Con un salto indietro nel passato, raccontando le storie di re, regine e cortigiani, i destini segnati dagli oracoli del dio Apollo, le stragi degli anni di piombo, le cellule terroristiche, i rapimenti di persona, lo sfondo nero dell’omicidio di Pasolini, si possono descrivere e interpretare il presente e l’attualità. Altrimenti si può rimanere tra le storie dei giorni nostri, in mezzo alle inquietudini di ragazzi quasi adulti.
Da sempre l’uomo si è chiesto il senso di un eterno fluire, di una cronologia che potrebbe sembrare un insieme casuale di eventi, tra i decenni e i secoli. È uno studio continuo, una lezione: tutto ha un inizio e una fine. Questo vale per le cose, le persone, gli animali. La vita inizia e termina, il resto è solo transitorio. José Mujica scrisse che: “La vita è questo, un minuto e se ne va. Abbiamo a disposizione l’eternità per non essere e solo un minuto per essere”.
Un concetto simile lo aveva espresso William Shakespeare, molto tempo prima dell’ex Presidente dell’Uruguay, nel celebre monologo di Amleto. Il racconto d’inverno di Shakespeare, andato in scena al Teatro India dal 7 al 10 febbraio, con la Compagnia dei Giovani del Teatro dell’Umbria, è una delle sue opere più complesse dal punto di vista narrativo, fa parte delle cosiddette “Romances”.
Scritta intorno al 1610, debuttò il 15 maggio 1611 al Lobe Theatre di Londra. Rappresenta l’ultima fase della produzione shakespeariana insieme a Pericle, Cimbellino e La Tempesta. Gli studiosi del Bardo ascrivono The winter’s tale – Il racconto d’inverno a un “tardo romanticismo” ma forse l’uomo, non il celebre drammaturgo di Stratford-upon-Avon, era sofferente. Shakespeare aveva pianto la morte del figlio Hamnet, avvenuta a soli 11 anni e questo è difficile non sentirlo vibrare ancora oggi.
Andrea Baracco ha curato l’allestimento, insieme a Maria Teresa Berardelli, e ha firmato la regia dell’opera che egli stesso definisce come una “favola nera” che inizia con “C’era una volta un uomo che abitava vicino a un cimitero”.
La storia ha per protagonista Leonte, re di Sicilia, grande amico del re di Boemia Polissene. Due fratelli, senza legame di sangue, definiti “agnelli gemelli”. Un’ossessione cieca, la gelosia, li dividerà per sempre. Sospettando una relazione tra l’amico e la moglie, la regina Ermione, Leonte distruggerà tutto ciò che ha di più caro. Perderà la moglie, vittima di un ingiusto processo e a nulla servirà il coraggioso appello della dama Paulina. La sposa innocente morirà in prigione, dopo aver partorito la loro figlia Perdita, la quale, ritenuta dal padre sovrano come il frutto di un adulterio, verrà scacciata, abbandonata nei boschi.
Morirà Mamilio, il figlio maschio, l’erede. La bambina si salverà e si innamorerà di Florizel, figlio di Polissene. L’epilogo avverrà in Sicilia tra melodramma e magia. Ermione, conservata come statua viene riportata in vita da Paulina, custode della sua memoria, si ricongiungerà con la figlia e il marito. Il peso dello spettacolo si regge su un gruppo coeso di attori: Mariasofia Alleva, Luisa Borini, Edoardo Chiabolotti, Jacopo Costantini, Carlo Dalla Costa, Giorgia Filippucci, Silvio Impegnoso, Daphne Morelli, Ludovico Röhl.
