La fratellanza che unisce gli interpreti chiamati a prendere parte a Bros – spettacolo di Romeo Castellucci andato in scena al Teatro Argentina di Roma dal 9 al 12 marzo – non è data da un legame di sangue, ma dall’obbedienza alla paternità di una medesima Legge. Una Legge la cui matrice – coincidente con le intenzioni della regia – «rimane fuori scena, invisibile agli spettatori», esplicitandosi in una serie di comandi che gli attori, secondo un indice comportamentale a cui hanno apposto la firma, sono tenuti a rispettare.
I ventuno uomini in scena – selezionati di volta in volta dai teatri in cui la pièce viene allestita – sono infatti all’oscuro di quel che accadrà durante la rappresentazione: è “semplicemente” eseguendo gli ordini a loro impartiti tramite un auricolare che diventano protagonisti nel «baratro di un presente assoluto», indossando una divisa da poliziotto che li rende indistinguibili gli uni dagli altri, e che dissolve la loro individualità in un corpo collettivo omogeneo e compatto.
Si assiste così a scene di violenza inaudita su corpi inermi che si dimenano a terra, a spari e a pratiche di tortura che prevedono waterboarding e manganellate, contorsione degli arti e volti insanguinati. Se il tema della “banale” esecuzione degli ordini in conformità al proprio “dovere” rievoca in maniera lampante la giustificazione dei crimini nazisti al processo di Norimberga, le scene di efferatezza agita dalle forze dell’ordine riportano alla memoria brandelli di storia recente, come i fatti legati al G8 di Genova nel 2001 (già nel 2003 Castellucci aveva dedicato due episodi di Tragedia Endogonidia alla figura di Carlo Giuliani), o le immagini dei pestaggi dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere allo scoppio della pandemia, rese poi pubbliche nel 2021, anno di debutto di Bros al LAC di Lugano.
Citando Walter Benjamin, è proprio nelle democrazie che la presenza della polizia viene, in maniera inquietante, a configurarsi come «spettrale, inafferrabile, diffusa per ogni dove», perché – con le parole di Massimiliano Tomba – «detiene nelle proprie mani un potere immane: essa agisce nel nome del popolo, e quindi tutto ciò che essa fa è fin da sempre l’espressione dell’unica volontà che ha dignità politica: la volontà popolare». Quella di Castellucci appare allora come una grandiosa analisi sul fenomeno dell’obbedienza, sulla violenza e sulla forma politica che di volta in volta la legittima. Il pubblico, confidando nel gioco della rappresentazione, dà infatti il suo assenso ai soprusi a cui assiste, autorizzando così implicitamente qualunque possibile azione, anche qualora fosse rivolta contro se stesso: proprio per questo, è ben lontano dal sentirsi al sicuro quando gli attori-poliziotti scendono con irruenza dal palcoscenico per posizionarsi al fianco degli spettatori in platea.
Per quanto imperscrutabile, la Legge che domina lo spettacolo è dunque accettata dagli astanti al punto che «il nodo tra attore e spettatore si stringe sino a soffocare ogni distinzione», come si legge nelle note di regia. Una Legge nei confronti della quale gli attori si pongono in rituale e feticistica adorazione, e che si declina in forme continuamente differenti nel corso della pièce: se a essere idolatrate sono inizialmente la gigantografia di un primate, la riproduzione di una statua greca o il ritratto di Samuel Beckett, gli ultimi disturbanti totem che fanno la loro comparsa assumono le sembianze di un robot dalle fattezze infantili, e di una macchina in grado di emettere – in maniera sorprendentemente estetica e quasi spirituale – sbuffi di vapore.
La riflessione di Castellucci si amplia allora per adottare i contorni di una vera e propria critica della civiltà occidentale: in Bros ripercorriamo le tracce di un’umanità che, perseguendo il mito del progresso e di una razionalità meramente strumentale e calcolante, «invece di entrare in uno stato veramente umano – secondo la lettura adorniana –, sprofonda in un nuovo genere di barbarie». Ed è proprio nel contesto di questo “mondo capovolto” e completamente tecnologizzato, in cui l’uomo si trova a essere sussunto e dominato da ciò che egli stesso ha prodotto, che si intesse con sapienza la partitura di musica elettroacustica di Scott Gibbons: sottendendo l’intero sviluppo dello spettacolo, i suoni perturbanti immaginati dal compositore statunitense scandiscono il ritmo ossessivo e disumano attraverso il quale il rito del gruppo e della massa viene compiuto.
L’atmosfera tetra che pervade la messinscena di Bros – resa a tratti solenne dal dispiegarsi di scuri stendardi riportanti i motti in latino ideati da Claudia Castellucci – sembra poter essere spezzata soltanto dalla comparsa di un bambino (Filippo Fermini) nell’epilogo: una figura minuta in tunica bianca, quasi una nuova apparizione del profeta Geremia (Valer Dellakeza), che a inizio spettacolo preconizzava la sventura in un lungo monologo in rumeno, linguaggio incomprensibile al pubblico, e per questo destinato a rimanere inascoltato.
Ma dalla weberiana “gabbia d’acciaio” della società contemporanea è impossibile fuoriuscire – sembra affermare Castellucci – e il carattere ciclico della violenza è destinato a essere reiterato: è così, allora, che al piccolo – fugace incarnazione della speranza di un altro futuro possibile –, ciò che viene lasciato in eredità è un manganello, alla stregua di un testimone.
Nasce a Brescia nel 1994. Dopo un periodo trascorso a Monaco di Baviera, si laurea in Scienze Filosofiche all’Università di Padova, approfondendo il pensiero estetico di Adorno. Si diploma al Master in Critica giornalista presso l’Accademia Silvio D’Amico di Roma con una tesi dedicata al teatro di Pasolini nella visione di Antonio Latella. Attualmente scrive di teatro, cinema e letteratura sulle riviste online Tre Sequenze e Bookciak Magazine.