlo – è il primo passo verso ogni guarigione.
Da qui, un invito a riflettere sull’accettazione compassionevole del Fallimento, inteso come tutto ciò che nella nostra vita si presenta sotto forma di sconfitta, dolore, frustrazione.
Solo così, credo, possiamo prevenire anche le dipendenze affettive e i loro esiti violenti.
Siamo tutto ciò che pensiamo, anche i pensieri malvagi: è lasciandoli fluire che evitiamo che si trasformino in azioni.
La seconda risonanza riguarda il corpo. Esistiamo nel corpo, non nella psiche. È il corpo che sostiene le nostre funzioni vitali, e non mente mai.
È ormai una certezza clinica che molti disturbi psichici trovano radici nella perdita di consapevolezza corporea, favorita da uno stile di vita dominato dalla ruminazione mentale.
Da qui la scelta di raccontare un attacco di panico attraverso una scena di nudo, e di includere una canzone originale (Seghe mentali di Matilde Rosati) sul rapporto con il cervello.
A livello collettivo, il mio desiderio più grande è contrastare l’individualismo imperante, e riscoprire il valore della solidarietà.
Stiamo insegnando ai giovani che “bisogna stare bene con se stessi per poter stare bene con gli altri”. Ma come ogni concetto, se assolutizzato, diventa sterile.
Non è sempre vero che la solitudine guarisce. Non siamo tutti al mondo per compiere percorsi interiori tortuosi e solitari. La guarigione, spesso, si trova nella concretezza della vita, nella relazione, nell’Amore – che, ancora oggi, resta l’unico psicofarmaco senza controindicazioni.

“Pensate che bello immaginare una generazione di ragazzi che sanno che il dolore non è per sempre”  (Antonino Tamburello) 

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