Incontrare Elvira Frosini e Daniele Timpano nell’occasione di un loro nuovo spettacolo e nel meraviglioso paesaggio collinare delle Marche è un evento, un momento di connessione e di affinità umana, di scambio di aneddoti e di dettagli letterari. È il qui e ora del teatro che prende vita e forma al tramonto, all’interno di un piccolo chiostro, scandito dai rintocchi delle campane che segnano l’ora.
Disprezzo della donna. Il futurismo della specie, una “cantata a due voci dedicata ai futuristi italiani e al disprezzo della donna” ha debuttato a Castiglioncello il 27 giugno, nell’ambito di Inequilibrio Festival, con la produzione de Gli Scarti, Frosini/Timpano – Kataklisma teatro e Salerno Letteratura Festival. Quello che segue è un racconto-flusso di coscienza che spazia tra riferimenti, ricordi e tante storie.
Relativamente a Disprezzo della donna. Il futurismo della specie, svuotare la scena di ogni elemento teatrale non necessario per mettere al centro una ricerca, una narrazione affascinante ricca di contenuti lo avete concepito e attraversato come una necessità oppure come una virtù?
Elvira Frosini: Una necessità perché il nostro teatro è abbastanza sintetico dal punto di vista degli elementi scenografici: se è presente qualcosa deve essere veramente necessaria. È anche una virtù perché volevamo che emergesse il testo e i due corpi che lo incarnano.
Daniele Timpano: In tutti i nostri spettacoli c’è molta densità di testo, così anche in Disprezzo della donna, dove c’è pure un lavoro fisico e di traiettorie nello spazio, di costruzione di ritmi e simmetrie in scena. Abbiamo cercato, ancora più che in altri lavori, di pensarlo come un tutto, insieme di testo, corpo, voce, suono, spazio e luci. Lo spettacolo è più breve di altri nostri lavori ma altrettanto denso, ed è scritto in una maniera che – alle orecchie del 2022 – in termini di linguaggio e di lessico suona un po’ bislacca, desueta. I testi che abbiamo utilizzato da un lato richiamano tematiche contemporanee, calde, attuali, dall’altro sono estremamente datati come scrittura, come qualità della parola, insomma si sente che sono testi di cento anni fa.
Spesso sorprendentemente belli peraltro. Questa scelta di semplicità scenica ha a che fare con noi, col qui e adesso, con il qui ed ora di dove ci troviamo a fare lo spettacolo, ogni volta, per gli spettatori. Non pretendiamo di essere altrove. La scena è un foglio dove disegniamo delle cose in astrazione con i nostri corpi, con le nostre voci, utilizzando frammenti cadaverici di testi di autori morti che cerchiamo di ricomporre in materia viva per noi adesso.
Disprezzo della donna parla della condizione della donna, fa un punto, forse, sul femminismo. Come avete analizzato il rapporto uomo donna?
E.F: Secondo me non fa il punto sul femminismo però dice delle cose, utilizzando delle parole di cento anni fa, sia di donne che di uomini. Emerge contraddittoria la volontà di emancipazione e di rottura da parte di donne, di uomini, ed anche un elemento reazionario e conservatore. L’operazione è quella di risentirli oggi come concetti attuali. Speriamo che il pubblico si faccia delle domande su quanto sia l’elemento emancipatorio sia l’elemento reazionario maschilista e patriarcale siano oggi ancora vivi, ancora sottostanti alla nostra vita ed alla nostra cultura.
Utilizziamo anche testi e pensieri di donne futuriste che non conosce ormai quasi nessuno, perché il Futurismo è conosciuto poco, molto sommariamente, e identificato più che altro in Marinetti, il più famoso e il più araldo di se stesso, e in qualche artista visivo come Balla, Boccioni o Depero.
Molti autori futuristi sono oggi sconosciuti e le donne in particolar modo. Da Benedetta Cappa Marinetti, conosciuta maggiormente in quanto moglie di Marinetti e meno in quanto artista, a Rosa Rosà di cui tiriamo fuori un bellissimo testo in cui parla alle donne del post domani – e quindi a noi, oggi – e tante altre che hanno scritto, pensato, immaginato cercando contraddittoriamente un po’ l’emancipazione ed un po’ l’affiancamento, il mettersi alla pari con i maschi. C’è un movimento molto discorde, da questo punto di vista, però interessante, perché non traccia una linea univoca ma scaraventa nella contraddittorietà in cui ci troviamo oggi.
Post Futurismo, Neo Futurismo, Trans Futurismo…dove pensate di collocarvi e perché?