12 baci sono lunghi come 12 mesi, un anno immaginato e vissuto tra il 1974 e il 1975
Il tempo e gli eventi possono usurare gli affetti, le passioni, le relazioni. In un gorgo di sentimenti non sempre limpidi. È sempre possibile redimersi, rimediare ai propri errori, alla brutalità, anche quando non c’è rimedio? C’erano due fratelli, il loro legame era di sangue in questo caso. Vivevano in provincia, a Napoli, città che un tempo fu la capitale del Regno delle Due Sicilie. Erano gli anni ’70, periodo di disordini, di conflitti sociali e politici. Il 14 novembre 1974, il Corriere della sera pubblicava l’editoriale con il titolo “Che cos’è questo golpe?”. Un forte j’accuse, scritto da Pier Paolo Pasolini quel testo convergerà in Scritti corsari, pubblicato successivamente nel 1975
12 baci sulla bocca è lo spettacolo scritto da Mario Gelardi, con la regia di Giuseppe Miale di Mauro. È il secondo appuntamento, dopo “Gli Onesti Della Banda”, che il Teatro di Roma ha riservato alla Compagnia NEST di Napoli al Teatro India. Massimo (Andrea Vellotti) sta per prendere in sposa l’unica donna che ha avuto nella sua vita. Dovrebbe essere felice, invece sembra non esserci conforto al suo malessere interiore. Suo fratello Antonio (Stefano Meglio) è un uomo che sa stare in quel mondo, con un ruolo a metà tra il giustiziere e il criminale, un picchiatore fascista.
Tra i due fratelli si inserisce Emilio (Francesco Di Leva). Un giovane lavapiatti con l’obiettivo di essere promosso in sala, in quel ristorante a conduzione familiare, e il sogno di andare a vivere a Londra. La sua “colpa”, se così potrebbe definirsi, è di aver fatto emergere una passione latente, quella di Massimo nei suoi confronti. La loro è inizialmente un’attrazione fisica, una lotta erotica.
Successivamente inizia a diventare qualcosa di diverso, che è intrinsecamente eversivo, un atto rivoluzionario contro l’ordine eterosessuale e patriarcale. Andrà punito con la stessa condanna barbara che verrà emessa contro Pasolini. Un atto di verità il sentimento di Emilio, cancellato con il suo sangue, perché nessuno osi turbare gli equilibri di una società. E di due fratelli maschi che hanno fin dalla nascita il vincolo precostituito alla riproduzione della specie. L’amore può avere una forte connotazione politica quando implica il coraggio di una scelta, tra sapere e tacere, essere e non essere. L’emancipazione dalla sottomissione e dalla dipendenza.
E quel sangue deve essere mostrato ed esibito. È una traccia di memoria, una prova del delitto e di un candore che è andato perso. Di un silenzio che è complice e carnefice. C’è il dramma in 12 baci sulla bocca, passa attraverso la violenza, così come avviene nella fabbrica shakespeariana. C’è il senso della tragedia dell’animo umano, in una battuta finale di 12 baci sulla bocca: “Tutti tenimm’ dint’ nu mariuolo, nu fetente” (Teniamo tutti una carogna, un fetente dentro).
L’Operazione – lo spettacolo da vedere per forza!
C’è un gruppo, anzi, un collettivo di quattro attori di oggi. È come se vivessero e si ispirassero agli anni ’70. Quello scantinato dove provano e si confrontano, quello spazio sotterraneo è come se fosse una bolla spazio-temporale. Uno di loro è l’autore del testo che porteranno in scena e che ha come protagonisti una cellula di terroristi negli anni di piombo, ma c’è un’altra storia che si sviluppa parallelamente.
In scena fino al 3 marzo allo Spazio Diamante di Roma, lo spettacolo L’Operazione è stato scritto da Rosario Lisma ( potete ascoltare qui l’intervista radiofonica a Clusteradio ) il quale lo interpreta con Fabrizio Lombardo, Andrea Narsi, Alessio Piazza e con la partecipazione di Gianni Quillico. La produzione è a cura del Teatro Franco Parenti, con la collaborazione di Jacovacci e Busacca.
