A un anno dal debutto a Cà Tiepolo, in provincia di Rovigo, Olmo. Io corro per vendetta, monologo interpretato da Enrico Caravita scritto e diretto da Eugenio Sideri, torna a calcare le scene il prossimo 14 settembre, questa volta sulla riviera romagnola. Ispirato al campione della corsa ultra trail Marco Olmo, atleta protagonista di sfide estreme quali la Marathon des Sable con 230 km nel deserto marocchino, la Desert Cup di 168 km in quello giordano e la Desert Marathon in territorio libico. Ma anche della competizione sul Monte Sinai e in Martinica, per affrontare successivamente la corsa nel deserto della California e diventare campione del mondo a 58 anni nel 2006 vincendo negli oltre 165 km nell’Ultra Trail du Mont Blanc in Europa.
Una vita spinta sull’acceleratore, non solo per il brivido dell’avventura ma anche per un desiderio di riscatto esistenziale e di vita intensa, vissuta sempre fino in fondo. Poi, due anni fa, il suo incontro con il regista e drammaturgo Sideri, fondatore di Lady Godiva Teatro a Ravenna, che già con Inizia per A nel 2012, aveva portato a teatro la vita di Alfonsina Strada, prima donna a correre in bici in Romagna, in un periodo ancora pieno di pregiudizi e divieti. È nato così il monologo dedicato all’ultramaratoneta in cui la corsa e le sfide estreme sono metafora della vita e delle scelte radicali che questa può spingere a compiere, oltraggiose, per riprendere appunto un termine caro a Sideri.
Come è nato il monologo dedicato al campione di ultratrail Marco Olmo e quando lo hai conosciuto cosa ti ha colpito di lui?
Il monologo nasce da una suggestione di Alberto Marchesani, che è un runner di ultra trail e inventore dell’Epica dell’Acqua, una 100 km non competitiva che attraversa i suggestivi paesaggi del Delta del Po.
Ci conosciamo da tempo e, casualmente, parlando di alcuni protagonisti solitari delle mie storie (Alfonsina Strada, Filottete, ad esempio) una sera mi ha detto: “Ma tu la conosci la storia di Marco Olmo? Secondo me potresti farne uno spettacolo”. Questo succedeva quasi due anni fa. E la faccenda poteva finire lì… tante volte incontro persone che mi propongono personaggi e storie che potrebbero diventare narrazioni a teatro o spettacoli veri e propri… in fondo era capitato così con Patrizia Bollini, quando mi aveva parlato, nel 2012, per la prima volta, di Alfonsina Strada (e da allora raccontiamo la sua storia in giro per l’Italia e pure all’estero, con lo spettacolo Finisce per A).
Mi sono incuriosito. Ma chi sono, mi dicevo, questi matti che fanno ‘ste cose da matti”? E così Alberto mi ha prestato un paio di libri di Olmo. Ma solo dopo alcuni mesi li ho letti velocemente. E mi sono sembrati un po’ noiosi. Mi sembrava un mondo di persone davvero particolari (mi riferisco al mondo dell’ultra trail) … gente che sfida se stessa e il destino in condizioni climatiche assurde, dai ghiacci ai deserti con cibo e acqua razionate, in gare in cui i compensi sono coppe, medaglie e basta! Non mi sembrava materiale abbastanza interessante per scriverne uno spettacolo. C’era qualcosa che non capivo: al di là delle imprese sportive, che comunque appartengono ad una nicchia (seppur relativamente ampia) di sportivi, a chi potrebbe interessare la vicenda di un uomo che ha corso intorno al Monte Bianco per 167 km? E ha vinto, quella corsa a 57 anni, appunto la Ultra Trail Mont Blanc, davanti a sportivi allenati e preparati e più giovani, provenienti da tutto il mondo? Qualcosa non mi tornava e così ci siamo nuovamente incontrati con Alberto, a cena. Stavolta è scattata la molla: mi stava raccontando una corsa che lui stesso aveva fatto tra i ghiacci islandesi e a un certo punto ho visto nei suoi occhi la sconfitta e la rivincita, occhi lucidi che mi raccontavano di come ci si possa sentire sconfitti dalla natura, dagli eventi, dalle cose che ci succedono nella vita. E magari sono proprio quelle situazioni o parole o cose che ti sono successe alle elementari o da adolescenti o al lavoro, a scuola, magari quella ragazza che ti ha rifiutato, quell’amico che ti ha umiliato, quel capo che ti ha licenziato o semplicemente tu stesso che la sera, prima di andare a letto, ti guardi allo specchio e vedi il vuoto, che un altro giorno è trascorso inutilmente… Ecco, mentre mi raccontava questo, ho pensato a quante volte poteva essere successo anche a me e quanto siano stati importanti il teatro e la scrittura quasi anche a strumento di riscossa, di rivincita. È scattata la molla, dicevo: in quella chiacchierata ho intuito, credo, che c’era una storia che meritava di essere raccontata e che non era semplicemente una storia sportiva, ma qualcosa di più….
