Più ne parliamo e più ce ne rendiamo conto: la gravità del “caso Teatro di Roma” ha portata nazionale perché è il sintomo con cui torna a manifestarsi l’asservimento politico che affligge la cultura italiana.
E se a ogni sintomo corrisponde una causa, per scovarla occorre volgere lo sguardo ben più in là dello scorso gennaio, quando la scandalosa nomina di Luca De Fusco ha scatenato l’indignazione della comunità artistica romana.
Dopo tre anni di commissariamento, la nuova direzione del Teatro di Roma avrebbe potuto rappresentare un importante cambio di passo per una città collassata dal punto di vista culturale: una città in cui gli spazi indipendenti, su cui si regge buona parte della circuitazione del contemporaneo, sono continuamente vessati; una città con politiche culturali totalmente sfilacciate rispetto alle necessità del tessuto artistico locale che continuano a generare incontrollabili bacini di precarietà; una città che sprofonda sotto i colpi dell’egemonia delle poltrone; una città – e il discorso potrebbe essere allargato a ragione all’intero contesto nazionale – in cui la preminenza maschile e l’assenza di ricambio generazionale nell’occupazione di ruoli apicali di gestione soffocano la pluralità di esperienze e sensibilità che animano la scena artistica.
Ma questa è anche una città che, in maniera allarmante, sta subendo un inesorabile processo di militarizzazione, come dimostra il dispiegamento di forze di polizia all’ingresso del Teatro Argentina e del Teatro India che ha “accolto” una folta rappresentanza di cittadine e cittadini, artiste e operatori accorsa nelle passate settimane per proteggere il proprio diritto al lavoro e alla cultura. Il teatro è la “cosa pubblica” per eccellenza e lo Stato lo difende dalle sue cittadine e dai suoi cittadini.
Ci troviamo di fronte a un disastro diffuso, che si estende oltre i confini capitolini. Proprio per questo la situazione richiede attenzione a tutte le latitudini.
Un dato positivo è ravvisabile nella cura che la comunità cittadina e artistica sta ponendo sulla questione organizzandosi in un’Assemblea Costituente, dalla geografia variegata, che ha tentato dapprima un’interlocuzione politica e che, alla vacuità della stessa interlocuzione, ha reagito unendosi nel confronto allargato e nella progettazione collettiva di altri modelli culturali possibili.
Una cittadinanza attiva che non ha perito sotto i colpi dell’intorpidimento del pensiero e dell’azione politica profusi dalle destre al potere.
Sono stati diversi i momenti di raccolta dell’Assemblea Costituente in vari luoghi della città, e un nuovo appuntamento è previsto per domani 9 febbraio: una chiamata nazionale online, sotto lo slogan “Accendere i fuochi”, proposta per discutere i diversi punti in cui si articola il programma di revisione e immaginazione dell’Assemblea e per moltiplicare l’energia della lotta presso altri territori.
Per meglio comprendere le istanze del movimento che si è generato a seguito della nomina di De Fusco, abbiamo intervistato Ilenia Caleo, performer, ricercatrice e attivista de Il Campo Innocente e dell’Assemblea Costituente.
La nomina di De Fusco segna un nuovo capitolo della “saga del fallimento” della gestione culturale della città di Roma e scoperchia una condizione ben più grave, allargata oltre i confini temporali di quest’ultimo pasticcio romano. Allora, innanzitutto vorrei chiederti, cosa vuol dire fare cultura a Roma, una città in cui l’arte e la cultura esistono – lo si diceva durante una delle ultime assemblee – nonostante le istituzioni?
Un primo dato è che molte di noi sono artiste delle arti live contemporanee e non lavorano a Roma. La situazione, che è andata complicandosi sempre più negli ultimi anni, è gravissima.
Il Teatro Eliseo, che in passato si dedicava alla drammaturgia contemporanea, è chiuso nonostante un finanziamento pubblico di vari milioni di euro a Luca Barbareschi – persona che si distingue per le continue sottolineature sessiste e discriminatorie.
Il Teatro di Roma, composto da più teatri, dopo tre anni di commissariamento è nella situazione che conosciamo.
Ho fatto parte dell’occupazione del Teatro Valle, di quel grande, espanso collettivo di artiste e lavoratori e lavoratrici dello spettacolo che per tre anni l’hanno tenuto vivo, creando un esperimento che ancora si studia in tutto il mondo, eppure anche il Valle è chiuso e non si sa quando riaprirà.