E.F: Personalmente non mi colloco in nessuno di questi punti, però è interessante il movimento, lo slancio del Futurismo, che è ricchissimo, ha influenzato tutta l’arte contemporanea di quel momento, ma anche quella successiva del Novecento ed è influenzato a sua volta da altri movimenti paralleli dell’epoca. Sarebbe da scoprire nella sua complessità, fuori dai cliché.
D.T: Il mio interesse verso il Futurismo è di lunghissima data ed è per me un paradosso vissuto non tanto come ammirazione, a posteriori, dell’intuizione del presente o dello slancio nel futuro che potevano avere i futuristi all’epoca, ma in quanto indirizzo di pensiero triste, depressivo, sconsolato, malinconico – e dunque passatista – che abbiamo noi guardando oggi loro. Lo vedo, a distanza di cent’anni, come un movimento lontano e impolverato, vitalissimo ma in qualche modo stretto in un angolo, sconfitto, con centinaia di artisti in tutte le discipline che hanno prodotto qualcosa finché hanno potuto e poi, nella maggior parte dei casi, hanno smesso o hanno continuato tra tantissime difficoltà, nel loro angolo ostinato.
Prendiamo le donne: tra le autrici di cui utilizziamo i testi c’è chi ha potuto scrivere perché era la benestante moglie del tal Conte, chi ha dipinto perché era ricca di suo, chi lo ha fatto finché il marito era lontano in guerra, chi da nubile ma poi si è sposata ed ha smesso per dedicarsi alla famiglia e chi denunciava con lucidità quanto fosse dura “la vita della futurista che si mantiene da sé”. Anche tra gli uomini c’è chi come Libero Altomare – cui Marinetti pagava i treni e gli alberghi che l’amico non poteva permettersi pur di averlo alle serate futuriste – ad un certo punto si è trovato ad accettare un posto alle Ferrovie dello Stato, mi pare come capostazione a Civitavecchia.
E poi, nel pieno degli anni Trenta, ci sono state le ultime ondate di artisti riconducibili al Futurismo Storico, nell’Italia ormai fascista delle guerre coloniali e della Guerra di Spagna e poi della Seconda Guerra Mondiale, uomini e donne spesso giovanissimi, rappresentativi di un’Italia culturalmente sempre più isolata dagli altri paesi e che avevano, forse, nel Futurismo una piccola ala protettiva e una valvola di sfogo per cercare di dire qualcosa di artisticamente contemporaneo, almeno residualmente avanguardistico, al tempo delle campagne naziste contro l’arte degenerata e delle statue di marmo neo-greche o neo-romane che piacevano tanto a Hitler e Mussolini.
A fine anni Sessanta Aldo Palazzeschi ha detto che vedeva sì un ritorno di interesse per il Futurismo, dopo l’oblìo del dopoguerra, ma solo perché ormai anche il Futurismo era passato. E come tale mi appare ora, come un cimitero di vinti e di emarginati dalla Storia, però molto vitale, che mi crea una grandissima fascinazione per quanto i singoli hanno provato a fare.
Leggere con il sapore della sconfitta alcune tra le cose scritte all’epoca che sono sì nazionaliste, guerrafondaie, sull’Italia al centro del mondo, col senno di poi di due guerre mondiali nel mezzo e la maggior parte di questi testi e autori mai più ristampati o letti, mi provoca una certa affettuosa tristezza, che comunque è bella e poetica e me la tengo stretta. Anche il mio disaccordo con i contenuti, qua e là oggettivamente indifendibili, diventa così struggente, caldo, commovente. Paradossalmente credo che il Futurismo mi piaccia tanto perché lo guardo da una prospettiva per cui quel suo movimento mi appare una spinta che è finita in un angolo.
Il Futurismo è stato sinonimo di slancio tecnologico, una spinta verso nuovi traguardi sociali e culturali, ci sono delle intuizioni o delle traiettorie che avete colto, scoperto, riscoperto nel processo di ricerca che avete svolto con il vostro lavoro?
E.F: Nel nostro ultimo lavoro c’è il sapore futurista, la fascinazione per le macchine, la spinta verso il futuro. Questi temi ci sono, non ci siamo addentrati ma esistono, sono compresenti, però ha a che fare più con il disprezzo della donna, basti pensare all’estratto dal Mafarka che utilizziamo nello spettacolo: il monologo di un supereroe immaginario che costruisce suo figlio, lo genera da sé senza l’aiuto di una donna, in una sorta di grande sogno maschile di sbarazzarsi dell’altro sesso e di potersi riprodurre in autonomia e farsi immortale sfuggendo per sempre alla morte. Un figlio costruito meccanicamente, una specie di Goldrake. Un sogno di macchina super efficiente proiettata verso il futuro che però non è il centro del nostro spettacolo.