Da un anno porti in scena questo monologo. Che tipo di pubblico attrae?
Abbiamo recitato all’Epica dell’Acqua, al debutto, a Cà Tiepolo, nella cornice della splendida isola di Albarella, tra acque, canneti, casoni di pescatori e una natura che pare ancora incontaminata. Il pubblico erano i runners che stavano correndo le tre tappe di 100k in totale, completamente immersi nella Delta del Po… e tra il pubblico c’era Olmo in persona! Eravamo emozionatissimi! Alla fine, mentre il pubblico dei runners ci applaudiva entusiasta, Olmo è venuto in scena ad abbracciarci! È stata un’emozione incredibile! Era un pubblico di corridori, appunto, che conosceva benissimo Olmo e le sue imprese. Poi siamo stati in carcere, con i detenuti che ci guardavano sorpresi, un po’ forse perché disabituati al teatro, ma soprattutto increduli che un uomo potesse compiere imprese così e forse qualcuno si è un po’ ritrovato, vedendo le proprie sconfitte e cercando la forza per la rivincita. Poi i festival teatrali, con pubblico “teatrale”, che ha accolto commosso lo spettacolo, dandoci molta soddisfazione. Pubblici diversi, di vario tipo, in cui ciascuno trova, nella storia di Olmo, la sua personale storia, anche se non ha mai corso un passo…
In questo tuo lavoro, di riflesso, tu affronti anche il tema del tempo nelle sue declinazioni: quello legato alla corsa in sé, quindi al presente, al passato (al ricordo e al non detto), al tempo futuro come possibilità. In quale ti trovi più a tuo agio, nello scriverne?
Come dici tu, non c’è un tempo solo nella mia scrittura. Attraverso il tempo, in una corsa continua tra la memoria e il futuro, cavalcando il presente. È il presente del teatro che mi interessa, il suo farsi mentre succede, il suo hic et nunc: in quel presente che succede mentre si svolge la scena, ecco che avvengono le cose (azioni, fatti, racconti, emozioni, sorrisi, lacrime). È il tempo del teatro, che succede mentre si svolge lo spettacolo e che raccoglie tanti altri tempi, ma è come se ne disegnasse uno solo, mentre avviene. A me interessa quel tempo lì, sulla scena. Il resto è finzione.
Il tema della vendetta a cui si riferisce il titolo, invece, che ruolo gioca nell’avventura di Olmo?
È fondamentale. Ma non va intesa la vendetta come qualcosa di cattivo, di negativo, anzi. È la rivincita, la rivalsa, il trovare il proprio respiro, la propria strada verso ciò che ci rende compiuti, che ci fa sentire a posto con noi stessi. Ognuno ha la sua, ognuno corre la sua corsa.
In questo tuo lavoro dedicato a Olmo, l’attore Caravita cosa porta di se stesso e cosa porta di te sul palco (oltre al personaggio che interpreta)?
Enrico dice spesso che per lui l’attore è un corpo a prestito. Credo sia un’ottima definizione per rispondere. È compito dell’attore mantenere la propria verità per indossare il personaggio che non è mai altro da sé: è altro, ma sicuramente non finzione, almeno non nel senso che molti credono e che tanto teatro ha fatto credere. Partiamo sempre da noi stessi, da ciò che siamo, dalle nostre storie, dai nostri percorsi… è la verità che abbiamo addosso che ci fa indossare degli abiti diversi che, ognuno di noi, indossa a modo suo.