Il Teatro Palladium è stato riconvertito e non si è capito ancora bene che cosa se ne stia facendo.
Alla Pelanda del Mattatoio era nato tre anni fa un progetto di residenze, alta formazione e programmazione, per la cura di Ilaria Mancia, che è stato interrotto. Quello del Mattatoio è uno spazio bellissimo, mobile, modulare, già predisposto per la scena contemporanea, ma è chiuso al pubblico per gran parte dell’anno e poi, ogni tanto, vi accade qualcosa, tra cui una delle poche cose ancora vive a Roma che è il Festival Short Theatre.
In Europa ci sono decine, centinaia di posti come quello, penso al Matadero di Madrid che è fatto allo stesso modo: un ex mattatoio, con diversi padiglioni che ospitano cinema, biblioteche, sale prove, in cui vengono programmati diversi spettacoli a sera.
In questo momento mi trovo a Parigi. Se mi metto a cercare gli eventi di oggi, posso scegliere tra 120 sale diverse che programmano teatro di prosa, danza contemporanea, performance, concerti e via dicendo. Se paragoniamo quest’offerta a quella romana, volendo fare un raffronto per similitudini culturali tra due capitali europee, è evidente che ci troviamo di fronte a un disastro.
A Roma non ci sono spazi, non ci sono politiche culturali, non c’è un reale investimento sul contemporaneo e sulla ricerca.
Questa è una condizione strutturale dell’Italia che negli ultimi anni si è aggravata sempre di più.
Nelle periferie – usando questo concetto vecchio che resiste solo in Italia, mente la maggior parte delle grandi città sono policentriche – l’esperimento dei teatri di cintura, nati sul modello parigino, ha riscontrato enormi difficoltà.
I festival sono definanziati, non esiste una visione sulle politiche culturali, funziona solo la logica dell’appalto, della spartizione delle poltrone e del potere.
In questa assenza, cosa accade? Non c’è qualità nella programmazione, non si produce a Roma, gli artisti, le artiste, le compagnie, i collettivi romani lavorano altrove, il pubblico rimane indietro rispetto alle forme di ricerca più avanzata e, inoltre, si produce un enorme bacino di precarietà.
Il lavoro artistico è intermittente per natura: ha momenti di intensità ma anche di preparazione, di formazione che spesso non sono quantificabili. Tutti questi elementi non sono mai stati messi a sistema, generando un’assenza di diritti, di welfare, di ridistribuzione e di principi di una continuità di reddito.
Roma è una capitale ma ha una vita culturale provinciale, residuale.
Quello che si produce a Roma di interessante accade fuori dai circuiti istituzionali perché esiste una ricchezza enorme composta da spazi informali, indipendenti, occupati che sono stati sottoposti negli ultimi 15 anni a un processo di epurazione.
A moltissimi spazi indipendenti, dopo anni di attività partecipate, autofiorite, vengono chieste cifre di restituzione di milioni di euro. Questi luoghi non solo non sono sostenuti ma vengono per di più azzerati, distrutti. Ecco significa fare cultura a Roma in questi tempi. In Italia possiamo dichiarare lo “stato di disastro culturale”.
Oltretutto, si produce la sensazione di una continua scarsità: la cultura non si esaurisce, non è una materia prima, più ce n’è più si moltiplica.
Gli accadimenti degli scorsi giorni, la “chiamata alle armi” di Siciliano e Gotor, il dietrofront post intesa da assegnazione di nuova poltrona, le risposte evanescenti durante l’incontro in Campidoglio, hanno segnato una frattura in quel dialogo che sembrava possibile con le Istituzioni. La saturazione dello spazio di espressione che le destre stanno mettendo in atto (come dimostra la militarizzazione con cui si è risposto alla mobilitazione) è un aspetto particolarmente pericoloso, soprattutto in un momento in cui sono in corso le pratiche di assegnazione dell’incarico a una figura manageriale. Dal punto di vista dell’interlocuzione con le istituzioni, come intendete procedere d’ora in avanti?
Gli interlocutori con cui ci siamo relazionati non hanno la preparazione né la sensibilità per affrontare questo discorso. Abbiamo avuto la precisa percezione che non sappiano niente di arte contemporanea, di processi creativi, di che cos’è il lavoro artistico e culturale.