Parla di quel lavoro che gli uomini non nobilitano, soprattutto quando le tutele vengono a mancare. Racconta di quanta incertezza ci sia in un paese come l’Italia, dove “si è giovani finché non si svolta”. Anche fino ai quarant’anni. “E se non si è svoltato, si passa dall’essere giovani all’essere falliti”, come recitano i protagonisti in scena. Intrappolati nella morsa di un precariato permanente, in un sistema che non è fondato sulla meritocrazia. Dove gli attori dipendono dal giudizio di un critico teatrale che può determinare, con il suo potere, la felicità o l’oblio, la buona o la cattiva sorte. Una figura quella di Mezzasala che viene continuamente evocata e ricercata in modo ossessivo dai quattro personaggi-attori.
La riflessione contenuta tra i quadri de L’Operazione è un approfondimento, un’analisi, senza la presunzione dell’assolutezza, sulla tendenza a ricercare nuove forme espressive. Una corsa a volte audace, a volte sregolata. Sperimentare e reinventare l’arte rischia di trasformarsi così in un’ossessione. E tra una frenesia e l’altra, una celebre citazione di Eduardo De Filippo: “Chi cerca lo stile trova la morte, chi cerca la vita trova lo stile”, finisce nei dialoghi dei quattro protagonisti.
Alla fine della storia cercheranno di trasformarsi in brigatisti, nel disperato tentativo di recuperare un po’ di dignità, ma il loro atto finale durerà il tempo di un’improvvisazione teatrale. C’è bisogno di tanto carattere, non solo di studio dei personaggi, sembra che suggerisca questo Rosario Lisma, come autore del testo e come regista, affinché possa essere messo in atto fino in fondo un progetto sovvertitore dell’ordine delle cose. L’Operazione parla molto di questi nostri tempi in cui l’assuefazione è forte al punto che tutto sembra iniziare e finire nello stesso momento, come una storia di Instagram.
“Posso lasciare il mio spazzolino da te?”
È ancora la vita, con le sue difficoltà e con le sue due metà di tragedia e commedia che ispira l’ultima proposta teatrale che abbiamo inserito nel nostro piccolo racconto di febbraio. Il suo titolo è un riflesso di una quotidianità, mediante una semplice domanda che contiene una richiesta sottintesa. Di quelle che una ragazza qualunque può rivolgere al suo fidanzato: “Posso lasciare il mio spazzolino da te?”. In altri termini significa: possiamo dare una svolta al nostro rapporto?
Massimo Odierna è l’autore del testo Posso lasciare il mio spazzolino da te? e il regista dello spettacolo che dal 18 al 20 febbraio è andato in scena al Teatro de’ Servi di Roma e al Nuovo Teatro Sanità di Napoli, dal 23 al 24 febbraio. Il cast che ha interpretato quella che viene definita come una “black comedy” è costituito da Martina Galletta, Luca Mascolo, Alessandro Meringolo e Luca Pastore.
Tre ragazzi sono i protagonisti: “Lei”, una ragazza in cerca della giusta occasione come attrice che costringe “Lui” , il suo fidanzato un po’ succube, a giocare alle storie inventate da “Lei”. C’è anche “L’amico” cinico, il coinquilino che abusa di alcool e sostanze di vario genere. Storie di insoddisfazione, di frustrazione e di inquietudine. C’è, infine, una quarta presenza, la figura inquietante dello speziale. Il medico della peste, con il becco di uccello e un lungo pastrano nero, appare e svanisce di tanto in tanto. Quella maschera è come un segnale di pericolo che quando si accende indica un’istanza nascosta.
Bisogna correre il rischio, osare, è il messaggio che ci lascia Massimo Odierna. È necessario continuare a raccontare, a condividere le storie, i nostri sogni.
E allora ecco che tutta l’eternità che spendiamo per “non essere” davanti a un breve, intenso minuto di “essere” comporta la scelta tra vivere da morti o morire da vivi. Raymond Chandler ne “Il grande sonno” si chiede:
“Che importa dove si giace quando si è morti? In fondo a uno stagno melmoso o in un mausoleo di marmo alla sommità di una collina? (…) Si dorme il grande sonno senza preoccuparsi di essere morti male, di essere caduti nel letame”.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.