In questo caso Enrico è partito da un aspetto fisico: Olmo è molto alto, magrissimo, runner. Lui è più basso, robusto, pratica sport ma non la corsa. Ci siamo chiesti come avvicinarci ad Olmo, proprio sapendo la diversità e quasi subito è nato un gioco di dichiarazione d’intenti, metateatrale: “Ci vorrebbe che Marco Olmo venisse qui…”, questa la prima battuta dello spettacolo, una dichiarazione appunto d’intenti, in cui l’attore dichiaratamente afferma di non essere quel personaggio, di non assomigliargli, ma che ne racconterà le vicende come se fosse quel personaggio.
E poi la storia personale di Enrico, che ad un certo punto del suo percorso teatrale ha scelto di diventare un portuale (e lo è tuttora), per vari motivi, tra cui la sicurezza economica che il teatro non ti dà. Ha scelto la famiglia e ha scelto il teatro con la serietà e l’impegno di un vero professionista. Ecco, Marco Olmo, nella sua vita, era uno escavatorista, alla Unicem, un’azienda che produce cementi e calcestruzzi. Ha guidato, come operaio, l’escavatore per 30 anni. Enrico è partito da qui, dalla affinità con Olmo nell’essere, entrambi, operai e Olmo stesso, quando abbiamo chiacchierato, ha apprezzato molto la scelta di Enrico. Ha sentito l’affinità, l’empatia di avere cammini simili. Io stesso ho scavato nelle mie vendette, in quelle storie della vita che mi hanno dato e mi danno dolore. In particolare il mondo dell’adolescenza, il liceo, dove ho vissuto esperienza che mi hanno profondamente segnato.
L’avventura sportiva e umana di Marco Olmo che tu porti sul palco parla del rapporto dell’uomo con se stesso e i suoi limiti. Come sviluppare un monologo efficace che non cada nella retorica e nel già detto?
Non lo so… sinceramente non mi sono posto e non mi pongo queste domande, le considero un po’ dei falsi problemi. Mi spiego: da secoli, fin dai Greci, il teatro indaga sul rapporto dell’uomo con i suoi limiti. Il tempo passa e le opere si succedono, affrontando l’uomo sempre in relazione al tempo passato e ai nuovi presenti. Ognuno, credo, scrive e riscrive. Büchner diceva che “scriviamo sempre lo stesso libro”. Ecco, nel mio piccolo, anche io provo a scrivere il mio.
Olmo è una figura solitaria, che fa scelte estreme e, riprendendo una parola a te cara, oltraggiosa (perdonami, anche se è un uomo non ho resistito a fare questo accostamento). Oltraggiosi si nasce o si diventa secondo te?
Olmo è assolutamente oltraggioso, ci mancherebbe. Quando ho scelto questa parola per nominare il gruppo di adolescenti con cui lavoro da 5 anni (Le Oltraggiose, appunto) volevo proprio il significato antico del termine, quello di superare il limite imposto, da se stessi e dagli altri. Olmo, in questo senso, è davvero oltraggioso! Io credo che si possa nascere oltraggiosi e lo si possa però anche diventare. In ogni caso non basta un’indole ribelle, un desiderio, se vuoi anche innato, di rivalsa. Occorre coltivarlo, ampliarlo, portarlo a compimento nella vita stessa che attraversiamo. Voglio dire: posso anche essere arrabbiato con i limiti che la società impone, posso contestarli, fare rumore, ma non basta, occorre cercare una propria via, una strada per correre la propria corsa oltraggiosa e correrla tutta, fino a quando il respiro ci sosterrà. È spesso un percorso che si fa in solitaria e la solitudine fa paura. E non mi riferisco necessariamente a quella fisica, che comunque gioca il suo ruolo e la sua importanza, ma a quella mentale, di scegliere altri passi dentro a un sistema di cose dai sentieri già tracciati. Si tratta di impegno, costanza, determinazione e di obiettivi che scegliamo di porci. Ricordando che le vie, mentre le si percorre, a volte cambiano direzioni, ci portano altrove rispetto a quanto pensavamo, a volte tornano indietro. È una scelta forte e faticosa l’oltraggio. Sempre, comunque, in direzione ostinata e contraria.
Insegnante di italiano come seconda lingua, formatasi all’Università per Stranieri di Siena, giornalista pubblicista iscritta all’Ordine laureata in Filosofia e Beni culturali all’Università degli Studi di Bologna, una grande passione per il teatro. Pirandello, De Filippo, Pasolini e le avanguardie del Novecento i preferiti di sempre.