Del prosieguo dell’interlocuzione se ne sta discutendo. La porta l’hanno chiusa loro. L’Assemblea ha dimostrato grande apertura, ci siamo assunte la responsabilità collettiva di questo dialogo, ma dall’altra parte non c’è stata nessuna proposta. L’Assemblea costituente è ampia, intergenerazionale, composta da artisti e artiste, operatori e operatrici, lavoratori e lavoratrici, e dunque è anche molto rappresentativa, per questo avrebbe potuto rappresentare per le istituzioni la possibilità di capirci qualcosa.
L’Assemblea non si sta chiudendo in sé stessa ma sta rilanciando verso fuori.
Il 9 febbraio faremo un’Assemblea nazionale online e l’11 febbraio ci sarà una chiamata in piazza. Moltissime colleghe e colleghi ci stanno chiedendo cosa sta succedendo: un teatro nazionale interessa a tutte e a tutti.
Come dicevi all’inizio, quello che sta accadendo a Roma è emblematico, è un sintomo di come è costituito il sistema culturale italiano.
La riforma degli Stabili, voluta dalla sinistra nel 2014, non ha dato vita a un modello operativo, specifico, geograficamente e culturalmente posizionato ma ha di fatto bloccato la produzione e la circuitazione dei percorsi di ricerca, danza, performance, nuova drammaturgia. E ora si parla di una riforma voluta dalla destra che dai presupposti non potrà che essere peggiorativa.
Dunque, non parlerei di chiusura ma di autonomia.
Dobbiamo smettere di aspettarci che a Roma una giunta di centro-sinistra faccia qualcosa di meglio di una giunta di centro-destra. Ciò non vuole dire produrre un atteggiamento nichilista anzi, il contrario. Vuol dire iniziare ad autorganizzarsi, connettersi, perché il nostro è un mondo molto frammentato.
Mi sembra che quello che sta emergendo da questa assemblea sia una dichiarazione di non subalternità alla politica dei partiti: la politica la facciamo anche noi, quella bella, quella dal basso, quella creativa, quella che ti consente di sentire la forza dei corpi di 300 persone che si parlano e si ascoltano in un’assemblea. Ce n’è tanto bisogno in questo momento. Con la destra al governo è come ci fosse una sorta di intorpidimento, non si è mai vista in Italia una tale assenza di movimenti, di mobilitazioni come questa, fatta eccezione per le grandi manifestazioni femministe di Non Una Di Meno.
Ci stiamo prendendo la nostra autonomia, stiamo dicendo: «adesso parliamo noi, ci dovete un po’ ascoltare».
L’assemblea è composta da una geografia variegata, che ha fatto emergere lotte politiche sotterranee sorte molto prima dell’affare De Fusco. Penso alla delibera sugli spazi, al precariato, alla tutela dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori in ambito culturale, all’egemonia delle poltrone. Intrecciare le lotte in maniera intersezionale potrebbe rafforzare le vostre posizioni e le vostre azioni?
Assolutamente sì. Forse vale la pena fare una piccola mappa, una genealogia delle lotte compiute nel tempo.
L’ultimo tra i cicli più potenti è stato quello delle lotte degli anni Dieci, che portarono all’occupazione del Teatro Valle e di decine di altri spazi culturali e teatrali in tutta Italia. È stato un momento di grandissima intensità e sperimentazione di cui le istituzioni non hanno fatto deposito e a cui hanno risposto con la repressione.
In quegli anni, ad esempio, le nostre lotte si intrecciarono quelle degli studenti e delle studentesse, di ricercatrici e ricercatori nelle università. Iniziammo a capire che molte questioni, molti elementi che caratterizzano il nostro lavoro e le nostre condizioni di vita non erano così eccezionali ed esclusive dell’ambito in cui lavoravamo.Questo patrimonio di lotte è un repertorio che dobbiamo assolutamente conservare e provare a riattivare. Così come va riattivato il discorso sulla precarietà, portato avanti in questi anni dai movimenti. Una precarietà sociale diffusa e quindi anche della richiesta di forme di reddito incondizionato, continuativo di vita, di esistenza.
Il settore teatrale ha una scarsissima sindacalizzazione, perché purtroppo anche i sindacati tradizionali hanno avuto difficoltà a interpretare la nostra specificità.
Nel patrimonio di lotte di cui sopra, vanno annoverati anche tutti i movimenti femministi.
