Lo spettacolo Frankenstein della compagnia dei Motus rianima la trama e la struttura del celebre romanzo del 1818 di Mary Shelley adattandolo alla contemporaneità attraverso l’operazione drammaturgica di Ilenia Caleo.
A muoversi in scena sono le tre prospettive di Shelley (Alexia Sarantopoulou), di Victor Frankenstein (Silvia Calderoni) e della Creatura (Enrico Casagrande) alternandosi in uno spazio in costante metamorfosi, ma che mantiene una razionalità coerente.
Due grandi teli traslucidi diventano leggerissimi, manovrati a piacimento per costruire i diversi ambienti in cui si svilupperà la trama. L’azione è suddivisa in veri e propri capitoli, la cui nomenclatura viene proiettata con un numero e un’epigrafe estratta dal romanzo su un altro telo opaco, al centro tra i due.
Ogni personaggio, attraverso il suo percorso narrativo che supera la trama del romanzo, sono dei caratteri paralleli tra di loro ma autonomi. Sul palcoscenico in basso a destra campeggiano le iniziali della scrittrice, sembrano plasmate nel ghiaccio, una firma su un quadro.
Sarantopoulou fin dalla sua entrata in scena dissacra le lettere sgranocchiandole: al termine dello spettacolo non saranno più visibili.
La scrittrice viene colta mentre annota suggestioni sulla sua futura opera, inforcando un paio di occhiali. Shelley/Sarantopoulou disegna lo scienziato e la sua mostruosa progenie, venute fuori dalla sua giovane immaginazione, reclusa in un corpo di donna dell’Ottocento, nati durante un ritiro con il marito ed altri celebri autori dell’epoca. Scomparendo dietro le quinte lascia spazio alla viva voce di Frankenstein e della Creatura, che abitando lo spazio iniziano a raccontare la loro storia.
Prendono piede suoni di tempesta, pioggia, vento, di una natura che pare ribellarsi all’empietà del gesto dello scienziato, che gioca a fare dio. Le luci si spengono nel momento in cui la la storia assume tinte di un atto d’amore, che scaturisce dall’atto della creazione.
Shelley si spoglia delle sue vesti leggere e provocanti, mostrando il suo corpo nudo per poi ingessarsi un’ampia gonna verde smeraldo con le maniche a sbuffo.

Dietro a quest’armatura ottocentesca si cela: un corpo nudo con indosso dei pesanti stivali neri, nella solitudine di un maniero che non c’è, a fare i conti con la sua fervida fantasia che la società tenta di imbrigliare.
Shelley è ossessionata da sogni e dai immagini di una femminilità generatrice che ripudia programmaticamente. Ad essere rivendicata è una forza creatrice altra,Mary aspira a qualcosa di più grande perché sa di averne le capacità. Un compito gravoso, quello che si autoimpone e che deve fare i conti con una società che si aspetta ben altro da lei, di certo non un mostro, non un romanzo.
Frankenstein in scena spinge oltre i suoi sogni di creazione, Silvia Calderoni si presenta al pubblico con la maschera di Boris Karloff, imitando la classica camminata spezzata del mostro. Fa qualche metro, saluta il pubblico che ride della tenerezza dell’immagine e con un brusco movimento del busto se la sfila senza mani.
Anche Frankenstein è ossessionato, dalla possibilità di un’altra via, di un altro tipo di creazione: tante membra che creano un corpo solo, che lo scienziato trasfigura nelle notti negli obitori, tra le lapidi dei cimiteri, per ritrovare la vita in corpi inermi.
Ma proprio come un bambino, una volta dato alla luce il frutto dei suoi macabri incubi lo abbandona. Non stanco, ma terrorizzato dallo stesso fuoco che lui ha donato agli uomini. Il suo corpo e la sua voce sono in perenne fremito, mentre disseziona cadaveri, aziona ragni meccanici, percorrendo tutto il perimetro del palcoscenico, per poi accasciarsi al centro In fuga dalla sua creatura che lo perseguita.
C’è chi il proprio nome se lo mangia, c’è chi non lo possiede nemmeno. La Creatura compare finalmente alle spalle dello scienziato che trema di paura,. Il suo desiderio tutto umano di scorgere la mostruosità, magari tra le dita della mano che nel frattempo copre lo sguardo, non verrà saziato.
L’alterità allora si traduce in una inquietante figura tutta avvolta da una specie di palandrana che si fa strada nel gelido ambiente. La voce di Casagrande sembra giungere da un abisso di curiosità e di sofferenza.
Il telo di destra diventa una piccola grotta di ghiaccio dove la Creatura si rifugia dall’umanità che lo ha generato, istruito, educato e ripudiato. Racconta la sua storia di solitudine che nasce da una necessaria presa di coscienza delle leggi che regolano la società: potere e bell’aspetto sono i lasciapassare per una vita soddisfacente nella collettività.
La consapevolezza di non essere stato creato era per rientrare in quegli stessi canoni, non riesce a toglierle la voglia di ballare, indossando la solita maschera, con un grande girasole tra le mani.
La mostruosità di questa Creatura è solo da immaginare, andando oltre la vivida realtà del corpo nudo di Casagrande. Le cuciture, i bulloni, il patchwork di carne da cui è composta nell’immaginario fantascientifico non sono sempre a vista, anzi, quasi a suggerire un’alterità celata e condivisa. Frankenstein (a love story) è la storia di una gestazione, della metamorfosi che il corpo ospitante subisce.
La genesi di un’idea, di una creazione artistica da cui scaturisce un essere vivente. La creazione è un atto d’amore, l’alchimia di due geni che ne creano un terzo unendosi. Shelley-Sarantopoulou conosce l’equilibrio fra fascino e disgusto che caratterizza il momento della nascita , mentre attacca al seno la maschera in plastica di Karloff.
In uno spazio senza tempo i Motus creano un altro essere umano, la Creatura, un perfetto Adamo (o forse Eva) della nostra contemporaneità. spermatozoo e utero, papà e mamma non esistono più, lasciando spazio ad una disforia che si scopre essere la forza di questo futuro superuomo.
L’umanità riparte dalla voce profonda di Casagrande che chiede allo scienziato altri suoi simili per formare una comunità. Sorge un’alba alle spalle di Sarantopoulou, mentre al centro del palco siede per terra con le gambe aperte, ricordando l’Origine del mondo di Courbet
Il pubblico accoglie con un caloroso applauso gli interpreti alla fine della messa in scena. Silvia Calderoni con un piccolo gesto del braccio presenta la maschera di gomma della Creatura abbandonata sul palcoscenico. Lasciando anche a lei il meritato riconoscimento.

Nasce a Palermo nel 1998; lì si laurea al Dams, curriculum spettacolo, scoprendo diverse realtà teatrali e cinematografiche locali, più o meno indipendenti, e collaborando con queste. Tutt’ora continua i suoi studi a Bologna, specializzandosi in discipline del teatro.