D.T: Queste decine di talentuosi geniali o mentecatti scrittori futuristi si sono occupate di tutti i generi e le discipline, dall’architettura alla musica, dalla pittura alla ceramica, all’abbigliamento, tutte le forme di espressione. Già cent’anni fa i futuristi parlavano male dell’industria del turismo e ce la ritroviamo ancora adesso. Marco Paolini nel suo famoso spettacolo sulla diga del Vajont, en passant, parlava male di Marinetti come se quest’ultimo avesse voluto evocare la futura Porto Marghera, quell’industria terribile, inquinante. Si tratta di una banalizzazione e di una semplificazione.
Da un lato si possono condividere alcuni scritti o pensieri che si leggono, dall’altro si è tentati di interpretarli con il senno di poi come derive terribili. Ci si può trovare di tutto: anticipazioni del presente, realtà che sono rimaste uguali se non addirittura peggiorate, cose non condivisibili. Addirittura ci sono dei manifesti contro il Teatro Greco di Siracusa, dove si propone di programmare del teatro contemporaneo, anziché quello antico, commissionando nuovi testi a giovani autori viventi.
Si parla del Futurismo come qualcosa di morto, ma ha veramente esaurito una necessità storica di avanguardia continua?
E.F: In sé sì, ha esaurito la sua funzione. Rimane paradigmatico perché ha ispirato la stagione delle avanguardie novecentesche ma non vedo la possibilità di una sua riesumazione. È immerso nel suo tempo, nel suo contesto storico, senza una proiezione futura. Il futurismo è impastato di irrazionalismo e vitalismo, non è scientismo, non è di stampo positivista, ovvero fiducia nella scienza che poi delude e non governa, in realtà è imbevuto di almeno due cose: l’irrazionalismo (e quindi il contrario del positivismo) e una fiducia nell’evoluzione della tecnologia, non della scienza in sé.
D.T: È immerso nella cultura del suo tempo perché alle spalle ha l’Ottocento, il Decadentismo europeo e, in Italia, quel macigno rappresentato da Gabriele D’annunzio. C’è sia lo slancio per il nuovo, sia la fascinazione per il mondo che cambia, la tecnologia. C’è anche un afflato generazionale, simbolico, di gioventù che vuole prendere il posto del mondo di prima, prendere spazio come generazione, anzi generazioni consecutive di artisti. C’erano anche scrittori anziani che si sentivano simbolicamente futuristi perché percepivano la cultura italiana del tempo come qualcosa di vecchio e provinciale. Uno dei grossi paradossi del Futurismo storico è che da un lato è un movimento artistico internazionale e, quindi, è influenzato e influenza altri analoghi movimenti europei e mondiali ma dall’altro è sempre di più nazionalista.
Questo primo ciclo di rappresentazioni è stato sicuramente un test. Cosa vi ha lasciato e quali indicazioni o risposte avete ricavato per le prossime date, quanto è stato importante il contatto con il pubblico?
E.F: Questo primo ciclo è stato importante perché ci serviva incontrare il pubblico. È pur vero che sia il debutto, sia le altre repliche si sono svolte tutte in festival estivi (tranne una che era all’interno di un teatro) e quindi all’aperto. Il nostro spettacolo Disprezzo della donna può essere fatto ovunque anche se la collocazione migliore è in una sala, al chiuso, con uno spazio scenico non piccolo ed un buon impianto audio.
Per ora le risposte siano state buone, mi è sembrato che sia stato accolto e compreso bene, un po’ da tutti, con molte manifestazioni di interesse per gli argomenti che abbiamo portato. In molti ci hanno detto che questo spettacolo riguarda il presente, non è museale e questo è molto interessante. Poi, pian piano, incontrando altre tipologie di pubblico vedremo come andrà. Finora siamo molto contenti.
Abbiamo sperimentato in questi mesi anche una versione site specific “radiofonica” per il Festival Il giardino delle Esperidi, in cui emergeva soprattutto la parte vocale. Non c’era la spazialità né il disegno luci ma una grande suggestione: abbiamo cominciato all’ora del tramonto, siamo diventati via via due silhouette e l’ultima parte dello spettacolo si è svolta al buio. Devo dire che è stato un esperimento molto importante e penso che terremo questa versione tra le varie possibilità di allestimento.
D.T: Queste prime repliche sono state una buona palestra per verificare come lo spettacolo può cambiare in situazioni così diverse tra loro. È stato utile perché ci è stata confermata la comprensione delle principali linee dello spettacolo. Il fatto che ci sia questo filo teso tra cento anni fa e il presente, in continuità e in attrito, è qualcosa che hanno letto tutti. Per molti questi testi sono risultati insoliti, ma comprensibili.
