Quando si deve intervistare un’artista che ha lavorato con alcuni dei più grandi nomi del teatro italiano ed europeo, ci si immagina una personalità altera, elegantemente scostante. Maria Grazia Sughi, che ha calcato e calca con passione e dedizione i palchi dentro e fuori Europa da più di 60 anni, ha invece una cortesia e una luce negli occhi che annullano qualsiasi distanza tra lei e l’interlocutore, con un’umanità rara che addolcisce ogni cosa. Per riflettere su come i professionisti del mondo teatrale si rapportino con le generazioni più “giovani”, abbiamo proposto un dittico: due interviste per due grandi artisti, Andrea Cosentino e Maria Grazia Sughi, che, nella sua luminosa casa di Cagliari, dove vive da tanti anni, ci ha parlato del suo percorso d’attrice e di questo suo presente carico come non mai di collaborazioni (Lucia Calamaro in primis, ma anche Rezza-Mastrella), di insegnamenti, speranze e meraviglia.
Una vita dedicata al teatro. Quando hai capito che fare l’attrice sarebbe stato il tuo destino?
Beh, che la mia vita sarebbe stata dedicata al teatro l’ho capito a 8 anni. Anche se forse chiamarlo “teatro” è un po’ eccessivo: mi avevano scelto per fare da speaker in una radio per le scuole della Toscana. A 12 anni facevo già un teatro di tipo amatoriale e a 16 sono stata a un festival di Pesaro interpretando “la figliastra” di Pirandello. E mi ricordo che in quell’occasione alcuni mi dissero: “il giorno in cui reciterai come ti muovi, sarai una grande attrice.” Ora, grande non lo sono diventata, però avevo un ottimo rapporto con il mio corpo, il fisico c’era, ma poi chissà come l’avrò fatta questa figliastra! Lo stesso pezzo poi lo portai a 18 anni al provino con Giorgio Strehler, perché volevo entrare nella sua scuola del Piccolo, ma lui, dopo che mi vide, mi disse: “ma quale scuola! Tu sei già pronta. Guardati allo specchio!”. Le gambe mi tremavano dall’emozione, ma alla fine mi scritturò per il suo spettacolo “Estate e fumo”. So che quello fu l’incontro decisivo, veramente un grande incoraggiamento per l’avvio della mia carriera. Io poi sono particolare, ho le mie timidezze, ma dopo certe conferme ho iniziato a lavorare regolarmente, senza mai fermarmi.
Qual è lo spettacolo a cui sei più legata e perché?
Dal cuore mi viene da dire l’ultimo, “Darwin inconsolabile” di Lucia Calamaro. Ci sono tante cose da dire su questo lavoro, ma anche altri spettacoli degli ultimi anni mi hanno lasciato un profondo segno nel cuore. Come “Sonnai”, con la regia di Davide Iodice e un cast composto da attori professionisti e homeless. Un altro a me molto caro è l’“Orestea” con la regia di Valentino Mannias. Tornando a “Darwin inconsolabile”: è uno spettacolo scritto e diretto da Lucia, ma ciò che mi ha colpito è stata la sua capacità di integrare nel testo tutte le improvvisazioni degli attori, perciò buona parte delle battute che dico in scena sono in fondo “mie”. Lucia Calamaro è una grandissima autrice, una delle migliori se non la migliore in Italia. Ha poi un enorme rispetto per gli attori e riesce perciò a metterti sempre nella condizione di portare qualcosa di nuovo. In “Darwin inconsolabile” mi sono veramente stupita della mia interpretazione, che è nata senza sforzi, durante le prove, piano piano, senza mai ragionare con la testa. Per questo lavoro sono emersi tanti aspetti reali della mia vita, sono scaturite quell’ironia e quella drammaticità che sono elementi innati della mia personalità. Una vera sorpresa. Alla mia età, vorrei che ogni spettacolo potesse darmi questo stupore.
Con Lucia Calamaro hai lavorato anche in altri spettacoli, precedenti a “Darwin inconsolabile”. Mi viene perciò da chiederti come sia nato il vostro sodalizio artistico.