Il Campo Innocente, il collettivo di cui faccio parte, ha provato ad articolare il discorso della discriminazione, della violenza maschile e del sessismo anche dentro il mondo dell’arte. Circola l’idea che l’arte sia un luogo molto accogliente e il che è vero, però è altrettanto vero che ci sono discriminazioni, violenza, omofobia, lesbofobia, transfobia, che c’è moltissimo sessismo. Negli anni abbiamo sviluppato questi temi anche in relazione alla precarietà, perché siamo più esposte al ricatto quando non possiamo dire di no a contesti lavorativi tossici o non sicuri.
Tutti questi elementi si sono congiunti in un momento che è durato poco ma che per noi è stato molto potente, quando nel 2021, ancora in pandemia, furono sospesi i bonus e noi del Campo Innocente insieme a CLAP – Camere del Lavoro Autonomo, Autorganizzat_ Spettacolo Roma, Presidi Culturali Permanenti e una rete di altri gruppi, occupammo per 5 giorni il Globe Theatre, che essendo aperto era l’unico posto che consentiva la cura reciproca. Dicevamo: «Recreate The Globe, rifare il mondo».
Da una parte, la lotta sul Teatro Nazionale sembra iper-specifica, quasi incomprensibile nei suoi grovigli, ma dall’altra sentiamo che tiene insieme molti nodi, può parlare a persone anche di contesti professionali differenti. Non è una lotta corporativa, solo per mettere a posto quella nomina, è un sintomo localizzato ma, al tempo stesso, dice di un sistema intero. «Non per noi ma per tutt», ci insegnano i rider e le rider.
La direzione di De Fusco ha scatenato l’indignazione generale per questioni di merito e di metodo. Una nomina che riporta in auge il clientelismo, che soffoca la pluralità di esperienze, di sensibilità di cui si compone la comunità artistica romana, e di cui il teatro pubblico della città dovrebbe curarsi e farsi garante. Cosa chiedete come artiste e attiviste, su quali punti intende lavorare l’Assemblea costituente?
Innanzitutto, vogliamo fare lo sforzo di allargare la questione sul piano nazionale. Vogliamo accendere dei fuochi, con l’idea che non si generino solo attestati di sostegno ma che si articolino, nei diversi territori, momenti di discussione e contestazione rispetto ad alcuni punti del sistema culturale.
Stiamo aggiornando la mappatura degli spazi romani per rafforzare l’elaborazione di progetti.
Un altro punto riguarda l’immaginazione: conosciamo i limiti di questo sistema perché li viviamo sulla nostra pelle ogni giorno ma vogliamo progettare modelli alternativi che sappiamo che possono funzionare, perché li vediamo esistere già altrove.
Un quarto punto riguarda la precarietà delle persone che lavorano al Teatro di Roma. Se guardi l’organigramma del Teatro di Roma, ti accorgerai che una grande parte delle lavoratrici e dei lavoratori che compongono uffici e reparti è precaria, scritturata, fino al 40% come denuncia CLAP. La situazione è questa da molto tempo e ora si sono aggiunti tre anni di commissariamento, un buco dal punto di vista delle politiche culturali, della programmazione, del progetto, della qualità artistica e tre anni di ulteriore precarizzazione: sono tre anni di vite delle persone.
In Italia abbiamo una questione salariale drammatica, siamo largamente sotto i livelli europei. Dunque, si sommano salari molto bassi − quando ci sono − e mancanza di forme continuative di reddito.
Forse un altro nodo che sarà affrontato è quello della formazione: su cosa stiamo formando i giovani e le giovani artiste, operatrici, registe, coreografe? Le proposte formative sono molto arretrate. È vero, la nomina sarà fatta e non è detto neanche che si rispetti l’accordo vergognoso che il PD ha siglato ma noi dobbiamo continuare a non fare sconti, a convocarci anche nello spazio pubblico, a provare a spiegare, a raccontare alla città perché questa cosa è così importante per noi.
Fare pressione, produrre pensiero; fare pressione produrre pensiero.
Non dobbiamo accontentarci, dobbiamo prenderci tutta l’energia che si attiva nei momenti di allargamento politico. Si chiama democrazia diretta, non c’è niente di più bello che metterci insieme a discutere, litigare, pensare il mondo. Un altro mondo.

Ornella Rosato è giornalista, autrice e progettista. Direttrice editoriale della testata giornalistica Theatron 2.0. Conduce corsi formativi di giornalismo culturale presso università, accademie, istituti scolastici e festival. Si occupa dell’ideazione e realizzazione di progetti volti alla promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.