Si è creato un certo interesse perché per la quasi totalità si tratta di testi poco conosciuti, a volte sorprendenti per i toni tutt’altro che stereotipatamente “futuristici”. C’è stato, inoltre, molto apprezzamento per aver scelto la questione della donna come focus principale, che faceva sentire subito vicini testi così lontani nel tempo. Il nostro lavoro di montaggio e di concertazione vocale e fisico mi pare sia stato apprezzato.
Che tipo di lavoro di costruzione drammaturgica avete realizzato con i testi che avete selezionato ma soprattutto con quelli che avete scartato?
E.F: Abbiamo creato una drammaturgia che si nutre di questi testi, secondo un nostro disegno, sovrapponendo, frammentando, rielaborando parole, versi liberi, onomatopee da romanzi, poesie, manifesti, tavole parolibere e articoli di giornale di una quindicina tra autori e autrici che hanno attraversato la storia del Futurismo italiano. Dietro questi quindici autori e autrici ce ne sono altre decine. Dietro agli autori e autrici ci sono le suggestioni dei pittori, degli architetti, dei musicisti futuristi e futuriste. Tutto quello che non è entrato nello spettacolo, come sempre, nutre quello che è rimasto.
D.T: Abbiamo lavorato secondo criteri anche musicali e ritmici, in parte riprendendo dei materiali che avevamo già abbozzato in forma provvisoria per una serata di letture radiofoniche per Radio Rai3 in occasione del centenario del Futurismo, nel 2009, in parte altri materiali sui quali avevamo lavorato nel 2005 col musicista Natale Romolo per un altro spettacolo e per un laboratorio sul futurismo che avevamo tenuto presso L’Università ‘La Sapienza’ di Roma. Il lavoro sul suono è stato curato questa volta con un altro musicista e sound designer, Lorenzo Danesin, già nostro collaboratore per Ottantanove e per il progetto Archeologie future, e perfezionato durante l’ultima fase di prove dai nostri produttori Scarti di La Spezia insieme a due fonici bravissimi: Fabio Clemente e Marco Oligeri.
E.F: A volte poi anche i testi scartati diventano possibilità di percorsi ulteriori, se non veri e propri spin off. È il caso del teatro di Filippo Tommaso Marinetti, che abbiamo letto per realizzare Disprezzo della donna ma che non è entrato in nessun modo nel lavoro, ma che diventa ora il centro di una regia autonoma. A settembre lavoreremo con gli allievi del III anno dell’Accademia teatrale Cassiopea di Roma proprio su un testo di Marinetti del 1925, I prigionieri, rappresentato una sola volta in Italia, in una messinscena curata direttamente da lui, con musiche originali di Franco Casavola e scene di Enrico Prampolini. Una vera chicca. Un testo asciutto e molto contemporaneo: prigionieri e soldati con la guerra e la pandemia sullo sfondo e una sola donna, come sempre superprigioniera e bersaglio, oggetto del desiderio e delle proiezioni degli uomini.
C’è stato o ci sarà secondo voi il rischio di una lettura semplificatoria del testo/dei testi del vostro spettacolo?
D.T: Il rischio c’è sempre perché ciascuno vede il mondo in base alla sua idea del mondo, a quello che conosce, e in questo caso anche in base ai suoi pregiudizi che sovrappongono Futurismo e Fascismo o che automaticamente derubricano a divertissment poco serio o velleitarismo artistico poco comprensibile tutto ciò che a teatro abbia ancora un vago sapore di “avanguardia” rispetto alla buon vecchio binomio trama-personaggi, se non direttamente ad un classico riconosciuto che fa tanto comfort zone.
I nostri lavori sono, davvero da sempre, volutamente sempre divisivi, sperano di riuscire a dividere le persone in platea, se non di metterle in crisi almeno di non farle essere sicure del senso dello spettacolo. Questo è uno spettacolo femminista o uno spettacolo misogino? Io spero sempre francamente che le persone in platea si arrabbino con noi e soprattutto litighino tra loro. Poi vogliamo, come dicevo all’inizio, essere sempre molto densi, senza rinunciare ad esser diretti, voglio sperare “popolari”. Cerchiamo di essere violenti, feroci, taglienti, ma naturalmente vogliamo assolutamente anche esser comici e che alla fine ci facciano tanti applausi. Non tutti gli spettatori hanno le stesse sensibilità. Qualcuno che penserà che questo è uno spettacolo irritante e intollerabile ci sarà senz’altro.

Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.