Dunque, ci sono stati tre momenti fondamentali: prima di tutto avevo fatto un laboratorio di scrittura con Lucia, per cui avevo scritto una paginetta e mezzo, una sintesi di parte della mia vita. L’ho letta e lei è rimasta molto colpita. Poi ho fatto le prove per un suo testo, “Si nota all’imbrunire”, con cui avevo iniziato a entrare in contatto con il suo modo di lavorare. Dato che lo spettacolo alla fine non si è più fatto, io le ho detto: “Senti Lucia, abbi pazienza, almeno scrivi un monologo per me.” E così ecco il terzo incontro, quando lei ha scritto “Urania d’agosto”, che è stato poi diretto in modo eccezionale da Davide Iodice. Io non amo i monologhi, per fortuna infatti in scena c’era con me un’altra presenza silenziosa, interpretata da Michela Atzeni, che arricchiva il palco di altri personaggi e dinamiche. “Urania d’agosto” è uno spettacolo che ho amato molto, con le parole di Lucia, il grande lavoro di sistemazione e lo stile visionario di Davide. Mi sento di dire che l’incontro con Lucia può essere definito come un incontro “antico”, perché c’è stata un’intesa davvero particolare, sia sul piano professionale che su quello umano. Con lei mi sono sempre sentita libera, ho percepito la sua stima e questo mi ha rassicurato, mettendomi in condizioni poi di poter fare insieme anche “Darwin inconsolabile”. In questo spettacolo siamo quattro in scena e c’è una grandissima complicità fra di noi: siamo quattro protagonisti, ognuno fa il tifo per l’altro, c’è un legame profondo e questo al pubblico è passato. Ritengo che, in qualsiasi lavoro, il senso di unità sia fondamentale per la sua buona riuscita. C’è una definizione buddista: “itai doshin” che significa “tanti corpi e un’unica mente”. Siamo tutti diversi in scena, ma abbiamo un unico scopo: lo spettacolo. Quando avviene questo straordinario miracolo, il nostro lavoro ha un successo speciale.
E con Antonio Rezza? Altro grande regista che ti ha coinvolto in uno dei suoi ultimi lavori, “Hybris”.
Rezza è stato un incontro di simpatia. Era venuto per fare uno spettacolo a Cagliari e ci siamo incontrati a una cena. Eravamo seduti vicini, ci siamo messi a parlare e lui a un tratto ha detto: “ma tu lo faresti uno spettacolo con me?” e io gli ho risposto: “certo che lo farei!”. Quindi l’ho raggiunto ad Anzio, dove vive e crea. “Hybris” è un lungo monologo in cui si evocano delle persone in scena, ma quando sono arrivata Antonio era già molto in là con le prove dello spettacolo. Ho scoperto solo dopo che ci stava lavorando da due anni! Mi ci ha buttato in mezzo e ho trascorso i primi giorni di prove ad ascoltare Antonio e ridevo, ridevo, non riuscivo a trattenermi. Nello spettacolo interpretavo sua madre e il divertimento è stato enorme. In seguito è nata una grande amicizia sia con lui che con Flavia Mastrella. Sono due artisti e amici straordinari.
In questa lunga carriera, c’è un personaggio, o una “maschera”, che vorresti interpretare ma che non hai ancora fatto?
Non c’ho mai pensato. Quello che ho trovato nella mia strada d’attrice con tanti grandi artisti, da Sarah Ferrati, a Tino Buazzelli e Paolo Poli, non mi ha lasciato desideri irrealizzati per quanto riguarda ruoli da interpretare.
Certo, da giovane avevo i miei sogni, ma adesso posso avere delle ispirazioni, niente di più. Quante volte mi hanno regalato copie di “Giorni felici” dicendomi: “la protagonista, Winnie, sei tu!”, ma in fondo “Urania d’agosto” è una sorta di “Giorni felici” moderni. Quelli che sono stati i miei sogni in fondo li ho realizzati. Il comico-grottesco, la leggerezza, l’essere un po’ astratta, questa è sempre stata la mia cifra stilistica come attrice teatrale.
Se devo esser sincera, mi piacerebbe fare il cinema. Ho avuto qualche piccola esperienza, ma vorrei fare di più. Anche un piccolo personaggio, adatto a me, non ho pretese particolari. Forse, come ispirazione, mi piacerebbe interpretare personaggi simili a quelli di Giulietta Masina, ecco. Mi resta questo desiderio perché quando ho iniziato a recitare, nel secolo scorso, coloro che facevano teatro non venivano minimamente considerati per il cinema. Si diceva non fossero naturali. Oggi invece i registi hanno finalmente capito le potenzialità degli attori e delle attrici teatrali anche sul grande schermo. Abbiamo dimostrato che chi fa teatro ha una sensibilità e una tecnica che permette di recitare nei film senza problemi.
In quanto attrice, senti un divario generazionale, un approccio lavorativo diverso rispetto al modo di preparare uno spettacolo?
La prima cosa che mi viene da risponderti è che siamo concretamente in un altro secolo. I ricordi degli attori e dei registi del passato sono per me meravigliosi e molti di quegli artisti avevano un modo di recitare modernissimo, altri no. La stessa identica cosa accade però oggi: ci sono attori che sembrano attori del ‘900 e che recitano in un modo che non ha più senso. Certamente qualcosa è cambiato e bisogna stare al passo con i tempi. Il pubblico deve sentirci, riconoscersi, si deve creare un’empatia. Inutile riproporre qualcosa che era già vecchio decenni fa. Io credo che il ‘900 abbia avuto gli attori e le attrici più grandi d’Europa, nel cinema e nel teatro, alcuni di fama mondiale. Sarah Ferrati è citata in tutte le antologie teatrali, per esempio. Per cui mi chiedo, perché continuare a recitare in quel modo superato? A me questa contemporaneità piace tanto, e contemporaneità non vuol dire recitare come in una fiction scadente, perché la televisione fa cose anche bellissime, ma in un modo coerente con l’epoca in cui viviamo. L’approccio al teatro è notevolmente diverso oggi, questo sì.
Prima c’era un rigore estremo, cosa che è stata ed è alla base della mia vita. Facendo teatro io sono cresciuta come persona, sono stata educata alla vita. Mi sembra che in molti casi oggi ci sia meno disciplina, a volte molta superficialità. Detto questo, vedo giovani preparatissimi, che si formano con scuole, stage, che sanno fare di tutto, pieni di talento. Purtroppo però la richiesta è molto inferiore in confronto al numero di chi si propone, quindi questo è un momento estremamente difficile per fare teatro rispetto al passato. Ai miei tempi eravamo pochi, era più facile lavorare con continuità in questo ambiente.
Cosa è cambiato invece nella tua routine di preparazione agli spettacoli?
Io per prima sono diversa, perché, al di là dell’età, sono cresciuta come persona. La mia ora è una condizione di ascolto. Parlo pochissimo durante le prove, è accaduto in tutti gli ultimi spettacoli che ho fatto. In nome della mia esperienza potrei intervenire di più, ma parlo solo quando è strettamente necessario. Perché ogni volta voglio essere una pagina nuova, pulita. “Ricomincio da adesso”, questo è il mio nuovo approccio. Naturalmente l’esperienza del passato conta, però sono in sostanza una persona tranquilla, che è felice di fare teatro.
Hai sempre avuto questo atteggiamento durante le prove? Mi par di capire di no.
Infatti, no. Da ragazzina ero terrorizzata all’idea di andare in scena. Somatizzavo fisicamente, con sfoghi, febbre. Mi auguravo che accadesse di tutto per non dover recitare. Avevo paura del giudizio. In seguito ho trasformato il mio punto di vista. Non penso più al giudizio. O meglio, un complimento fa sempre più piacere di una critica, ma la critica non mi sposta, non sposta il mio centro. Non rimugino più sui commenti alla mia interpretazione. Quando ero giovane invece mi sentivo molto spaventata. Anche se, appena entravo in scena, dopo tre minuti di forte batticuore, poi passava tutto. Cominciava il gioco. Questo entusiasmo sul palco è rimasto uguale.
Stai lavorando con registi importanti, anagraficamente più giovani di te. Qual è l’aspetto più positivo nell’affidarsi a professionisti “contemporanei”? Cosa ti spinge a metterti in gioco ogni volta?
Il divertimento e l’emozione. La gioia di stare con questi artisti mi fa sentire legata allo spettacolo. Una volta sconfitte le paure della giovinezza adesso mi godo questo “premio” ogni volta che recito. La memoria per fortuna funziona ancora e mi piace studiare, ma la verità è che ho una grande fiducia nell’essere umano. Un grande amore per le persone. Non è complicato. Io mi sento una persona semplice. Ovviamente ho le mie complessità, ma nelle relazioni sono semplice e sincera.
Che consiglio daresti ai teatranti e alle teatranti più giovani?
Bisogna avere un grande coraggio e una grande tenacia per costruirsi una propria identità artistica, un’autostima fondata, senza però diventare troppo arroganti. È necessario commettere errori, si deve sbagliare. Ma la perseveranza, unita alla passione, permette di superare le insicurezze e mostrare il proprio valore. Un motto che ripeto spesso a tutto il cast di “Darwin inconsolabile” è: “fragili, ma non deboli”.
Emilia Agnesa, sarda trapiantata a Roma. Drammaturga, autrice e attrice teatrale, diplomata in drammaturgia all’Accademia Nazionale Silvio d’Amico. Laurea specialistica in lettere antiche, insegnante abilitata di latino e greco. Collabora come autrice con diverse compagnie nazionali e internazionali.